Prologo
Eccola, in lontananza. Inizialmente indistinguibile perché, più che un'alta cupola, era una larga struttura lenticolare.
L'intera città si estendeva invisibile nel sottosuolo, scavata come un immenso anfiteatro, e l'imboccatura del cratere artificiale era coperta da una struttura trasparente, leggera e resistentissima che la isolava dalle condizioni atmosferiche, dal caldo soffocante delle estati come dall'estrema rigidità dei lunghi inverni. Soprattutto, la metteva al riparo dai ricorrenti uragani che sconvolgevano la regione, risucchiando ogni cosa pur ancorata al suolo.
L'uomo abbassò il viso sul piccolo che camminava dietro di lui, avviluppato in un manto, il cappuccio calato sul viso; tanto, non serviva che vedesse, non c'era nulla intorno da vedere.
Camminava a testa bassa, reggendosi con le mani alla corda che aveva legata alla vita, che lo ancorava per sicurezza al padre.
Doveva essere distrutto. Ma tenace com'era, non aveva emesso un lamento. Il padre si accovacciò sui talloni avvicinando il proprio cappuccio a quello del bambino, utilizzando il suo manto come una minuscola tenda. Si guardarono negli occhi.
"È in vista, ma ancora lontana. Se sei stanco posso portarti io".
I grandi occhi castani gli sorrisero limpidi.
"Ce la faccio, padre".
L'uomo gli sfiorò la fronte con un bacio. Aveva la carnagione così chiara, quel suo figliolo, che non avrebbero sospettato l'origine di sua madre.
Forse.
Il piccolo non poteva conservarne alcuna memoria, avendola persa prestissimo, e lui non gli aveva mai svelato quel particolare che lo rendeva, come sua madre, così sgradito; nessuno, se non lui stesso, poteva tradirlo e farlo identificare come fuori-razza.
Rabbrividì, perché suo padre parlava di torture e vessazioni orrende, nelle città, per tutti coloro che non erano puri.
Ma inutilmente aveva sperato di poter resistere fuori, il suo vecchio. In trent'anni il loro piccolo gruppo, così tenacemente e disperatamente attaccato alla vita, si era sfilacciato e dissolto, e non restava che arrendersi: nessuno poteva sopravvivere, ormai, in quel deserto. Nessuno, se non accolto in una comunità cittadina. L'uomo aveva deciso di dover provare, qualsiasi fosse il prezzo. Lo doveva ad Aaron, della cui vita era responsabile.
Non aveva chiesto di nascere, suo figlio! Lui l'aveva generato e ora doveva accettare qualsiasi destino, pur di non vederlo morire assiderato o sciolto nell'aria incandescente di quella loro terra maledetta.
Riprese la marcia, e lo prese in braccio quando capì che non poteva più reggersi in piedi. Non potevano fermarsi, ormai. Non più.
Quello che andava addensandosi sulle loro teste prometteva d'essere un uragano di quelli capaci di far vorticare nell'aria ben più che povere creature leggere come loro. Arrivò alla base della cupola che già i venti urlavano furiosi.
L'uomo fu certo che la sua donna, da ovunque gli spiriti spiino i destini dei cari che hanno lasciato, lottasse per guidarlo; ne fu certo vedendo la postazione di guardia davanti a lui: non avrebbe avuto il tempo di girare intorno alla città per raggiungerne una, fosse capitato in mezzo tra due, e non avrebbe avuto quell'unica possibilità di implorare pietà, martellando di pugni la porta blindata.
Inizialmente pensò che nessuno l'avrebbe ascoltato, comunque, e che fosse finita, a un metro dalla salvezza; invece qualcuno gli parlò da un microfono.
Qualcuno che chiedeva, però, documenti che lui non aveva, non essendo un interno.
L'accesso, in tal caso, era vietato, lo informò la voce senza alcuna udibile emozione.
Mentre l'uragano ruggiva sempre più forte, l'uomo continuava a implorare; sentiva da dentro suonare gli allarmi e i rumori dei macchinari in funzione. Si chiudeva ogni presa d'aria nella cupola e si calavano serrande d'acciaio su ogni apertura al livello del suolo.
"Allontanati, wastish*, stiamo chiudendo", gli dissero.
E l'uomo pianse e spinse avanti il bambino: "Almeno lui", implorò, "almeno il bambino!"
***
Wastish*= neologismo che in quella lingua del futuro significa scarto.
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