Capitolo 2 - Fuggire dall'incubo
Gabriela sbatté le palpebre, ansimando pesantemente.
Cosa accidenti era successo? Perché era lì? Dov'era lì? Ma soprattutto...chi era?
Tre colpi in rapida successione la fecero sobbalzare. Qualcuno stava bussando alla porta. Alzandosi in piedi, Gabriela si guardò cautamente in giro, ma a causa del buio imperante, non riusciva a vedere praticamente nulla. Dall'unica finestra presente nel soggiorno, filtrava abbastanza luce solo per rischiarare i contorni della poltrona su cui era stata seduta fino ad un attimo prima, e il basso tavolino che la separava dalla tv. Tutto il resto, però, restava immerso in una cappa di opprimente oscurità. Nell'aria aleggiava un forte odore di fumo di sigaretta.
Altri tre colpi risuonarono attraverso il legno della porta. Seppur confusa e intimorita come solo pochissime altre volte era stata in vita sua, Gabriela si costrinse ad avanzare in direzione dell'ingresso.
Era ormai quasi arrivata a destinazione, quando il suo piede, protetto solo da un semplice sandalo, urtò contro la gamba di un tavolo nascosto, costringendola a soffocare un'imprecazione. Stava ancora saltellando reggendosi il piede dolorante, quando il bussare tornò a farsi sentire, e questa volta i colpi furono cinque. Chiunque fosse dall'altro lato della porta, non sembrava avere molta pazienza.
Mettendo a tacere il vortice di pensieri che le infuriava nella testa, Gabriela raggiunse finalmente l'ingresso, e pur con qualche difficoltà, riuscì ad aprire la porta. Una luce accecante la costrinse a strizzare gli occhi subito dopo che ebbe spalancato l'uscio, poi la mano che reggeva la lampada da campeggio si abbassò, e il volto di una ragazza dai lunghi capelli neri e la pelle color cannella irruppe di prepotenza nel suo campo visivo. Anche se non l'aveva mai vista prima, l'espressione arcigna con cui la fissava, non lasciava ben sperare.
''Ce ne hai messo di tempo'' commentò stizzita. ''Pure a te è saltata la luce?''
Gabriela sbatté le palpebre, confusa.
''La luce?''
Aveva appena finito di pronunciare la domanda, quando si sentì attraversare la schiena da un brivido freddo. Quella non era la sua voce. Per quanto assurdo potesse sembrare, il timbro vocale era chiaramente maschile.
Ignorando totalmente l'espressione sconvolta che le si stava dipingendo sul volto, la ragazza inclinò la testa di lato, così da riuscire a scorgere l'interno dell'appartamento alle sue spalle.
''Direi di sì'' concluse nello stesso tono acido. ''Cazzo. Avevano detto che il problema era risolto. Quelli dell'Eletrobras sono delle merde''.
Nonostante avesse parlato in un portoghese impeccabile, Gabriela non aveva la minima idea di quel che avesse detto quella sconosciuta. La sua mente era altrove.
''Perché hai quella faccia?'' la incalzò la ragazza, aggottando la fronte. ''Ti sei fatto qualcosa?''
Come svegliandosi da un lungo sonno, Gabriela aprì e chiuse gli occhi in rapida successione per poi portarsi una mano alla testa. Al contatto con i corti ricci che le spuntavano dal cuoio capelluto, il suo cuore prese a martellarle nel petto con foga ancora maggiore.
''Ehm, io...'' farfugliò incerta, ''non credo di sentirmi molto bene''.
''Si vede'' sentenziò la ragazza, arricciando le labbra in una smorfia. ''Diavolo hai una faccia da schifo. Fossi in te mi farei dare una controllata''
Gabriela si limitò ad annuire in modo meccanico.
''Sì, forse hai ragione''.
La ragazza scrollò le spalle.
''Beh, allora ciao'' disse con ostentata indifferenza. ''Goditi la tua serata al buio''.
Si era appena voltata, quando un repentino ripensamento la spinse a tornare sui suoi passi.
''Ah, un'ultima cosa''. E agendo con una rapidità sorprendente, le mollò uno schiaffò in piena faccia.
Completamente spiazzata dall'azione inattesa, Gabriela barcollò, ma fortunatamente riuscì ad evitare di scivolare a terra. Per quanto pure lei ne fosse sorpresa, il suo corpo aveva incassato il colpo abbastanza bene.
''La prossima volta pensaci due volte prima di giocare alla mano morta in ascensore'' sibilò la ragazza sprezzante. ''Se ti azzardi a toccarmi di nuovo il culo, lo dirò a Edoardo''. Scosse la testa con aria eloquente. ''Tu non vuoi che lo dica a Edoardo, vero?''
''No'' rispose Gabriela scuotendo la testa come un pappagallo un po' tonto.
''Sarà meglio per te'' gongolò curvando le labbra in un sorriso tirato. ''Non mi va di sprecare una mattina a raccontare alla polizia di come ti sei accidentalmente rotto tutte le ossa cadendo dalle scale. Quindi, tieni le mani a posto''. Il suo sorriso fintamente affabile si dissolse come neve al sole. ''Coglione''.
Senza aggiungere altro, le diede le spalle e prese ad incamminarsi lungo il corridoio immerso nel buio, fendendo le tenebre con la propria lampada da campeggio. Pochi istanti dopo la vide varcare la soglia di un appartamento affacciato sulla parete di destra, dentro cui scomparve chiudendosi la porta alle spalle.
Un'oscurità opprimente l'avvolse, ma grazie al fioco bagliore emesso da una luce di emergenza, posizionata a metà del corridoio, Gabriela riuscì a restare abbastanza calma da non cedere alla paura.
Rimasta sola, avanzò di un paio di passi sul pianerottolo, e dopo aver dato una rapida occhiata in giro, che le permise di appurare la totale estraneità di quel posto, tornò a concentrarsi sul palmo della sua mano destra. A quel punto si toccò la guancia che aveva ricevuto lo schiaffo, e poi, con lentezza quasi esasperante, prese a tastarsi il corpo.
Niente seno, culo piatto e un accenno di barba sul mento, senza poi contare...no, non poteva essere! Non aveva alcun senso! Era assurdo! Era folle! Tutto quello era...
Un incubo. Solo un incubo. Ovvio, palese, scontato. Perché non ci aveva pensato prima? Ma allora come mai non si svegliava?! Di solito, quando si rendeva conto di trovarsi dentro a un sogno, finiva per destarsi subito. Perché adesso non succedeva? Che qualcosa glielo impedisse? Forse era in coma.
Ma no, impossibile! Stava tenendo il suo discorso alla festa del partito. Non si trovava in ospedale. A meno che anche quel ricordo non fosse parte del sogno. Ma allora dove finiva la realtà e cominciava l'illusione? Per quanto si stesse sforzando, non ricordava alcun incidente. Sempre che non fosse accaduto mentre dormiva. Era tutto così insensato.
Una folata di vento le sferzò la schiena, mentre un sinistro cigolio risuonava alle sue spalle. Nemmeno il tempo di voltarsi e la porta dell'appartamento sbatté con forza dietro di lei. Girando sui tacchi con una velocità figlia dell'angoscia che stava vivendo, Gabriela afferrò subito la maniglia per poi cercare di abbassarla, non ottenendo però altro risultato se non quello di scontrarsi con la cruda realtà della situazione.
Era rimasta chiusa fuori.
''No, no, no!'' squittì disperata abbassando a ripetizione la maniglia. ''Cazzo, no!''
Una decina di infruttuosi tentativi dopo, mollò la presa e, per la frustrazione, sferrò un pugno contro la porta. La scarica di dolore che le attraversò le nocche per poco non la fece urlare.
''Ah!'' sibilò con le lacrime agli occhi.
Reggendosi la mano dolorante, scoccò un'occhiataccia alla porta, manco si trattasse di una persona in carne ed ossa.
''Fanculo!'' ringhiò a denti stretti.
Pur con notevole sforzo, Gabriela si massaggiò le nocche doloranti, mentre il suo sguardo si spostava dall'uscio al corridoio. Beh, se non altro quello sfogo insensato era comunque servito a qualcosa.
Se ciò che stava vivendo in quel momento era tutto un sogno, e neppure il dolore la faceva svegliare, allora doveva per forza trattarsi di un sonno mantenuto artificialmente, oppure dovuto ad un coma profondo. Da che ne aveva memoria, non le era mai capitato di provare sofferenza durante un incubo, senza che questo la facesse svegliare di soprassalto. Se soltanto fosse riuscita a ricordarsi come era cominciato tutto.
Uno spicchio di luce squarciò le tenebre, poi, una donna di mezz'età armata di torcia elettrica si sporse fuori dall'appartamento in fondo al corridoio, e rivolse il raggio luminoso verso di lei.
''La corrente non è ancora tornata?'' chiese in un tono a metà tra lo stizzito e l'incredulo. ''Di solito...''
Non riuscì a finire la frase, perché un grosso pittbull dal pelo cinereo le sbucò improvvisamente in mezzo alle gambe, per poi lanciarsi fuori dall'appartamento abbaiando a più non posso.
''No! Lúcio, no!'' strillò la donna in preda al panico. ''Cattivo Lúcio! Cattivo! Torna qui, stupido!''
Ma ormai il cane pareva essere sfuggito del tutto al suo controllo, tanto che prese a sfrecciare attraverso il pianerottolo senza nemmeno esitare un singolo istante. Cacciando un urlo di puro terrore, Gabriela scattò subito in direzione del primo passaggio laterale, cercando una qualche via d'uscita. Aveva appena fatto in tempo ad imboccare il corridoio, quando sentì il cane dietro di lei fare subito altrettanto, e allora fu come se le avessero legato dei razzi ai piedi.
Correndo ad una velocità che non credeva nemmeno di poter eguagliare, raggiunse le scale che conducevano verso il basso, e da lì in poi, saltando tre gradini alla volta, seguì le poche luci d'emergenza collocate a metà di ogni rampa, finché non riuscì a raggiungere il pianterreno. Nel momento in cui vide la porta d'ingresso, vi si gettò letteralmente addosso, e una volta all'esterno la richiuse in tutta fretta dietro di sé.
Aveva appena staccato le mani dalla maniglia, quando il grosso testone di Lúcio le latrò addosso da dietro il vetro, saltando ad altezza occhi. Atterrita, Gabriela indietreggiò di qualche passo, finendo addosso a qualcosa di duro. Perso l'equilibrio, scivolò a terra, e una volta sbattute le natiche sul cemento, si ritrovò a fissare il volto di un uomo sulla quarantina dall'espressione sprezzante.
''E sta attento!'' sbottò irritato, prima di allontanarsi lungo il marciapiede.
Le parole dell'uomo le giunsero remote e illogiche, come se provenissero direttamente da un'altra dimensione. Eppure, colui che le aveva pronunciate aveva tutta l'aria di essere fin troppo reale. E purtroppo per lei, non era il solo a sembrarlo.
Con il corpo ancora scosso da un leggero tremore, Gabriela si guardò nervosamente attorno, scrutando con un misto di terrore e incredulità le espressioni perplesse della gente che le passava accanto. Sentendosi in imbarazzo a stare in quella posizione, tornò subito in piedi, voltando la testa da una parte all'altra.
Si trovava ad appena pochi centimetri da una via trafficata, lungo cui decine di auto incolonnate attendevano il proprio turno di riprendere la marcia, stando in coda davanti al semaforo che spuntava a ridosso di un incrocio. Tuttavia, anche coloro che si spostavano a piedi non potevano certamente dirsi in numero inferiore. Entrambi i marciapiedi, che costeggiavano la strada su ambo i lati, risultavano affollati come durante la più caotica delle ore di punta.
Il sole doveva essere tramontato da poco, tant'è che nel cielo scuro sopra di lei si scorgevano ancora le tracce del giorno morente, ma ciononostante, la presenza di una densa coltre di nubi a cavallo dell'orizzonte sembrava aver costretto la città ad accendere anzitempo i suoi lampioni, così da fronteggiare al meglio l'inesorabile avanzare delle ombre.
Mentre il battito ricominciava ad accelerarle e il respiro tornava a farsi affannoso, Gabriela sbatté più volte le palpebre, quasi sperasse che quanto vedevano i suoi occhi scomparisse all'improvviso, e i passanti, la strada, i condomini e le macchine in fila si dissolvessero come per magia, per poi trasformarsi in una platea adorante stipata all'interno di un teatro stracolmo.
Tuttavia, niente di tutto ciò accadde, e lei rimase dov'era, a fissare con sguardo allucinato la gente che camminava su e giù per il marciapiede, apparentemente ignara e indifferente alla condizione in cui versava o alla sua reale identità. Come se si trovasse intrappolata all'interno di un ossimoro vivente, il mondo che la circondava pareva familiare e alieno al tempo stesso. Una pazzia senza senso, che per qualche ragione a lei ignota pareva incapace di abbandonare.
Sforzandosi di non cedere al panico, Gabriela prese un profondo respiro, e mentre cercava di rallentare la frequenza del proprio respiro, cominciò lentamente ad avanzare lungo il marciapiede verso il semaforo in fondo alla strada.
Non sapeva perché avesse preso proprio quella direzione, in realtà non le importava nemmeno, l'unica cosa che voleva in quel momento era calmarsi e fare mente locale. Ne aveva bisogno se non voleva impazzire. Il suo cervello reclamava a gran voce quiete e ossigeno. Le domande che le ronzavano in testa erano così tante, che se voleva sperare di gestirle non poteva proprio fare diversamente.
Che cosa stava succedendo? Dove si trovava? E soprattutto, chi era in quel momento?
La vetrina del negozio di elettrodomestici che si stava apprestando a superare, la spinse a voltare il collo così in fretta, che per poco rischiò di farsi male, e quando poi i suoi occhi incontrarono la superficie del vetro, il cuore le andò di nuovo in fibrillazione.
Il suo riflesso le stava restituendo lo sguardo, solo che non si trattava dello stesso volto con cui conviveva da oltre quarant'anni, bensì un viso a lei del tutto estraneo. Il viso di un ragazzo sulla trentina, con un accenno di barba sulle guance e i corti capelli neri.
Gabriela storse la bocca in una smorfia di assoluto sconcerto, e con suo sommo orrore, anche il riflesso fece altrettanto. Il mondo intero le crollò addosso.
Come poteva essere? In tutta la sua vita non le era mai, mai, capitato di sognare di essere qualcuno di diverso, e di sicuro in nessuna di quelle occasioni, realtà e finzione avevano finito per mischiarsi in maniera così dannatamente realistica. Non sembrava nemmeno che stesse dormendo.
Ma allora perché era lì?! Perché era lui?! Cosa poteva mai esserle capitato perché il suo cervello si spingesse fino a tali vette di follia?!
Domande senza risposta, che si accavallavano le une alle altre senza che nemmeno uno straccio di spiegazione giungesse a tirarla fuori dal baratro dell'ignoranza. Baratro da cui non aveva la più pallida idea di come uscire. Come mai tutto questo doveva capitare a lei?
''Scusi''
Una voce dal timbro femminile le giunse alle orecchie, ma Gabriela non parve accorgersene. I suoi occhi continuarono a restare puntati sulla vetrina.
''Mi scusi!''
Colta di sorpresa, Gabriela si voltò subito in direzione della voce, finendo per incrociare lo sguardo con una donna ormai prossima ai cinquanta dai capelli castani, la cui tinta veniva tradita dall'evidente ricrescita grigia.
''Tutto bene?'' chiese inarcando le sopracciglia.
Sebbene non sembrasse arrabbiata, perlomeno a giudicare dall'espressione sul suo volto, nel momento in cui si sentì rivolgere quella domanda, Gabriela ebbe notevoli difficoltà ad articolare una frase di senso compiuto. L'angoscia e la confusione, che continuavano a tormentarla senza sosta, da quando si era risvegliata in quella sorta di incubo ad occhi aperti, erano riusciti a privarla di gran parte della sua abituale sicurezza.
''Cosa?'' disse con voce flebile.
''È da quasi dieci minuti che continua a fissare quel tostapane'' spiegò la donna abbozzando un sorriso imbarazzato. ''Ha intenzione di comprarlo? Vuole che glielo mostri?''
''Io...''. Gabriela si bloccò a metà della frase. Le parole erano tremendamente difficili da buttar fuori, quasi le dovesse partorire. ''Io non, non...''
Rendendosi conto che non sarebbe riuscita a cacciarle fuori nient'altro, la donna emise un discreto sospiro.
''È indeciso, ok'' concluse in un tono forzatamente conciliante. ''Beh, se ha bisogno, io sono dentro, ma sappia che chiudiamo tra un quarto d'ora, quindi, nel caso volesse comprarlo, le consiglio di pensare in fretta. Domenica siamo chiusi tutto il giorno e riapriamo lunedì''.
Per quanto le riuscisse difficile, Gabriela si costrinse ad annuire.
''Va bene, grazie''.
La proprietaria le aveva appena dato le spalle e stava ormai per varcare la soglia del negozio, quando un'illuminazione improvvisa attraversò la testa di Gabriela, come un fulmine in una notte senza nubi.
''Aspetti!''
La testa della donna fece capolino da dietro l'ingresso. Gabriela deglutì.
''Per caso, sa dove si trova il Teatro Municipale?'' chiese titubante.
A quella domanda, la fronte della negoziante si riempì di rughe.
''Il Teatro...''. Nello sforzo di ricordare strinse i denti, e dopo alcuni istanti di concentrata riflessione, alzò il dito indice come per chiedere un time-out. ''Un momento solo''.
Senza aggiungere altro dentro il negozio, facendovi riecheggiare dentro la sua voce squillante.
''Fernando! Fernando!''
L'eco dei suoi passi si perse nel locale, costringendo Gabriela a seguirne il tragitto attraverso la vetrata all'esterno. Tempo un paio di minuti, quello che doveva essere il marito della donna varcò la soglia e la raggiuse sul marciapiede. A differenza della moglie, aveva i capelli naturalmente brizzolati, e pure la barba curata che gli ricopriva il mento e le guance lasciava intendere che il proprietario non si curasse poi troppo di nascondere i segni dell'età.
In ogni caso, di tutto ciò Gabriela non parve curarsi minimamente. In quel momento, aveva ben altri pensieri per la testa.
''Sera'' esordì l'uomo affabile. ''Allora, dov'è che aveva bisogno di andare?''
''Al Teatro Municipale'' rispose Gabriela tormentandosi le mani. Il tremore che le scuoteva non si voleva decidere a cessare.
Il commerciante si prese il mento tra le dita, assumendo un'espressione meditabonda.
''Il Teatro Municipale'' ripeté sovrappensiero. ''Ah, sì''. Stese il braccio in direzione del semaforo in fondo alla strada trafficata. ''Per prima cosa, raggiunga quell'incrocio, svolti a destra e poi prosegua dritto finché non arriva al viale Carlos Mendes. A quel punto lo costeggi fino all'Hotel Atlantica, e alla fine...''
''Non conosco il viale Carlos Mendes e nemmeno l'Hotel Atlantica'' lo interruppe Gabriela con ritrovato coraggio. ''Per caso, sono vicini alla cattedrale di San Sebastiano?''
''Quale cattedrale di San Sebastiano?'' domandò l'uomo aggrottando la fronte.
Le sopracciglia di Gabriela schizzarono subito verso l'alto.
''La cattedrale, no?'' disse confusa. ''Ha presente, quella...''
Unì i palmi, andando a formare una piramide, ma il commerciante non vi prestò attenzione.
''Senta, se vuole arrivare al Teotonio Vilela, l'unico modo da qui è raggiungere l'Hotel Atlantica'' spiegò lui mentre tornava a indicare il semaforo. ''Lo riconoscerà facilmente, è un grosso edificio marrone e l'insegna sul tetto si vede anche da lontano''.
''No, no, forse mi sono spiegata male...''
''Spiegata?'' chiese l'uomo sempre più confuso.
''Volevo dire spiegato'' si affrettò a correggersi Gabriela, quasi non credendo a ciò che stava dicendo. ''Non devo andare al Teotonio Vilela, ma al Teatro Municipale''.
Il negoziante si grattò la testa con aria perplessa.
''Intende il João Pedro Joaquim?''
''Cosa, no!'' sbottò Gabriela con impazienza. ''Voglio dire il Municipale! Il Municipale di Rio!''
Dapprima l'uomo sbatté le palpebre, e poi scoppiò in una grassa risata. Per quanto sconvolta da quella reazione scomposta, Gabriela non disse né fece nulla, limitandosi a fissare l'interlocutore con stampata in faccia un'espressione di totale sconcerto. O la gente era completamente impazzita, oppure lo stava diventando lei.
''Per quello dovrai camminare parecchio, ragazzo'' commentò divertito l'uomo non appena riuscì a calmarsi.
''In che senso?'' farfugliò Gabriela, gli occhi grandi come palline da golf. ''Vuole dire che servirà il bus?''
Per diversi secondi il commerciante la scrutò in tralice, come se fosse indeciso se prenderla sul serio oppure no. L'ilarità dimostrata appena pochi istanti prima, sembrava essersi completamente volatilizzata.
''Ma ci sei o ci fai?'' la incalzò stizzito. Gabriela aprì la bocca senza emettere alcun suono, spingendo l'uomo ad emettere un sonoro sbuffo. ''Questa è Sorocaba. Non c'è il Municipale di Rio a Sorocaba''. E dandole le spalle, se ne tornò dentro al negozio.
Per la seconda volta dopo solo una manciata di minuti dalla prima, Gabriela si sentì travolta da un'altra ondata di panico misto a disperazione.
Sorocaba.
Ma era impossibile. Se non ricordava male, quella città doveva distare almeno cinquecento chilometri da Rio. Come accidenti aveva fatto ad arrivare fin lì?! Senza poi considerare le ragioni di quel viaggio assurdo. Se anche fosse stato un sogno, ci sarebbe dovuto comunque essere un qualche collegamento col mondo reale.
Il suo mondo. I suoi pensieri. I suoi ricordi.
Lei invece non sapeva assolutamente nulla di Sorocaba. Non era mai stata a Sorocaba. Non aveva mai pensato a Sorocaba. Non gliene importava una cicca di Sorocaba!
Perché il suo cervello l'aveva mandata proprio laggiù?! Che senso aveva?! Ammesso che i sogni avessero un senso. Forse era solo un folle delirio partorito da chissà quale cocktail farmacologico. Ma se era davvero in ospedale, allora perché non ricordava nessun incidente? Indipendentemente da quanto si sforzasse, finiva sempre per tornare al punto di partenza. Il suo discorso al Teatro Municipale a Rio. Ciò che doveva essere accaduto dopo restava un immenso quanto insondabile abisso nero. E se...
E se fosse andata lei a Rio? In fondo, la cosa avrebbe avuto anche una certa logica, no? Magari, era il modo in cui suo cervello le stava dicendo cosa fare. Avevo letto da qualche parte che, a volte, in situazioni di difficoltà, il corpo cercava di comunicare ciò che voleva usando specifici segnali.
Serve potassio, e ti viene voglia di mangiar banane. Serve ferro, e ti viene voglia di bistecca. Forse, anche per uscire da quell'assurda situazione sarebbe stato necessario fare qualcosa di preciso. Facendole impersonare un ragazzo qualunque in una sperduta città di San Paolo, il suo cervello le stava suggerendo come agire per tornare alla realtà.
Doveva andare a Rio e trovare la vera sé stessa. A quel punto si sarebbe svegliata dal coma, o da qualunque altra cosa fosse quel delirante incubo. Sì, ormai non aveva più dubbi. Se voleva davvero tornare in sé non c'era altra strada se non quella.
Rinfrancata da questa ritrovata sicurezza, Gabriela prese un profondo respiro e imponendosi di far tornare il proprio battito regolare, cominciò ad avanzare sul marciapiede, seguendo la scia di passanti che la precedeva. La sua prima idea fu quella di chiamare un taxi, ma fu sufficiente dare una veloce controllata dentro le tasche dei propri bermuda per rendersi conto di non avere con sé neppure un centesimo. Il portafogli era evidentemente rimasto all'interno dell'appartamento.
Poco male, pensò lei. In fondo, se quello era davvero tutto frutto della sua immaginazione, non sarebbe stato difficile rimediare un passaggio. Nei sogni di cose assurde ne succedevano parecchie. Una volta le era persino capitato di vincere alla lotteria senza nemmeno aver comprato il biglietto. In confronto a quello, cosa poteva mai essere un semplice viaggio in macchina.
Purtroppo per lei, però, durante il suo giro di perlustrazione all'interno del quartiere, non le capitò di incrociare neppure un singolo taxi. Sorocaba d'altronde non era Rio. Stava ancora decidendo se le convenisse chiedere informazioni a qualcuno, quando le capitò di scorgere in lontananza una fermata dell'autobus, davanti a cui, proprio in quel momento, stava parcheggiando un grosso pullman blu scuro con il logo dalla Viação Cometa impresso sulla carrozzeria.
A quella vista un ampio sorriso si fece largo sul viso Gabriela. Non avrebbe potuto essere più fortunata di così. Un pullman specializzato in tratte interurbane compariva proprio quando ne aveva più bisogno. A quanto pareva, il suo cervello le stava confermando la fondatezza della sua ipotesi.
Quando raggiunse il mezzo al termine di una corsa abbastanza precipitosa, era trascorso poco meno di un minuto e gli ultimi passeggeri stavano finendo di salire a bordo. L'autista del pullman, un uomo tarchiato in evidente sovrappeso, sfoggiava in quel momento un'espressione apatica così convincente, che non sembrava curarsi nemmeno di guardare la gente intenta a timbrare il proprio biglietto o passare lo Smartphone davanti al lettore digitale, preferendo invece fissare il viavai di auto sulla strada.
''Per le carte il lettore in alto, per il QR Code lo schermo al centro, mentre per i biglietti il foro in basso'' elencò con aria assonnata grattandosi la barba sfatta. ''Non forzate che se no la macchinetta impazzisce''.
Atteso che l'ultimo passeggero fosse andato a sedersi al proprio posto, voltò la testa verso il marciapiede, finendo così per incrociare lo sguardo con una Gabriela ansante.
''Sera'' disse in tono piatto.
Gabriela prese un ultimo profondo respiro, e poi si rivolse all'autista, sforzandosi di rallentare il proprio battito. Per qualche strana ragione quella breve corsetta l'aveva sfinita, manco fosse reduce da una maratona. Se non fosse stata certa di trovarsi dentro ad un sogno, avrebbe scommesso che il ragazzo da lei impersonato fosse un fumatore incallito.
''Devo andare a Rio'' annunciò con aria quasi solenne.
''Questo pullman non arriva fino a Rio. La nostra ultima fermata è San Paolo'' spiegò l'autista senza la minima traccia di emozione nella voce. ''Però lì ci sono altri mezzi della Viação che fanno anche quella tratta''.
''Mi sta bene'' disse Gabriela salendo a bordo.
Era ormai pronta ad andare a sedersi, quando l'autista premette un tasto sul cruscotto, e le porte automatiche, che separavano il posto di guida dalla zona passeggeri, si chiusero di scatto, impedendole di avanzare.
''Biglietto, QR Code, o carta di credito?'' domandò l'uomo senza scomporsi.
''Nessuno di questi'' rispose Gabriela leggermente a disagio. ''Non ce li ho''.
L'austista alzò un sopracciglio.
''Fortuna allora che hanno inventato le biglietterie''.
''Non so dove sia la biglietteria, e comunque, non ho i soldi qui con me'' spiegò Gabriela senza nascondere una certa stizza. Secondo l'idea che si era fatta all'inizio, quella conversazione non ci sarebbe proprio dovuta essere.
''Comprali online'' ribatté l'autista nello stesso tono apatico.
''Non ho nemmeno il cellulare''.
Nell'espressione impassibile dell'uomo si aprì una crepa.
''Se vuoi ti posso prestare un arrangiati'' propose sarcastico, ''o preferisci come taglio un cazzi tuoi''.
''Ma...''
Nemmeno il tempo di concludere la frase, e l'uomo le assestò una forte spinta col braccio, costringendola a indietreggiare. Trovandosi praticamente incollata alla pedana di accesso, Gabriela rischiò per un attimo di perdere l'equilibrio e cadere di schiena giù dagli scalini, ma riuscì in extremis a voltarsi in tempo, finendo così per atterrare sul marciapiede senza rompersi l'osso del collo.
Confusa e scandalizzata da quel trattamento così rude, Gabriela si voltò subito, proprio mentre l'autista le scoccava un'occhiataccia velenosa con gli occhi ridotti a fessure.
''Non ho tempo da perdere con gli scrocconi!'' ringhiò sprezzante. ''Se devi andare a Rio e non hai soldi, ti consiglio di usare quelle belle gambine che ti ha fatto mamma senza venire a rompere le palle agli altri. Anche se ti riesce così difficile da comprendere, qui c'è gente che lavora''.
''Lei non capisce, si tratta di un'emergenza!'' sbottò Gabriela sconvolta.
Per tutta risposta l'uomo scoppiò in una risata fragorosa, per poi chiuderle in faccia le porte automatiche. Non era ancora riuscita a metabolizzare l'evento, quando il motore del mezzo rombò e il pullman si reimmise nella circolazione, lasciandola sola sul marciapiede.
Incapace di muoversi a causa dello shock subito, Gabriela non poté far altro che guardarlo allontanarsi a bocca spalancata, anche se pochi istanti prima che la sagoma del bus scomparisse alla vista dietro alcuni edifici, i lineamenti del volto le si rimodellarono in una maschera di collera.
''Stronzo!''
Fremendo di rabbia e indignazione, Gabriela diede le spalle alla fermata, e non badando agli sguardi incuriositi degli altri pendolari in attesa, si mise ad avanzare a passo deciso lungo il marciapiede.
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