/13/ La morte dell'arte

La mia doppia vita è stata un costrutto perfetto in ogni particolare, chiedilo ai nostri amici, ai nostri ex professori, persino ai miei genitori se vuoi, non mi smentirebbero.
Sono stato impeccabile in ogni sorriso mostrato, ragionevole alla luce del sole come non mai, perduto nel labirinto di fama e di ammirazione a cui avevo sempre puntato. Ed i visi delle persone, oh, dovevi vederli! I loro occhi erano rapiti dalla mia figura, non mi macchio di fottuto narcisismo nel dire di esser stato l'incarnazione dell'ideale che tu hai lasciato scivolare fra le dita e non negherò di essermi dimenticato, anche solo per un istante, del passato.
Per un certo periodo non sei più esistito, forse un tuo vago ricordo stagnava in fondo alla mia mente, ma lo lasciavo a marcire senza troppo dispiacere. Sei stato annullato dalla frivolezza del successo, ecco ciò che ti è capitato.
L'abbraccio della città non è mai stato caldo come allora, quando non avevo più nulla di tuo.
Parlo dei primi mesi, dei primi due anni intrisi di rabbia e di rifiuto che più di qualsiasi altra emozione mi avevano spinto oltre a limiti che persino tu non avevi osato oltrepassare, sia che si trattasse di linee d'orizzonte annegate nel tramonto o di precipizi senza fine.
Ho raccolto i tuoi resti su quella terrazza, sotto una pioggia di cenere, e non so dire se li ho gettati nell'oblio delle sere in cui mi addormentavo da solo o li ho nascosti talmente bene da non riuscir più a riesumare ciò che sei stato per me.
Ma per quanto immacolato io potessi essere, ti nascondevi nella mia ombra e prendevi il sopravvento divorandomi nelle poche notti di riposo che mi concedevo. Raramente osavi mostrarti nei miei sogni, ma più avanti saresti divenuto protagonista indiscusso dei miei incubi; quando un tuo sorriso, uno sguardo, un qualsiasi tuo particolare faceva capolino fra i miei pensieri avevo assunto l'abitudine di scacciarti in malo modo ed il più velocemente possibile.
Lo sai e non te lo devo nascondere, in parte sono felice di non doverti raccontare nulla, ma dall'altra mi chiedo se non sia necessario essere un po' più sincero e dar voce anche alle cose più banali.
<Domani mattina passo da te, ti do le ultime scartoffie e beviamo un caffè> con queste parole Mina mi deposita sul palmo della mano un piccolo mazzo di chiavi e scompare dietro le porte dell'ascensore con cui siamo saliti al terzo piano del malconcio palazzo all'altro capo della via. Mi fisso le scarpe e piano metto a fuoco il logoro parquet su cui poggio. Davanti a me si staglia un numero metallico, un po' arrugginito, fissato per miracolo alla porta di un verde smorto che riconosco all'istante. È lo stesso monolocale dell'ultima volta.
Faccio scattare la serratura e con un calcio spingo dentro la borsa, la seguo a ruota quasi letteralmente perché mi butto oltre la soglia e per poco non inciampo. Chiudo subito l'ingresso, mi sigillo dentro questa stanza dall'odore di chiuso e in automatico mi chino strisciando con la schiena sulla superfice lignea che gratta i miei vestiti.
Prima che me ne possa render conto sto passando con fare nervoso le dita fra i capelli ed avverto distintamente il pulsare della testa al ritmo dei miei battiti.
<Che cazzo sto facendo?> sibilo certo di star avendo un crollo che, se non bloccato sul nascere, mi farà tremare in preda all'ansia. E per cosa poi? Per la missione? Per il casino che ho creato? Per te?
Per tutto, sì, forse proprio per tutto quello che sta succedendo.
Vorrei che le persone potessero privarsi della paura, perché essa mi assale quando devo guardarti, sfiorarti, baciarti ed ora che ti penso.
Quanto desidero il tuo sguardo adesso e quanto cerco di far sparire l'immagine del tuo volto dai miei pensieri, quanta contraddizione in me, nel mio corpo che sussulta seguendo i miei respiri che si alternano nell'essere corti, poi profondi, veloci ed infine assenti.
Mi celo alla tua maniacale attenzione quando sento crescere il solito grivoglio di emozioni nello stomaco, ma adesso non ne ho bisogno, tu non puoi vedermi.
Mi posso calmare, ormai è un'abitudine, basta farsi più piccoli e tenersi stretti; inizio a contare, ad imporre il silenzio nella mia testa e forse, dopo alcuni interminabili secondi, ho la forza per tirar su il collo e tastarmi le guance. Asciutte, meno male, saranno arrossate però.
Finisco per sedermi a terra, sto ancora ripetendo mentalmente qualche decina di numeri; è diventato così naturale, sarà un bene? Mentre mi derido per la stupida domanda ho già la risposta: no, altro che bene, questa è una vera angoscia che mi grava addosso.
Non ricordo e non mi importa di quando siano incominciati questi momenti di estenuante alienazione in cui sembro estraneo a tutto, anche a me stesso, ma mi chiedo quando finiranno. A guardarmi, cosa penseresti? Sono mutato in un corpo troppo sensibile al tuo tocco, odio il come stia cercando di nascondertelo.
Sono finito per utilizzare con te la stessa maschera che ho indossato un tempo e mi pento ogni giorno per la sincerità a cui rinunciamo. Ci siamo retti con mani tremanti, tanto vale lasciarci cadere piuttosto che continuare a vivere in precario equilibrio sui fili dei nostri sentimenti.
Smetto di correre con i pensieri, qualcosa di spiacevole ha preso il sopravvento e fatico a trovare la volontà per alzarmi e dimenticare questi ultimi minuti.
Non riesco ad immaginare il mondo senza la tua pelle delicata e cosparsa di lentiggini, non senza i tuoi riccioli disordinati che mi solleticano il collo dopo esserci addormentati, non con la mancanza di un tuo sorriso al mio fianco. Non posso farlo, non posso chiederti di spezzare quel che ancora ci tiene legati, perché non ho smesso di amare neanche i tuoi lati negativi e non ho avuto la possibilità di dirti come questi ultimi riescano a farmi sentire amato nella loro freddezza.
Abbiamo tempo, lo prometto: farò sì che il dolore si trasformi una volta per tutte in distanti memorie.
Siamo fiori di carta che annegano nel rimpianto, lo puoi negare? Ci addossiamo troppe colpe e rifiutiamo ogni sollievo. La luce ci scolorisce, l'ombra, per contro, cela la nostra bellezza e non conosciamo compromessi: rinunciamo a molto per ottenere poco e queste misere lacrime che versiamo ci appaiono in grado di colmare mari interi. Strabordiamo di emozioni, senza rendercene conto commettiamo questo enorme spreco.
Hai una tale gentilezza nel chiedermi aiuto, non dovresti mentirmi, eppure neghi le tue stesse azioni e scuoti la testa quando ti tendo la mano. Ti affidi a te stesso, lo hai sempre fatto, non dovrei stupirmene, ma davvero non riesco a far a meno di struggermi nel vederti sgretolare le flebili speranze che di sicuro nutri per noi. Per quanto continuerai? Cosa farai quando tutti questi sforzi si riveleranno vani? Non è con il silenzio che questo tira e molla finirà ed io ho ascoltato per troppo tempo la calma dei tuoi passi; ti avvicini solo per sfiorarmi, per tentarmi, per illudermi ed anche se potessi confortarmi confutando le mie amare conclusioni non so se riuscirei a crederti. Ho bisogno di molto di più, ma non so di che cosa e tu, che puoi indagare nel mio animo, forse non hai rimedio per questa maledizione che non mi lascia riposo e mi porta a nutrire un'insoddisfazione continua. E purtroppo lo so, so di essere un libro aperto ai tuoi occhi e per questo fuggo.
Ho il terrore del tuo giudizio, della persona che amo e che ho distrutto, perciò perdonami se mostro con così poco pudore le mie ferite, perdonami se chiedo pietà in questo modo così codardo. Non lo vedi? Ti ho ridotto a passar giornate intrise di angustie, a guardarmi con un'ammirazione che non merito, ad attendermi con il cuore in mano dopo lunghi turni di lavoro, ad amarmi a fatica e mai con leggerezza e a sopportare questo amore per me e non con me. Ci siamo ridotti a desiderarci nel peggiore e nel più piacevole dei modi: con avidità.
Sei lontano, ma sono stato io a dirti di attendere e di non sforzarti per stare al mio passo, così sono finito per srotolare troppo il gomitolo e ho svoltato troppi angoli senza accorgermi dei nodi che mi lasciavo alle spalle. Ad un certo punto la sottile corda si è impigliata e quando, perso nel dedalo, ho cercato di tornare indietro, ho scoperto che si era disfatta a furia di strattoni. Sono qui che ti aspetto, pur sapendo di potermi impegnare e vagare alla ricerca della via di casa, io sono seduto sul pavimento di questa stanza con il fiato corto ed il petto che sembra voler scoppiare da quanto lo sento ricolmo di preoccupazione. Avrò il coraggio per muovermi? Starò qui al freddo ancora a lungo? Dove sei adesso? Mi stai cercando? Mi odi? E se fossi qui quali acide parole mi rivolgeresti? Sei divorato dal mio pensiero come io lo sono dal tuo? No, questo no, non dedicarmi più attenzione di quanta non meriti, non permettermi di ferirti.
<Non cercarmi> ingoio un singhiozzo, pronunciare queste sillabe mi è parso l'unico modo per dar sfogo ai tormenti che mi assillano, ma mi sono strozzato da solo. Prima che me ne renda conto mi sto lasciando andare completamente.
Non riesco a sentir mie le lacrime che corrono rovinose sul mio volto e scendono lungo il collo. Sono gelide, non le sopporto, tuttavia...piu le cancello, più ne scendono. È un circolo vizioso a cui non posso porre un freno e le mie mani, non so perché, stanno sfregando la mia pelle e mi sembra che tagli e ferite si stiano aprendo dove le dita premono. Mi sto stringendo alla gola, non so per cosa, probabilmente cerco di mettere a tacere la voce spezzata che risuona come un disco rotto e si distorce nel pianto in cui mi sono rifugiato.
Odio questa ristretta intimità che mi impongo quando vorrei condividere con te questi momenti di fragilità; ne sarò soffocato presto o tardi e spero che in quel momento tu sia con me. Ma non posso rimangiare le frasi taglienti che ti ho rivolto, né posso ignorare quelle che non hai saputo pronunciare e che, nella loro assenza, hanno fatto più male del dovuto. Avresti potuto dirmi quanto stessi sbagliando nel volerti tenere a tutti i costi al riparo dal mondo che hai abbandonato, nel divorare ogni tua volontà di avanzare oltre la soglia di casa, nel volerti vicino, ma distante al contempo, nel non darti la possibilità di ritrovare lo stesso affetto di un tempo quando ci stringiamo in un abbraccio che nulla ha più di un sapore dolce e sfumato con l'asprezza della nostalgia. Poiché tu puoi ancora rimembrare il calore degli anni passati, meglio di quanto mi sia concesso ora che sono annebbiato da turbinosi sentimenti a te sconosciuti e ti invidio e ti disprezzo per questo.
Hai scelto di tacere e di ricorrere a folli idee come quella di risolvere tutto subito e con una facilità che nessuno di noi si può permettere. Siamo persone complicate e come tali dobbiamo esser fedeli a noi stesse, bizzarro, vero?
Dettiamo la nostra stessa condanna in ogni sguardo che ci rivolgiamo. Ammiriamo, contempliamo, fraintendiamo spesso e volentieri e costruendo inutili ragionamenti ci lasciamo appassire; studiandoci soffriamo e conoscendoci moriamo un poco ogni giorno. Arriverà il momento in cui non avremo più nulla da dare, né da restituire, perché noi ci permettiamo di elargire amore con troppa sconsideratezza e non riusciamo a raccogliere le foglie secche che il vento porta l'uno all'altro. Le vedo nella notte, mi inseguono, mi chiedono di non esser abbandonate a se stesse, ma io mi sono ormai accomodato nel ruolo di spettatore e vedere quei resti consumati dal tempo volare a terra è come assistere ancora e ancora alla tua caduta. Mi impongo questo male non per te, né per me, solo per la sua necessità, per il fatto di non saper vivere senza un tale tormento.
Non sono l'uomo che desideri, non se necessiti di qualcuno che sappia accogliere la tua avventatezza e che si possa offrire a te inerme, pronto ad esser divorato. Ciononostante non vuoi altro all'infuori di me e non so più se questo sia un privilegio o meno. Le tue mani mi stringono con la stessa forza a cui ho rinunciato e mi rendo conto di essere ingiusto con entrambi a farmi tanti problemi a scriverti un messaggio o a chiamarti giusto il tempo di uno squillo, solo uno, per farti sapere che ti penso.
Quasi come una presa in giro il mio cuore minaccia di fermarsi quando qualcosa prende a vibrare insistentemente al mio fianco. Non riesco a muovere un muscolo per alcuni secondi, poi sfilo il cellulare dalla tasca e lo stritolo per non farlo cadere. Quattro lettere spiccano sulla schermata e la loro vista mi fa percorrere da una scossa inattesa. Non mi prendo il tempo per pensare, contravvenendo a quel che ti avevo detto il mio dito scorre verso destra ed avvicino il telefono all'orecchio; le mie labbra tremano, non dovrei essere in attesa di un suono, un sussurro dall'altro capo del telefono, in fondo sono stato io a dirti di non sopportare questo modo di parlare. Sa di finto, comunicare tramite queste onde radio, non rendono quanto una conversazione vera e propria.
Eppure resto e per un breve istante credo di aver sentito un fruscio, i miei occhi corrono lungo il pavimento e saltano dalla ristretta cucina, al tavolo, fino al letto nell'angolo della camera, cerco una distrazione per mandar giù il groppo che sento in gola. Voglio dire il tuo nome.
<Kacchan?> mi precedi ed il coraggio che avevo raccolto si dissolve.
<Non pensavo che avresti risposto, ma non parlare se non vuoi> riesci a leggermi persino con questa distanza che ci separa <Ti ho chiamato qualche ora fa e hai riattaccato subito, in verità non volevo neanche ritentare e con ogni probabilità non l'avrei fatto se fossi stato a casa>. Mi confessi con naturalezza le tue intenzioni, mi sento sollevato, non mi hai cercato per trovare conforto. Sì, ricordo di non aver risposto.
<Sono da Kirishima, mi ha detto di restare a dormire e non me la son sentita di rifiutare. Sono venuto fin qua in moto e non volevo restar solo a dirla tutta> prendi una pausa, credi che ti possa rivolgere qualche frase sconnessa? Cosa vuoi che ti chieda? Non voglio rischiare di sbagliare domanda. Stai bene? Hai davvero guidato da solo? Rassicurami, per favore.
<Volevo vederti, forse all'inizio ti avrei anche costretto a tornare indietro con me, ma ora non ho davvero voglia di discutere> dal tono che assumi, tirato e con un accenno di nervosismo, capisco che hai parlato con Eijiro proprio come avevo previsto.
<Non voglio stare ad ascoltare altre motivazioni, non ne posso più di sentirle raccontate da chiunque all'infuori di te. Ma non voglio neanche chiederti di spiegarmi perché voglio credere di conoscerti> con questo vorresti farmi intendere che non ti importa degli assurdi processi mentali che mi hanno portato a ripiegare nuovamente sul lavoro per evitare i problemi, ma una nota non torna. Non puoi affermare questo, non puoi dirmi che non hai cercato di fornirmi una motivazione valida, non posso crederti.
Torno a tastarmi la pelle con concitazione, sono certo di avere un'aspetto orribile, consumato addirittura. Tra qualche ora sarà tutto passato, avrò gettato nel dimenticatoio questa chiamata, così mi auguro.
Non ho smesso un solo istante di strabordare in lacrime che poco a poco hanno perso di significato. Solo tu puoi ridurmi in questo stato e solo tu ha sempre occasione di assistere allo scempio in cui mi trasformo.
<Ti odio, ma non posso fare a meno di amarti> ammetti in un sospiro e un moto di felice aspettativa si innesca in me.
<Anche io> ti ho risposto, ma ricado subito nella malinconia. Non voglio illuderti, né mentirti: non sto uscendo dal palazzo, non sto ripercorrendo le luride strade che mi hanno portato fin qua, non sto tornando.
Un briciolo di consolazione resta comunque legato al mio cuore all'idea di star ascoltando i tuoi pensieri privi di filtri e che tu possa immaginare i miei. Siamo diventati sinceri almeno in questo.
<Non nasconderti, lo so quando stai piangendo> una breve risata tradisce il mio intento di apparire serio.
<Lo so> singhiozzo e cedere ora che puoi ascoltarmi mi dona una leggerezza a cui anelavo nel profondo. Ecco che il mio desiderio viene soddisfatto in un gesto momentaneo; presto ci saluteremo, non so come, ma la fine incombe alle nostre spalle e tu che riesci a comprendermi non fai nulla per impedirmi di approfittare di questa tristezza. È la scelta migliore che tu possa fare e vorrei rivolgerti un qualunque ringraziamento per essermi accanto, anche se non fisicamente.
Nessuno di noi desidera l'altro adesso, nessuno di noi rifiuta l'altro. Accettiamoci per questa notte, non sappiamo cosa ci attende domani, perciò piangiamo prima che sia tardi e che giunga l'alba a destare il senso di disagio e di imbarazzo che dovremmo provare.
<Fai finta che ti stia baciando, farò lo stesso> mi dici, non per farmi un favore e darmi almeno una fune a cui aggrapparmi per risalire, no, mi fornisci una così piacevole immagine per lasciarmi sprofondare. Va bene solo perché sei tu a chiedermelo.
Le mie gambe tremano ancora, ma quando riesco a riportare alla mente l'ultimo tocco delle tue labbra sembrano essersi bloccate. Non riuscirò a sollevarmi decentemente, già mi prospetto di dormire così come sono adesso.
Che mente delicata la nostra, capace di concepire tali spettacolari sensazioni, vorrei cristallizzarmi ed esalare un ultimo respiro per vivere per sempre con la memoria del tuo bacio che lambisce la mia carne.
<Non basta> sì invece, è abbastanza, ma voglio dar fondo alla cupidigia che hai risvegliato.
<Neanche a me> mi stupisci con quest'improvviso cambio di rotta. Eravamo vicini alla verità, ad ammettere i nostri difetti, tuttavia ce ne siamo allontanati con facilità. Non riusciremo mai a comprenderla davvero, non facendo un passo indietro ogni qualvolta si avvicini.
Giro la testa di lato, sento il collo scattare dolorosamente da tanto ero teso fino a poco fa, mi assicuro di non sopprimere nessun sussulto quando lascio cadere il cellulare. Rimbalza un paio di volte e veloce produce un colpo breve e conciso. Sento un mormorio distante, credo che tu mi stia dando l'occasione per salutarti o per sentire un tuo "ti amo", ma preferisco convincermi del contrario, del fatto che tu stia in realtà aspettando un mio fugace addio e che, dopo un'attesa di pochi minuti, tu riesca a riagganciare sapendo che non ho smesso di rivivere la tua richiesta e che a causa di questa sto continuando a permettere a rivoli salati e amari di scavare il mio volto.
Perditi come ho potuto fare io, se puoi, e quando sarà passato l'inverno, ti ricorderai di me?

Eccomi di nuovo qua!
Pubblicare questo capitolo ha lasciato una certo gusto amaro. Vorrei specificare che Katsuki non intende "inverno" come stagione, ma piuttosto come l'abisso in cui sono finiti i loro sentimenti, le foglie secche, per credenza, sono presagio di fine (non disperate però, nulla è ancora detto) e a concludere la morte dell'arte proviene dal tanto amato *coff* odiato *coff* filosofo Hegel, il quale intendeva fornire, tramite questa nozione, l'impossibilità di tale attività umana di raggiungere la verità e l'amore è arte, non credete?
Come ho già detto, non voglio schierarmi anche se sono proprio io, come autrice, a dettare le regole del gioco. Io mi lascio solo trasportare dalla corrente e come voi non so dove finiranno questi due ragazzi. So solo che sto già pregustando i prossimi aggiornamenti, voi no?

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