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Ho vissuto l'infanzia alla costante ricerca del mio posto nel mondo, ignara di quale esso fosse, bramosa dell'indipendenza concessa agli uomini e negata invece al gentil sesso; un posto che non avessero scelto i miei genitori, tanto meno le tacite regole a cui una donna rispettabile doveva attenersi per non assaporare il gusto amaro dell'emarginazione e del disprezzo.
Da fanciulla solevo seguire la nostra governante al mercato per la spesa giornaliera. Mia madre diceva che dovevo imparare a distinguere il cibo di qualità da quello scadente affinché la servitù non potesse approfittarsi della mia ignoranza in materia, acquistando alimenti di terza scelta intascando così il denaro restante. Era necessario che affinassi vista e palato, per poter gestire al meglio la casa del mio consorte e della nostra progenie. Le chiesi se, per essere una brava sposa, dovessi imparare a svolgere anche i lavori domestici, in modo da dare il buon esempio; il mio tono fu caustico, provocatorio, consapevole dei miei effettivi doveri di futura padrona, ma lei mi guardò comunque orripilata, il volto pallido e il fiato bloccato in gola come un'oliva andatale di traverso. «Certo che no, figlia mia! Chiunque saprebbe distinguere una stoviglia sporca da una perfettamente pulita! Devi solo avere il polso fermo, per quello, farti rispettare.» Non le dissi di come Beatrice nascondesse la polvere sotto al suo letto, ignara della mia presenza, accelerando così le faccende. Temevo di far sentire mia madre poco autoritaria e alquanto sciocca – anche se non aveva mai elencato intelligenza e arguzia come requisiti necessari al ruolo di moglie, qualità che di certo non possedeva –, ma soprattutto avevo paura che gettasse la povera Beatrice in mezzo alla strada.
Il Venerdì mattina, come di consueto, ci recavamo al porto per acquistare il miglior pesce della regione. Ci levavamo che il sole non era ancora sorto e, a bordo della carrozza, attraversavamo le vie strette e buie del borgo fino a distinguere gli alberi maestri dei pescherecci di ritorno.
Da sempre invidiavo il mare: libero di cullare i fondali marini, consumare con le proprie carezze gli scafi delle imbarcazioni, ribellarsi alla monotonia con le sue correnti impetuose; ogni onda era diversa dalla sorella, un continuo rincorrersi e sfuggirsi fino a sparire nel ventre del padre oppure morire sulla costa, in un tripudio di spuma e schizzi come fosse una festa e non uno struggente addio. Avrei voluto salire su una piccola imbarcazione a remi e allontanarmi dalla costa, verso l'orizzonte infinito e senza alcuna meta.
Le reti venivano sollevate dalle braccia robuste dei marinai con centinaia di code che si dibattevano nel tentativo di sfuggire a un destino già segnato, e il loro contenuto riversato sul piccolo ponte perché i membri dell'equipaggio potessero riempire secchi, botti e cassette di legno del prezioso bottino. Frida sceglieva sempre i pesci più tenaci, quelli che provavano a sgusciar via dalle mani callose dei propri carnefici fino all'ultimo secondo, prima di essere incartati e riposti nella cesta appesa al suo braccio.
Ricordo quei giorni con spaventosa chiarezza, preludio di un incubo ad occhi aperti, reale e tangibile come queste pagine raggrinzite.
Oltre le vele ammainate delle navi da pesca, infatti, si intravedevano i fumaioli dei piroscafi mercantili, le cui stive traboccavano di filati, spezie e incensi. Purtroppo, non erano le sole cose che avevano viaggiato attraverso l'oceano Indiano.
Con loro, arrivò il colera.
Si diceva che l'aria, rimasta chiusa in quelle casse, fosse maligna; un miasma che avvelenava il corpo, consumandolo dall'interno.
La prima ad ammalarsi fu proprio Frida, il cui unico peccato era stato barattare una moneta in cambio di un fermaglio esotico. Quel piccolo capriccio di vanità portò l'orrore nella nostra casa. I domestici caddero come mosche, vittime del morbo, e i medici chiamati a curarli sembravano impotenti dinanzi un tale scempio. I loro rimedi – purghe, salassi, cinte di lana – non sortivano alcun effetto. La servitù fu decimata nel giro di poche settimane e la mia famiglia si rintanò in una stanza, in preda al terrore.
Quando avvertii i primi sintomi era già troppo tardi. Avevo contratto il male e sapevo che sarei spirata entro pochi giorni. Guardavo i miei genitori, lacrimando via gli ultimi barlumi della mia esistenza, colma di tristezza e rimpianto. Il destino, tuttavia, aveva pianificato per me una sorte diversa.
Alla nostra porta bussò un dottore che nessuno aveva mai visto in città, un giovane straniero dai modi gentili e la voce ferma. Sento ancora il calore della sua mano sulla mia fronte imperlata di sudore, col ventre scosso dagli spasmi e le energie che si facevano sempre più esigue, abbandonando le mie membra stanche. Ci disse di non aver paura, di spalancare le finestre e lasciare che l'aria entrasse a riempirci i polmoni, saturi del tanfo della morte. Ordinò di attingere acqua dal pozzo più lontano che potessimo raggiungere, uno distante dai liquami nauseabondi che infestavano le strade, imputridendo i cadaveri accatastati agli angoli delle abitazioni in attesa di una sepoltura ancora lontana. Preparò una bevanda dal gusto salino e, dopo averci rassicurati raccomandando un'alimentazione varia e non troppo scarsa, lasciò la dimora.
Tornò ogni giorno per controllare il mio stato di salute e, nonostante le perplessità dei miei genitori nel mettere in pratica i suoi consigli poco ortodossi, grazie a lui riuscii a sconfiggere la malattia. La mia famiglia si profuse in sentiti ringraziamenti, offrendogli un lauto compenso per aver salvato la loro unica figlia. Lui, da gentiluomo, rifiutò qualunque cifra proposta dicendosi rallegrato dalla mia costante ripresa. Eppure sapevo che anelava qualcosa che non osava chiedere, un desiderio che cresceva di volta in volta nel suo sguardo fattosi più profondo, affettuoso. La stessa emozione iniziava a farsi prepotente nel mio petto.
Aveva una visione del mondo talmente diversa da quella che ero abituata a subire, che ogni suo sussurro per me era rivolta, un'insurrezione della mente verso i dogmi di un sistema ottuso e ristretto: da qualche parte, oltre i confini della mia terra, esistevano donne che studiavano per affermarsi, diventare parte attiva di un cerchio che le voleva ai margini, semplici pedine degli uomini; ero affascinata dai suoi racconti e ancor più dalla sua persona.
Le mie gote si accendevano a ogni parola pronunciata da quelle labbra tanto gentili, al punto da sentire il volto in fiamme e il cuore battere come le ali di un colibrì impazzito. Volevo che l'orologio si fermasse per poter godere ancora della sua compagnia, ascoltare dei suoi viaggi e bere la sua conoscenza.
Invece, così come era apparso, il medico sparì senza lasciare traccia, portando con sé il sentimento acerbo del mio primo amore.
Le settimane divennero mesi, i mesi si tramutarono in anni.
Per quanto avessi tentato di sfuggire al fato, le catene del patriarcato mordevano le mie caviglie, facendole sanguinare con esasperante costanza. A nulla erano valsi i miei atti di protesta, le risposte taglienti e gli atteggiamenti indisciplinati, se non ad acuire quel senso di impotenza che mi strisciava sottopelle da sempre e a inasprire il rapporto con i miei genitori.
La notizia del mio imminente fidanzamento non avrebbe dovuto cogliermi di sorpresa, dopotutto ero in età da marito: era giunto il momento ch'io lasciassi la mia casa natale e mi affacciassi sul futuro, fatto di ricami, chiacchiere vuote e servile obbedienza. Ero certa che mio padre avesse scelto un alto funzionario, oppure un mercante facoltoso che avrebbe accresciuto la nobiltà della nostra casata, incurante del mio volere e di qualunque mio sogno. La libertà per una donna era un'utopia, un concetto tanto lontano quanto rivoluzionario, un vero e proprio atto di ribellione verso il creato.
Il giorno in cui avrei dovuto presentarmi al cospetto del mio pretendente avevo la sofferenza annidata tra le costole, in procinto di corrodermi l'anima. Mentre mia madre stringeva il corsetto per rendere la mia figura armoniosa, non riuscivo a non pensare al fatto che stessi per lasciare una gabbia solo per abitarne un'altra.
Avrei voluto spogliarmi di tutto, correre lontano e non voltarmi indietro.
Avrei voluto scegliere la persona da amare, custodire nella buona e nella cattiva sorte, sorridendo al domani con inesauribile fiducia. Qualcuno che mi considerasse suo pari e non una proprietà da sfoggiare in occasioni mondane.
Sapevo perfettamente che tutto ciò era impossibile.
Quando entrai nel salone, pronta ad accettare la mia condanna, lo stupore si dipinse sul mio viso incipriato nel riconoscere la figura dell'uomo che, anni prima, aveva preso il tè in nostra compagnia sul medesimo divano color porpora. Nonostante i capelli fossero più lunghi, il mento coperto da una sottile barba e gli angoli degli occhi arricchiti da piccole rughe, avrei riconosciuto il suo sguardo tra mille: profondo, affettuoso e, adesso che non ero più una ragazzina ma una giovane donna, appassionato.
Colui che sarebbe stato proclamato mio legittimo sposo era lo stesso individuo che mi aveva strappata da morte certa.
Il Dottor Grisha Jaeger era stato la chiave che aveva liberato la mia coscienza e, in quel preciso momento, divenne le mie ali per spiccare il volo.
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