Io, Eleanor
Ero arrivata da poco in ospedale, e stavo per iniziare le mie visite, con Aaron a farmi da assistente, quando sentimmo voci concitate e rumori insoliti. Dei militari avevano fatto irruzione, chiedendo a gran voce di me, e un infermiere aveva rapidamente fatto loro strada. Mi vidi circondare, inaspettatamente, e avvertii netto il cuore perdere un battito. Tentai di mantenere un atteggiamento controllato, e con una voce che suonò a me stessa appena più roca dell'abituale chiesi cosa desiderassero.
"È un'emergenza", mi sentii rispondere, "Deve seguirci all'istante".
Al mio fianco, anche Aaron era sbiancato: "La dottoressa avrà bisogno di...", tentò di intervenire.
"Servono solo le sue mani", troncò ogni discorso il comandante della pattuglia, afferrandomi con malagrazia per il braccio.
"Allora le conviene non strattonarla o procurarle alcun danno fisico", insorse Aaron, e ne fui confortata perché il militare mi mollò all'istante, giudicando certo l'osservazione fondata.
"Lei chi è?" ruggì però verso lui l'ufficiale, non abituato certo a essere affrontato così da un qualsiasi civile.
"È il mio assistente", intervenni.
Cominciavo a riprendermi dallo spavento; se serviva, come pareva, il mio intervento professionale, la cosa era diversa da quanto avevo temuto.
Ad Aaron invece quell'urgenza sembrava far l'effetto di un terribile presagio, a giudicare dalla sua espressione tesa.
"Se dovrò operare mi serve", aggiunsi d'istinto.
Mi indirizzò uno sguardo grato, ma non ebbe tempo per altro. Il comandante ci indicò la direzione e dal suo cipiglio capimmo che non era il caso di indugiare. In pochissimo, fummo condotti a passo di corsa fino all'ingresso del tunnel per la Capitale.
Non avevo mai visto un tunnel aperto, perché i contatti tra le città erano limitati, e andavano preventivamente autorizzati dalle parti. La percorribilità dei tunnel comportava costi di illuminazione e soprattutto di areazione, troppo elevati per essere usati frequentemente.
Ma la situazione doveva essere veramente estrema, perché non solo il tunnel era aperto, ma ad attendermi vi era un veicolo a motore, come ben pochi, tra noi cittadini, avevano mai visto e ancor meno usato: un auto sportiva, con l'autista teso, le mani strette sul volante.
I militari intimarono a me e Aaron di salire. Tutto accadde in tempi frenetici. Mi trovai sprofondata in un sedile di pelle, chiusa nello spazio posteriore del veicolo.
L'aria nell'auto era consumata, affollata di odori sgradevoli. La pelle dei sedili era irrigidita, polverosa. C'era prepotente odore di combustibile, ma nello spazio ristretto alle narici mi arrivava anche il sentore di sudore dell'autista, che si guardava attorno con scatti bruschi, nervosi. L'auto partì immergendomi in una penombra inquietante.
Il rombo del motore mi assordava, e Aaron si protese in avanti verso il guidatore. Poi armeggiò dalla sua parte e tirò su il suo finestrino.
Lo imitai e il rumore diminuì, restando un cupo frastuono di sottofondo. Rare, fioche luci presero a sfilare ipnotiche ai nostri fianchi, mentre i fari della macchina bucavano per qualche metro il buio avanti, aggredendolo a una velocità che mi parve folle.
Mi chiesi se l'autista non ci avrebbe schiantati contro una curva. Aaron intanto prese a parlare.
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