27° parte

Luis

La guardo dormire, e non riesco a capire cosa provo...

È tutto così confuso, tutto così offuscato. La guardo dormire e mi sento, non lo so... sporco. Come se lei fosse una droga illegale, una droga bastarda che non dovrei assumere.

La guardo dormire e mi sembra di puzzare, proprio come quando ero un ragazzino.

La guardo dormire, e mi sembra proprio di essere un ragazzino, però a tratti sembra positivo, perché in me non c'è il Luis del passato, ma c'è una persona nuova, che non conosco e che mi fa paura.

Perché se c'è una persona che temo più di qualsiasi altra cosa: sono io.

Luis teme Luis. Da sempre, e sarà sempre così.

La guardo dormire e mi sento veramente in una favola, in un film, o in uno dei libri d'amore che legge mio figlio.

La guardo dormire, abbandonata al mio petto che fa su e giù troppo velocemente dato il casino che sto provando a causa sua... ed è così tranquilla, così serena, una bambina, mi sembra di rivedere mia figlia adolescente che si addormentava sulla mia spalla, ma è diverso, sono sicuro che è diverso. Erika non è mia figlia, e io non la vedo come tale.

La guardo dormire... e sono convinto che qualcosa mi sta succedendo. Perché mi perdo a guardarla, ad accarezzarle il viso, a dargli pezzi di me, e voglio che lei capisca che non sono pezzi insignificanti.

La guardo dormire... e a un certo punto non ce la faccio più.

Chiudo gli occhi, e rivedo quel ragazzino, non quello nuovo, ma il vecchio me.

Chiudo gli occhi, ma lei c'è ancora, e poi li riapro per paura che possa fare la sua conoscenza.

Con molta fatica, cerco di scansarla da me, facendo attenzione a non svegliarla.

Con molta fatica perché non avrei voluto farlo, sarei rimasto tutta la notte a guardarla fino a domani. Ma non ce la faccio...

Non ce la faccio, ma vorrei tanto farcela.

Non appena mi alzo, Erika rimane con la testa poggiata sul divano, con le gambe piegate.

La guardo ancora, ancora e ancora, e alla fine la sollevo sulle mie braccia.

È così vulnerabile in questo momento, mi ispira speranza.

La speranza della mia vita, dopo aver perso tutto ciò che mi rendeva umano.

La porto nella sua camera e la sistemo sul suo letto, la copro con un lenzuolo, e chiudo un'anta della sua finestra completamente aperta.

Per poi avvicinarmi ad Erika.

Mi siedo vicino a lei e le sussurro qualcosa.

«Insegnami a volare, perché io ho perso la magia per poterlo fare.»

Le lascio un bacio sulla fronte, le scanso i ricci ribelli da davanti gli occhi, e poi mi alzo, senza più guardarla, perché so che se l'avessi fatto un'altra volta non avrei trovato la forza per andare via.

Sarei rimasto lì, di fianco a lei, sul suo letto, e forse questa notte sarei riuscito a chiudere occhio, consapevole del fatto di averla vicino a me.

Quando entro in macchina, finisco per rimanere fermo nel parcheggio... titubante, scioccato, debole, è così che mi sento.

Sento di essere tutto quello che da me non vorrei mai, sento di essere quello che non vorrei mai vedere in nessuno.

Odio la debolezza, odio lo smarrimento, odio tutto ciò che mi induce a essere così patetico.

Alla fine metto in moto, e senza accorgermene mi trovo in un quartiere che conosco bene, il posto in cui ho vissuto da bambino.

Ma non scendo, mi guardo intorno... posso vedere un me con il pallone in mano, lo faccio girare su un dito e poi lo lancio a un mio amico che lo afferra subito e inizia a calciarlo.

Posso vedere un bambino con degli stracci addosso, un bambino che nessuno notava perché veniva dai bassi fondi, e da una casa che puzzava terribilmente di alcol e fumo.

Per questo stavo la maggior parte del tempo fuori casa, odiavo la puzza che emanava quell'appartamento.

Odiavo le persone che frequentava mia madre, e soprattutto odiavo lui!

Improvvisamente sfreccio via da quel quartiere, e finisco per andare a casa di mio padre.

Per quanto abbia detto a Erika che quell'appartamento fosse il mio posto felice... è anche un posto drammatico.

Mio padre ci è morto lì dentro.

Anzi, si è ammazzato lì dentro, e sono stato io a trovarlo...

Quando scendo dall'auto e mi avvicino alla serratura per aprire la porta, mi accorgo che c'è la luce accesa.

Afferro la maniglia ed entro.

C'è qualcuno dentro, perché la porta era già aperta prima ancora che lo facessi io.

Vado in giro per casa senza parlare, non sono preoccupato, perché immagino di sapere chi si sia intrufolato.

E infatti alla fine lo trovo in camera da letto, a sfogliare delle vecchie foto che ancora devo portare a casa, ma non penso che lo farò mai.

È la scatola che aveva trovato Steve, le foto che ritraevano una donna, le foto strappate che tanto mi sono divertito a ridurre in brandelli.

Però non ci sono solo quelle.

«Quindi sei ancora in città?!» Ryan sussulta non appena mi sente parlare, dato che era talmente preso da quelle fotografie non deve aver sentito che qualcuno è entrato.

Classico di Ryan, qualcuno potrebbe anche fargli un attentato di omicidio, ma lui non se ne accorgerebbe, non perché è stupido, perché semplicemente è così ingenuo da pensare che nessuno mai potrebbe essere così malato da uccidere un altro essere umano.

«Cazzo, amico, appari così dal nulla tu...»

«Potrei farti la stessa domanda, sai! Che cazzo ci fai qui?»

Si alza dal pavimento e mi viene incontro.

«A casa non c'eri, quindi ti sono venuto a cercare qui, ma non c'eri neppure... ti ricordi la chiave che mi hai dato tempo fa?!»

Certo che me la ricordo, sapevo che ci fosse lui in casa, siamo gli unici, a parte Erika, a conoscere questo posto, e io stesso gli avevo fatto una copia della chiave. Perché in un modo o nell'altro la casa appartiene pure a lui.

E non parlo di eredità, parlo di affetto personale. Ryan è affezionato a questo appartamento quasi quanto me.

Non rispondo, perché è ovvio che mi ricordo della chiave, e poi la sua non era nemmeno una domanda.

«Cosa sei tornato a fare?» Spero non cominci come l'ultima volta.

Stasera potrei finire per fargli male, non sono dell'umore giusto.

«Giuro che non è stata Erika a contattarmi questa volta, ho solo... molto tempo a disposizione ultimamente.»

Che intende?

«Che succede?» Gli chiedo.

«Niente, Luis...»

Emette una risata amara, finta e che mi fa salire i nervi e la voglia di spaccargli quei fottuti denti.

«Ho lasciato il lavoro.» Dice all'improvviso.

«E sto litigando spesso con Megan per questo.»

Immaginavo che qualcosa non andava, perché mi suonava assurdo che avesse tutto questo tempo libero per venire in città a rompere il cazzo a me.

Anche se non mi dispiace affatto vederlo, Ryan è una parte bella del mio passato.

«Ti vuole lasciare?» Vado dritto al punto.

«No, ma che cazzo dici... semplicemente ho preso una decisione senza parlargliene, e vabbè si sa, le donne non prendono bene queste cose.»

Si butta sul letto sfinito, e afferra una fotografia che si trovava proprio sul materasso.

Ritrae i nostri padri da giovani, l'ho notata subito non appena sono entrato in camera.

Sono sicuro che quella foto non si trovava nello scatolone in cui aveva sbirciato Steve.

«Perché hai lasciato il lavoro?»

«Dici che è assurdo trovarsi a cinquant'anni, con il desiderio di prendersi una pausa e di godersi le persone che si amano?» Lo dice con un tono che conosco bene.

Era stanco di dover passare la maggior parte del suo tempo chiuso in un edificio a lavorare. Era stanco di non godersi le cose importanti.

Sua moglie, suo figlio, la vita.

Ryan è sempre stata una persona umile, ingenua e dolce.

È questo che mi è sempre piaciuto di lui, mi faceva vedere il mondo bello.

«No, non è assurdo, è normale.»

«Domani mattina andrò da mio figlio, andremo a mangiare insieme, e passeremo una giornata a sparare stronzate e a bere birre. Vuoi venirci?» Sorrido, e mi stendo vicino a lui.

Guardo il soffitto, invece lui guarda me con la speranza di una risposta.

Io e Cameron spensierati nella stessa stanza? Non riesco per niente a immaginarmelo. Quel ragazzo non mi sopporta, e non ho mai capito come mai Ryan lo facesse. Anzi, era sempre quasi lui a venirmi a cercare.

«Ah, be'... ovviamente è invitato pure Steve.»

A quel punto mi volto a guardarlo.

«A che ora?» Gli chiedo alla fine. Diciamo che non mi dispiace la cosa.

«Boh, alla sette?»

«Andata!»

Ryan sorride.

«Però cerca di chiamare Megan, non vorrei che mi venisse a prendere a calci in culo...»

Sarebbe capace di prendersela con me, quella donna ha sempre pensato che fossi io a influenzare le sue scelte.

Il sorriso di Ryan si trasforma in una grassa risata.

«Che cazzo ridi, coglione.» Lo colpisco sul petto, e lui tossisce, ma ride allo stesso tempo.

Alla fine si mette seduto, molto probabilmente perché non riusciva più a respirare per colpa della tosse e delle risate che si sta facendo.

«Giuro che lo farò.» Cerca di smettere di ridere, ma non ce la fa, e alla fine senza un apparente motivo scoppio a ridere pure io.

Proprio come quando eravamo ragazzi.

Spazio autrice:

Provo nostalgia, raga, questo capitolo mi ha messo tanta nostalgia.

A voi cosa ha suscitato?

DALLA VOSTRA AUTRICE DEL PASSATO È TUTTO!❤️

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