Capitolo 5 - La cena

Riuniti al calore delle loro famiglie, Alira e Talos non rivelarono mai che il licantropo era Ungar. Vennero riempiti di attenzioni e dispensati dal lavoro per la giornata successiva. Gavister e Maurice trascorsero il resto di quella notte a piangere e tirarono l'alba.

«È colpa mia! È tutta colpa mia!» seguitava a ripetere il ragazzo.

«Non darti la colpa, non devi» lo consolò Maurice.

«Lo hanno trovato perché io non sono tornato a casa. Ho portato Alira e Talos da lui e Ungar ha raccontato loro la sua storia.»

«Io ho messo i soldati sulle vostre tracce. Ho insistito tanto per farvi cercare. Li ho mandati io da voi» confessò Maurice tra le lacrime.

«Tu?» reagì Gavister, staccandosi dall'abbraccio del nonno.

Si asciugò le lacrime con la mano e prese a inveire. La tristezza lasciò campo libero alla collera.

«Hai detto ai soldati che era diventato un lupo?»

«No.»

«Come no? Erano là e hanno provato a ucciderlo! Come hai potuto farlo?»

Gavister era accecato dall'ira e dal dolore. Il suo desiderio più grande in quel momento era di poter dare la colpa di tutto a qualcun altro. Sapeva di averne una grossa fetta. Sapeva che, se fosse tornato subito a casa senza far parola del fratello con nessuno, le cose sarebbero andate diversamente, ma voleva negare di essere il solo responsabile, anche solo per un momento. Desiderava ingannare sé stesso e rimettere insieme i pezzi del suo cuore spezzato. Per sentirsi meglio, avrebbe continuato a inveire.

Se per evitare di provare questo dolore devo provare odio, allora così sia, si disse.

«Lo hanno ucciso, ed è morto perché i soldati sapevano dove trovarlo.»

«Non ho detto ai soldati dove stava. Non sapevo in che parte della foresta fosse» si difese Maurice.

«Gli hai detto che era nella foresta... e l'hanno ucciso.»

«Ho detto solo di cercarvi, perché ero preoccupato: non tornavate e vi sapevo là.»

«Stavamo tornando! Eravamo quasi a casa!»

«Muscatt mi ha detto che ci è mancato un pelo. Se non fosse stato per lui...»

«Cosa?! COSA?! Non sarei qui? Hanno provato più volte a ucciderlo, ma non sono stati capaci.»

«Allora come è morto Ungar?»

«Non pronunciare il nome di mio fratello. Non ne sei più degno. Lo spettro! Lo spettro l'ha trafitto più volte fino a che non è morto su quella sudicia terra.»

«Lo spettro? C'era uno spettro nella foresta?»

«Sì, lui ha ucciso mio fratello e me la pagherà!»

«Cosa pensi di fare?»

«Lo ucciderò!»

«No, aspetta! È solo rabbia quella che parla. Calmati e pensaci. Non si può uccidere uno spettro. Se ci provi, finirai ammazzato anche tu.»

«Come mio fratello? No, lo coglierò di sorpresa e gli strapperò il cuore.»

«NO!» urlò Maurice, bloccandolo tra le sue braccia. «Questa tua voglia di vendetta ti porterà alla morte.»

«Io vendicherò mio fratello e lo farò con la sua spada. Ora levati!» urlò Gavister, spingendolo via.

Corse a prendere la spada che il fratello aveva lasciato in quella casa al suo ritorno, prima di trovare riparo nella foresta. Si trovava nel suo baule, avvolta in un cencio logoro. Era solo una comunissima spada che veniva data a ogni soldato imperiale: avrebbe potuto trovarne una al fianco di ogni uomo in uniforme subito fuori di casa, ma consumare la propria vendetta con quella di Ungar avrebbe avuto un significato simbolico. La prese, scese per le scale di legno mal fatte e corse fuori, atteso dalle prime luci dell'alba. Dove cercare lo spettro?

L'ultima volta che l'ho visto era nel bosco. Non è venuto a Mifa con noi. Forse è rimasto tra quegli alberi, pensò. Ma come coglierlo di sorpresa una volta trovato? Devo pensare a qualcosa. Non posso fallire. Io devo vendicare mio fratello. Ne ho diritto.

Tutto intento nello scegliere le sue prossime mosse, non si rese neanche conto di star incrociando Talos lungo la strada.

«Ehi, neppure mi saluti?»

Gavister alzò la testa e se lo trovò di fronte. Fu costretto a staccarsi dalle proprie riflessioni e a prestargli attenzione.

«Come hai detto?»

«Sto andando a fare una consegna. Perché non vieni con me?» gli propose Talos, riferendosi al cesto colmo di carbone.

«No, volevo stare un po' per conto mio.»

«Dove l'hai presa quella?» chiese Talos, indicando la spada.

Il pomolo e l'impugnatura spuntavano dal cencio.

«Era di mio fratello. Ora penso sia mia. Adesso vado» tagliò corto Gavister, prendendo la strada per i cancelli.

«Ci vediamo alla cena!»

«Cena?» si voltò di scatto.

«Sì, quella di questa sera.»

«Non stavo ascoltando. Avevo altro per la testa.» Ci fu più di un attimo di silenzio. «Comunque non credo.»

«Peccato! Sono incuriosito dallo spettro. Voglio fargli un sacco di domande.»

Gli occhi di Gavister si illuminarono.

«Spettro? Verrà anche lui?»

«Sì, deve essere pagato. Ricordi?»

«Devo essermi distratto...»

Nel tumulto del proprio dolore e della propria agitazione e nella concitazione del momento, Gavister non rammentava quanto detto da Aristides o dallo spettro. Era troppo preso dal suo lutto per badare a quello che gli succedeva intorno.

La cena può essere un'occasione. Non posso sprecarla, si disse. Come farò a entrare armato nel castello? Non potrò nascondere la spada e non mi permetteranno di tenerla con me: le guardie me la prenderanno. Devo pensare a un'arma che possa passare inosservata ai controlli e che io possa usare. Dovrà essere pratica e rapida all'uso.

Si spremette le meningi.

Non ho soldi per comprarne di nuove. Cos'è che ho già e che potrà servire allo scopo? Un coltello, forse. In bottega, il nonno ne ha molti. Ne prenderò uno.

Gavister si recò in un posto isolato appena fuori dalla città. Si guardò intorno più e più volte, ma nessuna traccia dello spettro. Si fermò in un campo di grano assolato dove sorgeva un faggio che gettava un'ombra ampia e rinfrescante.

Mi eserciterò!

Così fece, a lungo e a fondo.

Talos sbrigò tutte le sue commissioni e andò a trovare Alira.

«No, non ci andrai, ho detto!» sbraitò Vigo tra una piallata e l'altra.

«È la mia ultima parola, e non cambierò idea!» insistette, mettendo sempre più vigore nel lavoro.

«Ma... ma...»

«Niente ma, Alira! Non voglio che rischi di essere uccisa di nuovo» fu categorico Vigo. «Hai rischiato di morire solo stanotte. Quel poco che hai dormito, lo hai fatto tremando.»

«Ma, zio... Amarax, la città dei maghi!» disse Alira, con voce flebile.

«Diventare quello che vuoi essere, una maga... è difficile. Non basta avere poteri magici. Servono anni e non è detto che tu ci riesca.»

«Ma l'unico modo che ha per scoprirlo è provarci!» entrò Talos, levando la voce.

«Tu che ci fai qui? È questo il modo di entrare in bottega d'altri?» lo sgridò Vigo.

«Una bottega è aperta alla gente; quindi anche a me!»

«Sì, ma origliare le conversazioni degli altri non è mai una buona cosa!» tagliò corto Vigo. «Specie se non ti riguarda!»

«Mi riguarda, invece! Alira è mia amica e io ci tengo, a lei e anche ai suoi sogni.»

«Se ci tieni come dici, dovresti convincerla a non andare.»

«Perché?»

«Perché?» borbottò di rimando Vigo, battendo il pugno sul banco da lavoro. «Perché Amarax si trova in una terra non governata, nel mezzo del passaggio che lega le terre selvagge del nord con le pianure di Golgoth, ecco perché!»

«Amarax è la migliore opportunità che ha!»

«Non è un viaggio sicuro!»

«Ma ci sarà uno spettro ad accompagnarla!»

Alira abbassò di scatto gli occhi.

«Uno spettro? Questo non me lo avevi detto!» urlò Vigo, più forte che mai. «Mi avevi detto che un gruppo di soldati sarebbe andato ad Amarax per portare i ringraziamenti del conte e che ti avrebbero presentata come maga.»

«Perché non glielo hai detto?» le chiese Talos in un sussurro.

«E comunque, se è così, dico no con più forza di prima!» sbraitò Vigo.

«Ecco perché!» disse Alira sempre più rassegnata.

«Perché no? Non corre pericolo con uno spettro a proteggerla» si seccò Talos.

«Proteggerla?»

«Talos ha ragione! Lo spettro ha detto che mi avrebbe portata con sé. Se può uccidere un licantropo tutto da solo in pochi minuti, potrà portarmi sana e salva ad Amarax.»

«Gli spettri, a quel che si sente dire, sono esseri senza sentimenti. Quel coso non si curerà di te. Se gli farà comodo, ti abbandonerà in caso di pericolo.»

«Non è così!» si impuntò Alira.

«Ah, no?»

«Come fai a dire queste cose?» chiese Talos.

«Già, cosa sai?» si accodò Alira.

«Io so quello che si dice di loro. Presidiano e difendono Amarax ed eseguono gli ordini dell'Adunanza, qualsiasi ordine. Non gli importa se buono o cattivo. Uccidono se devono farlo. Lo avete visto, no?»

«Sì, ma ci ha salvati!» protestò Alira.

«Non credo fosse sua intenzione.»

«Io andrò e non potrai impedirmelo!»

«Certo che potrò!»

«No, invece! Me ne andrò e non mi rivedrai più!»

Vigo strinse i denti, serrando i pugni fin quasi a sentire dolore.

«Bene, se vuoi andare, vattene! Ma sappi che, se varcherai quella porta, non dovrai più tornare.»

«Benissimo per me!»

Alira se ne andò trascinando fuori Talos per la maglia. Era così arrabbiata e delusa. Non gliela avrebbe data vinta. Quello era il suo sogno e studiare ad Amarax da praticante sarebbe stata una ghiotta opportunità.

«Come può farmi questo? Rifiutarmi l'occasione di andare nella città dei maghi. Tutti i più grandi hanno studiato lì» si sfogò Alira.

«Credo che abbia paura per te.»

Il volto di Alira si fece più riflessivo.

«Sì, insomma... tu non ne avresti se fosse lui a voler fare un viaggio del genere?»

«Ripensandoci ne avrei. Ma che posso farci se Amarax è in mezzo al passaggio che collega nord e sud?»

«Beh, sì...»

«Devo andarci se voglio diventare una maga. E ci andrò. Non c'è alternativa!»

«Potresti chiedere al mago di corte di insegnarti, no?»

«Beh, potrei, ma...»

«Ma?»

«Se dicesse di no, dovrei comunque andarci.»

«Perché dovrebbe dire di no?»

«I maghi di corte sono indaffarati e potrebbe non volere un allievo.»

«Magari gli serve un'aiutante!»

«Non so... proverò a chiedere al barone di Montier!» esclamò Alira, sforzandosi di non arrossire. «Se ci mettesse una buona parola lui...»

«Il momento della cena si avvicina.»

«Andiamo a prendere Gavister, allora!»

«Non so se verrà. L'ho incrociato prima e mi è sembrato molto strano.»

«Suo fratello è morto e non ha potuto piangere quando lo ha visto disteso in forma di mezzo uomo e mezzo lupo. Non mi sorprende che sia sconvolto.»

Gavister rimase solo tutto il giorno a fare pratica con la spada del fratello. Aveva già tirato di scherma, ma per gioco e munito di una spada di legno. Senza addestramento, uno serio, gli sembrava che i suoi sforzi fossero solo inutili. Tante energie profuse nei fendenti, nei colpi di taglio e negli affondi che, tuttavia, avevano il sapore di tempo perso.

Non posso rinunciare; non voglio!, continuava a ripetersi per motivarsi.

Proseguì con l'allenamento, ma ciò su cui non aveva ancora riflettuto a fondo era il come avrebbe compiuto la sua vendetta. Rinfoderò la spada e sedette a gambe incrociate all'ombra del faggio.

In una sala da pranzo, all'ora di cena, il tavolo di un conte è fornito di ogni ben di Dio, e anche di posate; quindi avrò un coltello, ma anche lo spettro ne avrà uno. Dovrò essere rapido. Dovrò essere nella posizione migliore per colpirlo e mi dovrà bastare un solo affondo, ragionò.

Era deciso e serio nella preparazione di un buon piano, ma non riusciva a trovare una via di fuga.

Come la scamperò? Sarò in un palazzo pieno di guardie. Una volta fatto, mi prenderanno. Mi bloccheranno prima che possa uscire dalla stanza, titubò.

Per un attimo volse lo sguardo al fogliame del faggio.

Per l'omicidio la pena è la morte, ma uno spettro è considerato un uomo? Esistono pene diverse per chi li uccide?

Il dubbio iniziava a fare breccia nelle sue convinzioni. L'impeto che lo alimentava nella sua vendetta stava per lasciare spazio alla ragione. Considerava i rischi e, ripetendo a sé stesso le medesime domande, arrivò al momento designato: la cena sarebbe cominciata di lì a poco. Nascose la spada tra i rami dell'albero e si avviò. Quando fu arrivato ai cancelli del palazzo, trovò Talos e Alira che discutevano con le guardie e che venivano perquisiti. Assieme a Gavister giunse anche Muscatt, che aveva finito di decidere i turni di guardia per la settimana, in caserma. Gavister si sforzò di essere il più naturale possibile e ricambiò il saluto degli amici. Muscatt ordinò che venisse frugato, ma non gli trovarono niente addosso.

«Bene, siete a posto!» annunciò Muscatt.

«Possiamo entrare?» domandò Alira.

«Non ancora!»

«Perché?» domandò Talos.

«Il barone e la contessa vogliono accogliervi tutti personalmente e non tutti sono arrivati.»

«Chi manca?» fece il finto tonto Gavister.

«Sei proprio sbadato» lo rimproverò Talos. «Guardati intorno!»

«Tu non sei un grande osservatore, vero, ragazzo?» gli chiese il capitano. «Manca lo spettro!»

«Secondo voi verrà?» chiese Alira.

«Gli spettri, pare che siano imprevedibili. Mah sì, credo che verrà. In fondo deve essere pagato.»

Rimasero ad attendere ancora un po'. Aristides aveva detto a Baltigo che la cena sarebbe iniziata quando il sole avrebbe toccato la linea dell'orizzonte; per ora il corpo celeste gravitava un pelo al di sopra di essa e se la prendeva con calma.

Baltigo guardò Mifa da lontano e si incamminò. Il sole sembrava aspettare i suoi comodi. Proseguì alla larga dal sentiero. Non voleva farsi vedere troppo: non è nella natura degli spettri farsi notare. Nonostante il loro aspetto attirasse l'attenzione, cercavano di farsi vedere il meno possibile. Non passò per i cancelli principali: troppo via vai per lui. Si arrampicò silenzioso sulle mura e poi, una volta in cima, dritto filato sull'albero che stava a pochi metri, irraggiungibile per qualsiasi uomo. Da lì, fu per le strade di Mifa, attento a passare inosservato, preferendo strade secondarie e poco affollate. Possibile che di tutte quelle persone che bazzicavano le vie, nessuna lo vedesse? Quel che molti videro fu la sagoma di un uomo avvolto in un mantello nero e protetto da un cappuccio che spariva all'improvviso così come era apparso, tanto ne era veloce il passo ed efficace la furtività. In un batter d'occhio fu nei pressi del palazzo e della caserma. I due edifici erano l'uno accanto all'altro, circondati da un fossato pieno d'acqua putrescente e da un anello di mura. Baltigo lanciò la sua catena e la ancorò alle mura, saltò dall'altra parte e, facendo leva, le risalì velocemente. Balzò sul tetto della caserma. Il legno era solido e il rumore fatto atterrando non scatenò nessun allarme, perché tutti erano tanto indaffarati che nessuno guardava al di là del proprio naso. Baltigo scagliò la catena in cima al castello e, con una velocità spaventosa, venne trascinato lontano. Lo spettro si aggrappò a una delle decorazioni che abbellivano i fianchi del palazzo e usò quegli appigli per scendere a terra. Credeva fosse meglio non piombare in casa d'altri passando da una finestra, anche se era stato invitato.

Aristides e Annaluce erano pronti a ricevere gli ospiti e ne attendevano l'arrivo di fronte al portone del palazzo assieme al conte e al ciambellano. Al capitano venne comandato di condurre gli ospiti al palazzo quando il sole fosse stato appena sotto l'orizzonte; non vedendo arrivare lo spettro, Muscatt eseguì gli ordini.

«Dobbiamo andare, è ora.»

«Ma lo spettro?» chiese Gavister.

«Cosa vuoi che ti dica...» sospirò il capitano. «Si vede che non gli andava. È una creatura strana. Non ragiona come noi.»

«Peccato! Ero curioso di fargli delle domande» disse Talos, deluso.

Quando furono in vista del portone d'ingresso del palazzo, videro il loro comitato d'accoglienza.

«Ehi, ma... non ci siete tutti!» esclamò Aristides.

«Lo spettro non si è presentato» lo informò Muscatt.

«La vostra iniziativa era già abbastanza ridicola senza lo spettro. Almeno qualcuno pare aver avuto buon senso!» affondò il colpo il conte.

«Oh, papà!»

«Mi spiace mia cara, ma questi tre si sono avventurati nella foresta fino a tardi e molti soldati sono morti; senza contare le cicatrici che il tuo promesso porterà per sempre. Quindi di cosa dovremmo essere loro grati?»

«Il capitano e io saremmo potuti morire entrambi, se non fossero intervenuti un paio di volte a distrarre la bestia» osservò Aristides.

Gavister strinse i pugni. Non riusciva a passarci sopra. Sentir parlare di suo fratello come fosse solo un animale... e la rabbia ricominciò a montare. Immaginò di trafiggere il conte in quel preciso istante, davanti agli occhi di tutti.

«Vero, anche se è stato quel... come ha detto di chiamarsi?» interruppe il filo dei suoi pensieri Muscatt.

«Baltigo, così ho detto di chiamarmi» pronunciò, spuntando dal nulla.

Alla vista dello spettro, il conte rabbrividì, più per il timore che avesse sentito tutta la conversazione, compreso quel che aveva detto di lui; Annaluce sbiancò; Muscatt e Aristides furono sorpresi; Talos e Alira incuriositi; Gavister ribollì. La sua vista risvegliò in lui il rancore che aveva provato a reprimere e che lo aveva spinto ad allenarsi per tutto il giorno.

«Come siete arrivato qui?» chiese Muscatt.

«Mi sono arrampicato sulle mura e sono saltato su un albero, da lì per le strade della città e poi, superato il fossato e salito sul tetto della caserma, è stato facile arrivare al palazzo» rispose Baltigo con tranquillità.

«È impossibile! La città è pattugliata da cima a fondo! E poi come avreste fatto a salire sul tetto della caserma senza farvi vedere?»

«È evidente che ci sono grosse falle nella protezione della mia città, capitano.»

Il conte, inviperito, mise una maligna enfasi su "mia" e "capitano".

Muscatt non fu affatto felice di saperlo. L'aspetto di Baltigo metteva a disagio chiunque incontrasse, ma a modo suo era affabile. Non traspariva alcun sentimento dalla sua voce, ma solo semplicità e un'esagerata, e a tratti inopportuna, sincerità.

Il ciambellano rimase interdetto dall'incontro con lo spettro. Non era sicuro di quale fosse la sua prima impressione. Si sentiva a disagio, ma anche curioso come ogni altro: non capitava tutti i giorni di poterne vedere uno.

Condussero gli ospiti nel salone designato per l'evento. Una tavola apparecchiata li attendeva. Nove posti per nove commensali.

Il conte occupò il centro di un lato del tavolo, alla sua destra sedevano figlia e futuro genero, alla sinistra Muscatt e il ciambellano e davanti a tutti loro i ragazzi e Baltigo.

Gavister divenne attento e ricettivo.

Se lo voglio far fuori, devo mettermi nel punto migliore, pensò.

Si sedette alla sinistra di Baltigo, che in realtà non aveva tutta questa voglia di prendere parte all'evento.

«Sono venuto solo per ricevere il dovuto» chiarì lo spettro.

«Il dovuto? Ah, già, le trenta corone di cui mi ha accennato Aristides. Ve le darò alla fine di questa cena» affermò il conte.

«Se siamo così in tanti questa sera, lo si deve al vostro intervento» introdusse il discorso Annaluce.

«È vero» tagliò corto Baltigo.

Il conte ordinò che venissero servite le portate e i servitori si fecero avanti con arrosti, selvaggina, bistecche, verdure di contorno, pane e brocche di vino, un tipo diverso da abbinare a ogni piatto.

«Immagino che gli spettri non amino conversare» disse Aristides.

«Cosa amano?» chiese Annaluce.

«Amare?» domandò Baltigo, senza aggiungere alcuna inflessione nella voce.

«Sì, amare!» esclamò Annaluce, sbalordita.

Uno schiocco di dita e le coppe furono colme.

«Vedete, contessa, se posso intervenire, credo che il nostro ospite non abbia famigliarità col provare emozioni di qualsiasi genere» cominciò il ciambellano. «Stando alle voci che circolano, gli spettri non provano niente.»

«Niente? Ed è vero?» chiese Annaluce.

«Sì» rispose Baltigo.

«Girano molte voci su di voi» disse il conte. «Dicono che siete demoni crudeli.»

«Io ho sempre sentito diversamente» lo contraddisse Aristides. «Pare siano peccati che hanno preso forma per punire gli uomini per la loro arroganza.»

«No, devo correggervi, barone» si intromise il ciambellano. «Sono anime che vagano per le terre alla ricerca della pace eterna e che hanno stretto patti con i maghi dell'Adunanza per ottenerla.»

«Voi, capitano, che ne pensate?» chiese Aristides.

«Ho sentito dire che sono esseri maledetti e imprigionati in questa forma. Forse, però, è meglio chiedere conferma al diretto interessato» rispose Muscatt che, quale uomo d'azione, era a disagio quanto sembravano esserlo i ragazzi e lo spettro.

«Giusto! Allora cosa siete?» chiese Annaluce.

«Non ricordo di essere stato qualcosa di diverso da quello che sono ora. Sono uno spettro e devo ubbidire agli ordini dell'Adunanza.»

«A qualsiasi ordine?» chiese Alira.

«A qualsiasi ordine.»

«E se qualcuno vi dà un ordine che non volete eseguire?» chiese Talos.

«Non c'è scelta: lo eseguiamo e basta.»

Alla risposta di Baltigo, in Gavister riaffiorò il ricordo della morte del fratello, insieme a tutto il dolore che gli aveva spaccato il cuore e a tutta la rabbia che ne aveva rinsaldato i pezzi. La sua mano afferrò il coltello, poi un barlume di lucidità gli mise nell'altra mano la forchetta. Affondò le posate nella salsiccia di maiale, ostentando indifferenza.

Non ancora. Aspetta solo un altro po'. Il momento giusto... devo aspettare il momento giusto.

«Non avete fame?» chiese il conte, notando la noncuranza di Baltigo per il cibo.

«Io non mangio.»

«Non è di vostro gradimento?»

«A noi non occorre cibo.»

«Volete dire che non mangiate mai?» domandò Aristides.

«Esatto.»

«Come fate a non morire di stenti?»

«Non lo so, ma siamo fatti così.»

«E non fate altre cose che fanno gli uomini normali?» chiese il conte.

«Ad esempio?» domandò Baltigo.

«Dormite?» chiese Alira.

«Bevete?» domandò Talos.

«Pisciate?» chiese Aristides.

«Barone!» sussultò il conte.

«Ho solo chiesto» borbottò Aristides, mentre Talos soffocava le risate.

«Comunque la risposta è la stessa per tutte e tre le domande: no. Non dormiamo mai, non abbiamo bisogno di acqua e men che meno di vino o altro e non pisciamo né facciamo altro.»

Talos rise senza trattenersi.

Ora, ora, fallo ora!, si disse Gavister, ruotando il coltello e stringendone il manico.

«Soldati che non sentono i morsi della fame, l'arsura della sete o la stanchezza delle ossa...» rifletté Muscatt ad alta voce. «E immagino neppure i piaceri della carne.»

«Immaginate bene» tagliò corto Baltigo.

«Niente donne?» chiese sbigottito Aristides.

Un finto colpo di tosse provò a distogliere l'attenzione dall'interesse del barone per l'argomento.

«Niente interesse per le donne né per gli uomini.»

«Ci sono donne tra di voi?» chiese Alira.

«Noi siamo soltanto spettri, niente di più.»

«Ma Baltigo è un nome da uomo» osservò Talos.

Baltigo voltò la testa verso di lui.

Adesso, è il momento! Fallo! Non ti può vedere. Non può difendersi. Adesso!, pensò Gavister, volgendo il capo verso lo spettro.

Baltigo non avrebbe visto arrivare il colpo. Non avrebbe potuto. Era un'occasione d'oro: il suo nemico non avrebbe potuto pararlo né evitarlo; da quella posizione l'avrebbe trafitto al cuore senza ombra di dubbio, se mai Baltigo ne avesse avuto uno.

Ora o mai più!, seguitava a ripetersi.

Il suo sguardo si fissò sulle guardie che presidiavano le porte del salone e corse fino al capitano Muscatt. Cominciò a sudare freddo.

«Tutto bene?» gli chiese il ciambellano, attirando gli occhi di tutti su di lui.

«Sì, devo solo avere lo stomaco sottosopra» mentì in fretta Gavister.

«Comunque si parlava del vostro nome...» tornò sull'argomento Aristides.

«Mi ricordo che mi venne dato quando nacqui.»

«Gli spettri nascono?» chiese il conte.

«Vuol dire che ci sono dei bambini tra gli spettri, ma come è possibile? » chiese Annaluce.

«Io sono nato così come mi avete davanti agli occhi.»

«Sei nato già grande?» domandò Alira.

«Sì.»

«Come?» domandò Talos.

«Immagino c'entri la magia. Forse il nostro mago di corte potrebbe saperne qualche cosa» intervenne Annaluce.

«Ne dubito. Deve essere un incantesimo complesso e molto potente. Non credo che i maghi dell'Adunanza lascino un incantesimo simile alla portata di tutti, altrimenti chiunque potrebbe avere gli spettri a portata di mano» osservò il ciambellano con fare arguto.

«Potrebbe essere una bella fortuna per chiunque riesca a metterci sopra le mani per primo. All'incantesimo, intendo» commentò Aristides.

«Nessuno conosce l'incantesimo al di fuori dell'Adunanza» spiegò Baltigo.

I maghi dell'Adunanza hanno creato questi mostri e nessuno sembra preoccuparsene, anzi ne sono tutti contenti. Per loro è tutto normale. L'odio, il rancore, il dolore e la rabbia di Gavister vagarono per lo spazio e si riversarono sull'intera Adunanza, oltre che sullo spettro; poi incrociò lo sguardo severo del capitano, che lo stava osservando già da un po'. Avrà capito? Si è accorto che volevo accoltellare lo spettro? Non poteva dare risposte certe a queste domande e la conversazione continuò.

«L'Adunanza di Agura! Il gruppo di maghi più potenti di queste terre. Quello che stipula le leggi a cui devono sottostare i maghi dell'intero continente. È difficile stipulare accordi con loro e insensato metterseli contro. A quel che so non c'è un capo tra i maghi che la formano e questo rende complessa ogni trattativa. O sbaglio?» chiese il conte.

«Non è previsto un capo nell'Adunanza» rispose secco Baltigo.

«Ma d'altro canto si vocifera che alcuni abbiano maggior ascendente e carisma di altri» intervenne il ciambellano.

«A chi vi riferite?» chiese Aristides.

«Ad Allonax.»

«Si parla molto di lui qui, a Osling; infatti girano voci e parecchie storie. Sono vere?» chiese il conte.

«Non conosco ogni avvenimento della vita dei maghi di Amarax, ma lì ci sono maghi fuori dal comune» spiegò Baltigo. «Per questo ho deciso di portare lì questa ragazza.»

«Non capisco il nesso» confessò Aristides.

«Abbiamo l'ordine di condurre ad Amarax i maghi non classificati che incontriamo.»

«Sei una maga?»

Aristides si rivolse ad Alira come se stesse cascando da un pero.

Lei annuì.

«Devi essere una maga in gamba per produrre una copia di te stessa» osservò il capitano.

«Come?» disse Annaluce.

«Il barone non ve l'ha detto?» chiese Muscatt. «La ragazza ci ha salvato entrambi con quel trucchetto.»

«A dir la verità, il barone non se n'è accorto, preso com'era dalla bestia che voleva mangiucchiarlo» confessò Aristides.

«Perché non farla addestrare da Rofedus?» propose Annaluce.

«Sì, potresti diventare una maga senza dovertene andare!» esclamò Talos.

«Il nostro mago di corte ha sempre molto da fare» commentò il ciambellano. «Dubito abbia tempo da dedicarle.»

«Puoi ordinargli di prenderla come apprendista, vero, padre?»

«Sì, potrei...» titubò il conte.

«Lei ha salvato tuo genero e il capitano dei tuoi soldati. Non vale questo ordine?»

«Sì, ma...»

«Non è possibile. Verrà con me. È deciso» troncò il discorso Baltigo.

«Rofedus è un ottimo mago e un saggio consigliere» lo difese Annaluce.

«Nessuno ne dubita, contessa» intervenne Muscatt. «Ma credo che non sia questo il punto, vero?»

«Lì potrà studiare al sicuro con altri suoi pari.»

Baltigo non amava tirare le conversazioni per le lunghe.

«Meglio non insistere oltre» sentenziò Aristides.

Per tutta la durata della cena, Baltigo rimase pressoché fermo nella stessa posizione, seduto composto con le mani sul tavolo ai lati del piatto e i gomiti stretti al torace. Fu l'unico a non toccare cibo e, nella sua dotta opinione, quella farsa era durata troppo a lungo per i gusti di uno spettro.

«La cena è finita, vero?» chiese.

«Sì, possiamo dire di sì» confermò il conte.

«Il mio pagamento, prego.»

Un segno di approvazione del conte ed ecco il ciambellano tirar fuori dalla tasca un sacchetto con le trenta corone pattuite. Lo spettro le prese e le contò.

«Bene, il mio compito è concluso» affermò alzandosi. «Partiremo domani all'alba. Fatti trovare sulla strada appena fuori dalla città» si rivolse ad Alira.

Mi dà le spalle. Lo posso pugnalare. È l'ultima occasione, pensò Gavister, ma incrociò lo sguardo fisso del capitano Muscatt e gli mancò di nuovo il coraggio. Codardo!, si rimproverò.

Baltigo si avviò verso la porta per andarsene e le guardie incrociarono le lance per sbarrargli la strada. Lo spettro pose mano all'impugnatura della sua spada.

«Lasciatelo andare. Inutile trattenerlo» si pronunciò il conte.

«Accompagnatelo ai cancelli della città» ordinò il capitano alle guardie. «E voi, Baltigo, fatevi accompagnare fin lì.»

«Bene» rispose lo spettro, prima di varcare quelle porte e uscire dalla città.

«Poco educato, questo spettro!» commentò il conte.

«Non credo siano fatti per le cene di gala» disse il capitano. «E penso sia inutile aspettarsi di parlare con lui come si parla con chiunque altro.»

«Chissà se lo rivedremo...» sospirò Annaluce.

«Non credo» ribatté il ciambellano.

«Come è arrivato qui?» chiese il conte.

«Ha detto di aver seguito le tracce dei licantropi da nord fino a qui» rispose il capitano.

«Per me è un bene che se ne sia andato. Quella maschera e quelle sue mani facevano accapponare la pelle» commentò il ciambellano.

«Un po' mi dispiace: mi ha salvato la vita e sarebbe stato suo diritto presenziare al matrimonio» confessò Aristides.

«Ma insomma!» sbraitò il conte.

«Non si può chiedere a uno spettro di fare da damigella d'onore» osservò Muscatt, scatenando i risolini di più di un commensale.

«Non so se essere felice o preoccupato per te» sussurrò Talos.

«Sarò al sicuro, non ti preoccupare» rispose Alira.

Sei stato uno stupido codardo!, si rimproverò Gavister.

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