Prologo
«Signorina Sullivan, come mai si trova nei corridoi dall'ala ovest?»
Mi fermai. Sapevo delle telecamere, ma non pensavo mi avrebbero trovata così facilmente. Mi girai verso il muro e alzai la testa, fissando un punto nero al centro della parete bianca.
«Mi scusi direttore. Stavo cercando la mia stanza, come tutti gli anni.» Ammisi abbassando lo sguardo, in segno di sottomissione e pentimento.
«Deve andare urgentemente ai laboratori. Terzo piano, aula 1205. Vada e non faccia domande.» Alzai lo sguardo sulla telecamera e annui. Poi uscì dai dormitori per recarmi nell'edificio sperimentale. Mi pulsava la testa: un effetto collaterale.
Il potere da Speciale del direttore era quello di entrare nella testa delle persone. Se lui parlava, loro lo sentivano. Era così che comunicava con gli allievi e il personale. Nessuno lo aveva mai visto.
Arrivata a destinazione, salì al terzo piano e iniziai a osservare i numeri incisi sulle porte per trovare quella che mi era stata indicata. Quasi alla fine del corridoio, vidi il numero 1205. Bussai e la risposta non tardò ad arrivare.
«Avanti.» Riconobbi la voce e istantaneamente sorrisi. Aprì la porta ed entrai.
La stanza era molto buia, c'era una sola lampada da scrivania accesa e puntava la sua luce fredda su un tavolino ricoperto di documenti. Chinato su essi, c'era il mio coach. I capelli castani erano notevolmente cresciuti dall'ultima volta che lo avevo visto, a settembre dell'anno scorso, e ora gli arrivavano poco sopra le spalle. Li spostò dal viso, firmò una carta e si voltò verso di me.
«Bentornata Bonnie.» Disse sorridendomi. Mi sciolsi.
Il mio coach è sempre stata l'unica persona adulta gentile con me in quel posto. Ero la sua allieva preferita e devo ammettere che per i primi anni ho avuto una cotta bella grossa per lui. Peccato avesse quarant'anni.
«Grazie. Posso sapere perché sono qui?» Chiesi mentre i miei occhi vagavano per tutta la stanza.
Di fianco al tavolino c'era una poltrona grigia simile a quelle dei dentisti babbani e molti macchinari. Infine, sulla parete di fronte alla porta da cui ero entrata, vidi un piccolo puntino bianco. Sapevo esattamente cos'era: un microfono.
Le telecamere con microfoni erano state posizionate nei corridoi e nel bar, le telecamere mute nelle sale di allenamento mentre in alcune stanze come le aule scolastiche o gli uffici dei coach c'erano dei microfoni. Il tutto per controllarci. Menomale che al bagno e in camera avevamo la nostra privacy.
Quello era un nuovo edificio. A settembre, al primo corso per Speciali del quarto anno, non c'era. Noi lo chiamavamo "edificio sperimentale" perché non sapevamo che fine avrebbe fatto l'anno seguente. E soprattutto, nessuno di noi ha mai saputo quello che si faceva lì dentro. Chi lo sapeva, non poteva parlarne. Ma alla fine del secondo corso, tutti sapevano cosa succedeva in quel edificio.
«Non preoccuparti, un nuovo metodo di controllo a cui tu e gli altri studenti dovrete sottoporvi ogni settimana. Stenditi. Dovresti toglierti la maglia, se non è un problema. Mi sarà più facile attaccare i macchinari.» Disse subito con un tono formale.
Annui. Tolsi la felpa nera che avevo addosso e il profumo di mio fratello Lysander mi investì in pieno. Gli rubavo spesso le felpe. La misi su una seggiolina di legno vicino a me e mi tolsi anche la maglia poggiandola sopra la felpa. Con un po' di ansia, andai verso la poltrona dove il mio coach mi aspettava con in mano dei fili.
«Ora ti attaccherò questi sul cuore, sui polmoni, sulla gola e sulla testa. Non ti faranno male, tranquilla.» Mentre parlava mi attaccò i fili, fissandomi sempre negli occhi. Mi rassicurava il fatto che mi guardasse in viso come aveva sempre fatto. Poi andò verso le macchine.
«Ora vedrai il tuo passato. Alcune cose possono essere belle, altre un po' meno. Vedrai come sono nati i tuoi poteri e altre informazioni che saranno utili all'Istituto. I ricordi verranno salvati sui PC.» Schiacciò dei pulsanti, prese un foglio dal tavolo e si avvicinò di nuovo alzandolo nella mia direzione. Lessi.
Non mi è concesso dirtelo, ma dovrò guardare anche io i tuoi ricordi. Spero non ti dispiaccia.
Scossi la testa e sorrisi nella sua direzione. "Non preoccuparti." Mimai con le labbra. Uno dei suoi poteri da Speciale era quello di leggere il labiale perfettamente. Posò il foglio sul tavolo. Quando si avvicinò mi diede un bacio sulla fronte. Per poco non mi misi a piangere, perché mi ricordava mio padre.
«Devi essere coraggiosa. Devi far uscire quella parte Grifondoro che è in te.» Mi sussurrò piano all'orecchio. La leggera barba che aveva sul viso mi solleticava la guancia. Annuì.
«Ok, iniziamo.» Annunciò a voce normale, così che i microfoni potessero captarlo, mentre si attaccava un filo in fronte e accendeva la macchina. D'istinto chiusi gli occhi. Vidi un flash bianco e poi il buio.
Ero in una stanza colorata. Stesa in una culla di legno c'era una bambina. Ero io. Lei alzò le mani e vidi che erano minuscole. Mi domandai perché vedevo tutto dall'esterno, e non in prima persona. Infondo erano i miei ricordi. Il pensiero se ne andò quando vidi che dalle mani della bimba spuntavano dei fiocchi di neve e ghiaccio colorati di giallo, blu e rosa. Fu la prima volta che mostrai i miei poteri da Speciale. Un flash e mi trovai immersa nel buio.
Gli Speciali sono i maghi che possono fare magie senza la bacchetta e senza pronunciare alcuna formula magica: essere invisibile, creare onde d'urto con le mani o, come nel mio caso, controllare l'acqua.
Ora ero in giardino. La bambina era cresciuta, aveva circa quattro anni. Stava piovendo. Mi ricordo cosa stavo provando a fare: fermare la pioggia. Lei non ci riuscì e si stava inzuppando tutta. Gli occhi marroni diventarono improvvisamente blu e parte del giardino diventò di ghiaccio. Si spaventò molto. Poco dopo il giardino si sghiacciò e la bambina riprovò a fermare la tempesta. E ci riuscì. Sorrisi, mentre lei iniziava a saltellare ovunque. Buio.
Camera mia era come me la ricordavo. C'erano un po' meno poster appesi sul muro rosa, ma la stanza era disordinata come l'ultima volta che l'ho lasciata. La bambina, di circa otto anni, era seduta sul letto e davanti a lei c'era una ragazza più grande: mia sorella Amelia. In quattro anni ero cambiata molto: i capelli erano cresciuti notevolmente e portavo degli occhiali rossi. Mia sorella mi stava raccontando di Hogwarts, ancora. Aveva quattordici anni ed era da molti anni che mi raccontava di Hogwarts, sotto mia richiesta. Aveva dei lunghi capelli blu e grigi e degli occhi blu intenso. Il suo corpo è sempre stato molto snello rispetto al mio, visto che ho sempre avuto abbondante pancia e cosce. Mi girai, perché ricordavo un poster particolare appeso al muro dietro di me. Per poco non urlai. Seduto sulla scrivania c'era il mio coach. Era come un fantasma, incorporeo come me.
«Scusa, non volevo spaventarti.»
La sua voce era strana, come se parlasse in acqua.
«Tranquillo, è solo che non mi aspettavo di vederti qui.»
Mi girai di nuovo verso la bambina e sua sorella. Sulla fronte aveva una cicatrice, una linea retta proprio in mezzo alla fronte. Me l'ero fatta sbattendo la testa a tre anni. Il ricordo però lampeggiava e la cicatrice ogni tanto spariva, ma non capivo perché. Poi la scena cambiò.
Ero fuori da casa mia, ma era diversa. Era completamente distrutta. Mi ricordavo perfettamente quel giorno.
«Che cosa è successo qui?» Mi girai verso il mio coach alla mia destra.
«Era il trentuno agosto del 2017. I miei genitori e il ragazzo di mia sorella sono morti qui, per salvarci.»
Sentimmo un urlo e ci voltammo. Riconobbi mia zia Luna. Lei era la mia madrina infatti mia sorella Amelia, a quel tempo già maggiorenne e quindi mio tutore legale legittimo, decise di affidarmi a lei. Mia zia era china sul corpo di una ragazzina. Ero io. Mi portarono via e in quell'attimo vidi la mia faccia. Era pallida, ricoperta di lividi e sangue. La mia cicatrice era molto rossa, come se me la fossi appena fatta.
«Non piangere, è tutto okey ora.» Mi abbracciò stretta a sé. Non mi ero neanche accorta delle lacrime che avevo sul viso. Buio.
«Sullivan Bonnie.»
Eravamo in Sala Grande e stavo per essere smistata. Ero ancora abbracciata al mio coach e mi staccai, leggermente in imbarazzo. Mentre guardavo la me del passato sedersi sullo sgabello e il professor Paciock, il vicepreside, metterle un cappello in testa, il mio coach mi asciugò le lacrime che avevo sulle guance con il pollice. Evitai accuratamente di guardarlo. Mi ricordo perfettamente il mio smistamento. Era durato quindici minuti e il cappello stava urlando a squarciagola che sarei stata perfetta per tutte e quattro le Case.
«Evidentemente sei una donna piena di talenti.»
Sorrisi. «Sui PC non verranno salvate anche queste cose che ci stiamo dicendo?»
«Oh no, tranquilla. Vedo che alla fine ha vinto Corvonero.» Commentò mentre io mi alzavo dallo sgabello e raggiungevo mio fratello Lys al tavolo.
«Già, io e mio fratello siamo stati gli unici Corvi per quell'anno.» Cambio di scena.
Ero sotto un albero, nel giardino di Hogwarts, e stavo intrecciando i capelli di una ragazza come me. Era Camille Finnigan, la mia migliore amica. L'avevo conosciuta nel tragitto con le barche sul Lago Nero prima dello smistamento. Lei era finita in Tassorosso e non in Grifondoro come i suoi genitori, Seamus Finnigan e Romilda Vane. Stavamo scrivendo una lettera per informare i suoi, dopo che l'avevo trovata a piangere in bagno.
«Che albero particolare.»
«Già, quello è il nostro albero. Le foglie non cadono mai, neanche se le tiri.»
Un flash bianco e mi svegliai urlando stesa sul lettino.
«Ehy calma, respira, è tutto ok.» Il mio coach mi aveva raggiunto e mi stava tenendo la mano. Con l'altra, aggiornava dei dati sul PC. Mi faceva male la testa. «Abbiamo finito, puoi rivestirti.» Mentre io mi mettevo la maglia e la felpa, lui aggiornò i dati sul PC e scrisse qualcosa su un foglio di carta.
«Perfetto, puoi andare. Se mi aspetti usciamo assieme, visto che ho finito il mio turno.» Mi passò il foglio e si infilò la giacca.
Andremo nella mia stanza, vorrei sapere un po' di cose se non ti dispiace.
Annui in sua direzione e misi il foglio in tasca. Uscimmo dall'edificio e andammo nei dormitori per insegnanti e coach. Per fortuna in quell'edificio non c'erano telecamere. Erano le dieci di sera e in giro non c'era nessuno, nonostante il coprifuoco fosse alle undici.
«Perché nei fascicoli è tutto nascosto?» Chiese il coach appena mi fui seduta sul suo divano. Gli spiegai che mia sorella aveva tenuto tutto all'oscuro.
«Sappi che per te ci sarò sempre. Ed ora vai, o finirai nei guai.» Mi lasciò andare, dopo avermi dato un bacio sulla fronte. Amavo quell'uomo come amavo mio padre.
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