𝘄𝗲 𝗼𝘂𝘁 𝗹𝗶𝘃𝗶𝗻𝗴 𝗹𝗶𝗳𝗲 𝗶𝗻 𝘁𝗵𝗲 𝗻𝗶𝗴𝗵𝘁

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– Shōyō, smetti di saltare sul letto. –

– Ma è divertente, Tobio! –

– Ieri sera hai battuto la testa sul soffitto. –

– E allora? È stato divertente lo stesso! –

Entro in camera mia un passo alla volta, i capelli fradici dalla doccia e la maglietta da mettere fra le mani, sorrido, sospiro, guardo Shōyō che salta.

È vero che salta parecchio in alto.

Ha tre costole rotte, le spalle slogate, una coltellata in via di guarigione a due centimetri dallo stomaco, il tutore ad un braccio e una quantità di cerotti in faccia che lo fanno sembrare una mummia.

Eppure salta in alto, sul materasso del letto di casa mia, come se non sentisse il dolore.

– Se continui così ti fai male sul serio. –

– Non fare il guastafeste, guarda che... ah! –

Atterra male sul piede, si sbilancia in avanti, se non fossi pronto di riflessi sarebbe rovinato a terra, sul pavimento, come una mosca su un parabrezza.

Lo prendo al volo.

Lo stringo e affilo il mio sguardo verso di lui.

– Che cosa ti avevo detto? –

Abbassa le sopracciglia allo stesso modo in cui faccio io.

La sua voce è più cupa, scimmiotta palesemente la mia.

– Scemo, Hinata, sei scemo! Te lo dico sempre che sei scemo, sei uno sce... –

– Io non parlo così. –

– Parli esattamente così. –

Arriccia le labbra, scuote la testa, continua a guardarmi.

– Sei un musone antipatico che mi dice che sono scemo. Sì, sì, assolutamente sì. –

Lo adagio sul letto con calma, aspetto che la sua schiena sia completamente appoggiata sul lenzuolo, prima di stendermi al suo fianco e guardarlo negli occhi.

– Tu ami questo musone antipatico. –

– Oh, sì che lo faccio. –

Attraverso i suoi capelli con le dita piano, lentamente.

Qui la luce non è gialla e spettrale com'era là, in quel posto dove l'ho tenuto per troppo tempo. Si vede bene la sua pelle, il colore morbido e dolce delle guance e delle piccole lentiggini che ha sul naso, le sopracciglia chiare, le ciglia lunghe.

Sei così bello.

Così bello, così bello, cazzo.

– Anche io ti amo, Shō. –

Sorride a trentadue denti.

– Lo so. –

– Fai bene a saperlo. –

Lo trascino sul materasso con delicatezza, ci porto su verso la testiera del letto, lascio che si sistemi sopra di me.

Appoggia la guancia contro il mio petto, attraversa le mie costole col tutore stretto attorno al polso, mi guarda da sotto le ciglia e sorride mentre passo le dita sul suo collo, sul principio della schiena nascosta dalla maglietta che indossa.

Ha detto che non voleva morire.

Non me l'aveva mai detto.

Ha detto che mi amava, che teneva a me, che ero speciale per lui.

Ma così tanto da dire a fronte di una vita come la sua che no, lui non voleva morire, non credevo di esserci arrivato.

"Tobio, io non voglio morire".

Ho fatto in modo che non morisse.

Non ricordo molto di quello che è successo quattro giorni fa.

Ricordo di essere arrivato all'ospedale tenendolo in braccio, piangendo, pregando chiunque ci fosse di non farlo morire, che lui non voleva morire, non poteva morire.

L'ha accoltellato due centimetri sopra lo stomaco.

Due centimetri e me l'avrebbe ucciso.

Siamo stati... io e Shōyō siamo stati fortunati.

– Che vuoi per cena? –

Mi rivolge lo sguardo immediatamente.

Gli piace mangiare.

Gli piace davvero.

– Non vuoi scegliere tu, per una volta? –

Scuoto la testa.

– Scegli tu finché non mi sarò fatto perdonare. –

– Non c'è niente di cui farti perdonare. –

– C'è, e me lo ricorderò da solo se non vuoi farlo tu. –

Storce il naso.

– Musone. –

– Scemo. –

Sale con la mano fino al mio viso, mi accarezza la guancia con le dita.

– La pizza formaggiosa dell'altro giorno. –

– L'abbiamo mangiata tre giorni fa. –

– E allora? Voglio la pizza formaggiosa, Tobio. –

Ridacchio fra me e me, sporgo la mano per prendere il cellulare sul comodino.

– E pizza formaggiosa sia. –

Non so che cosa abbiano intenzione di fare riguardo a me Daichi e Sugawara.

Non ho più sentito niente da loro da...

Da quando mi sono permesso di schiacciare una pistola sulla testa di Daichi.

Da quando sono scappato senza proferire un'altra parola.

Io...

Ho pensato di scappare.

Di ficcare me e Shō sul primo volo disponibile e fuggire via, il più lontano possibile, solo io e lui.

Ma li conosco. Ci avrebbero trovati nel giro di ore, minuti, forse. Tanto valeva tornare a casa, che tanto di scappare alle loro decisioni, non avevamo possibilità.

Non so cosa vogliano fare a riguardo.

Non so se vogliano ucciderci o uccidere me per tradimento o uccidere solo Shōyō.

Non ne ho idea.

Ho scelto di non curarmene.

Non so quanto abbiamo, ma quel che abbiamo dev'essere felice, perché è tutto quello che ho.

Apro il cellulare e cerco l'app del delivery che usiamo sempre, scorro fra gli ordini precedenti, trovo il posto, ripeto lo stesso ordine con calma.

– Prendi le patatine? –

– Le vuoi? –

– Che te l'avrei chiesto a fare se no? –

Gli pizzico un fianco con le dita, aggiungo le patatine all'ordine.

– Con cosa la vuoi la pizza? –

– Con le patatine. Anzi... con le patatine e i würstel. No aspetta, forse solo con... –

Aggiungo la mia prima di ascoltarlo. Ci mette un po' a scegliere, fa sempre così, mi conviene prendere la mia margherita senza pretese prima che anche solo ci provi, a vedere cosa vuole.

– Hai scelto? –

– Ci sto pensando, non mettermi fretta. –

– Se non me lo dici entro quaranta secondi ti prendo la pizza con i carciofi. –

– Ma i carciofi fanno schifo! –

– Appunto. –

Chiude i pugni sulla mia maglietta, sporge il labbro in un broncio infantile.

No che non te la prendo la pizza coi carciofi, credo sia una delle cose più aberranti prodotte dalla mente dell'uomo, ti amo, mica ti voglio vedere morto.

– Dieci, nove, otto, se... –

– Con le patatine e i würstel. Deciso, cento per cento, lo giuro. –

Annuisco ed eseguo la richiesta. Aggiungo al carrello la pizza, pago, osservo l'immagine del corriere iniziare a scorrere sulla minuscola mappa sul cellulare.

– Ci siamo. –

– Quanto ci vuole? –

– Da trentacinque a quarantacinque minuti, dice. Inaspettatamente specifico. –

– Già. –

Poso il cellulare sul comodino di piatto, guardo Shōyō un secondo prima di fare qualsiasi cosa.

Questo è il posto in cui devi stare.

Questo il posto dove avrei dovuto portarti subito, immediatamente.

Non appartieni alla distruzione, Hinata.

Tu risplendi e la tua è la luce della gioia più sfrenata.

Lo aiuto a tirarsi su sopra di me, il mento sul mio sterno, il tutore in corrispondenza di una mia clavicola e il viso pieno di cerotti proprio di fronte al mio.

Mi sporgo per baciargli la punta del naso.

– Sei tanto bello, lo sai? –

Gli diventano rosse le guance.

– Anche con questi cosi? –

Annuisco.

– Anche se non avessi più la faccia, Shō. –

Arriccia le labbra.

– Io vorrei tenermela la faccia, però. –

– Non era quello che volevo dire. –

– Lo so, ti prendevo in giro. –

Sorrido e sorride anche lui, le nostre labbra s'incontrano a mezz'aria.

– Anche tu sei tanto bello, ma te lo diranno tutti, che te lo dico a fare. –

– In realtà non me lo dice quasi nessuno. –

Spalanca gli occhi.

– Che? Davvero? –

Alzo appena le spalle.

– Qualcuno qualche volta, ecco, però niente di che, insomma... –

Mi prende la faccia con la mano sana, mi stringe il mento fra le dita e mi guarda dritto negli occhi, serissimo, come se non stessimo scherzando fino ad un attimo fa.

– Tobio, ascoltami bene. –

– Ti ascol... –

– Tu sei bellissimo. Incredibilmente bello. Sei alto, hai le spalle larghe, ti si vedono gli addominali e la tua faccia sembra uscita da una rivista. Hai gli occhi più belli che abbia mai visto e amo il tuo colore di capelli. Hai capito? –

Mi sembra che la mia faccia vada a fuoco.

– Pe... perché me lo stai dicen... –

– Perché è vero. –

Distolgo lo sguardo e lo pianto sul muro in fondo alla stanza.

Io so di non essere brutto.

Lo so.

Ma...

Non so, i complimenti mi fanno un effetto strano.

– Vuoi che te lo ridica? –

Scuoto la testa in silenzio.

– Sicuro? –

– Sicuro. –

Si sporge per appoggiare le labbra sulle mie.

– Quando vuoi. –

– Gra... grazie. –

Sento caldo alla faccia.

Sul serio sento...

Mi giro verso di lui un po' incerto.

– Eri serio? Quando lo dicevi, eri serio o mi stavi prendendo in gi... –

– Serissimo, Tobio. –

– Oh, ok. –

Stringo il braccio sulla sua vita ed evito il suo sguardo un'altra volta, gli occhi incollati da tutt'altra parte per smaltire lo shock.

Io...

Non lo so, tutto quello che è successo deve avermi resettato il sistema emotivo. Provo cose che non avevo mai provato, mi sembra tutto... così strano.

Però è bello.

È strano, ma è bello.

Credo che...

So che non durerà.

Lo so.

Non cerco di illudermi, so coscientemente che sto ignorando il problema, è vero.

Ma non posso ignorarlo sempre.

Ogni tanto torna.

Ogni tanto mi spaventa.

Stringo Shōyō più forte, lo tiro su, affondo il naso fra i capelli e respiro un paio di volte profondamente.

Lo so che vi ho traditi.

Lo so, ma...

Non so se spero che siano felici per me.

Non so se riusciranno ad esserlo.

– Ansia? –

– Mh-mh. –

– Non averne, ci penso io. –

– Ci pensi tu? –

Mi accarezza il viso, il lato della bocca.

– Sono molto bravo a risolvere problemi. Ci penso io, Tobio. –

– E come vorresti pensarci? –

– Con i miei pugni. –

Rido piano.

– Peserai venti chili bagnato, Shōyō. –

– Scherzi? Almeno venticinque. –

Ride con me, il suo petto trema contro il mio e la sensazione è calda, piacevole.

Incastra le dita fra i miei capelli, li pettina delicatamente.

– L'unica cosa importante è che rimaniamo insieme, Tobio. –

Annuisco.

– Anche se ci ammazzano. –

– Esatto. –

Lo tiro verso di me.

Tiene la fronte sopra la mia, le punte dei nostri nasi si sfiorano appena, le labbra allo stesso modo, sorride e sorrido io di rimando.

– L'importante è che esistiamo solo noi. Di qua o di là. Vero? –

– Vero. –

Mi bacia.

– Ti amo, Tobio. –

– Anche io ti amo, Shōyō. –

Si lascia andare e il suo corpo si rilassa.

– Sai, vorrei raccontarlo ai miei vecchi amici. A quelli che erano con me e Natsu. Di noi, dico. –

Aggrottò le sopracciglia.

– Oh, e perché? –

– Perché ho palesemente la relazione migliore di tutti. Certo, Bokuto è tipo lo zerbino di Akaashi e Shimizu distruggerebbe il mondo se Yachi glielo chiedesse, ma nessuno di loro è stato salvato come hai fatto tu con me. Sei il più fico di tutti. –

– Sul serio? –

Annuisce.

– Assolutamente. Scena da film, ti giuro, tutta sbem e pum e sbam ed erano tutti morti. Se non mi avessero accoltellato me la sarei goduta di più. –

– Sei uno scemo. –

– Non sono scemo! –

– Sei davvero uno scemo. –

– Non è ve... –

Lo bacio prima che possa rispondere, lo faccio sorridendo.

È scemo che mi dica che sono il più "fico", come dice lui, ma... ma è bello, diciamoci la verità. Mi fa sentire tutto fiero e orgoglioso di me stesso e 'fanculo il buon costume, io sono felicissimo che mi tratti come un trofeo.

Ha detto che sono il più fico di tutti.

Sono onestamente molto felice che me l'abbia detto.

Si stacca con gli occhi che brillano, sorride anche lui.

– Sarò anche scemo, ma ti piace che lo sia, mi sembra. –

Annuisco.

– Sì, mi piace. Mi... mi piace. –

– Si vede. –

Lo bacio di nuovo, questa volta nessuno dei due si stacca per parlare. È dolce, quotidiano, morbido, ma lungo e sensuale, in un certo modo.

Continua a muovere le labbra con le mie, insieme e in armonia, le apre e intreccia la lingua con la mia, mi tiene il viso con le mani, si spinge più forte contro di me.

Chiudo le dita sui suoi fianchi stretti.

Continuo a baciarlo, a baciarlo ancora.

Sai di casa.

Sai di casa e sai di Sole, sai di felicità e sai di leggerezza, sai di tutto quello che di bello c'è al mondo, Hinata Shōyō.

Ti amo davvero.

Io, io ti amo davvero.

Ci stacchiamo col rumore del campanello.

Succede di colpo, il suono squarcia la quiete umidiccia dei nostri baci, ci ritroviamo faccia a faccia col fiatone, occhi negli occhi, le labbra umide e poco più di un respiro a separarci.

– Dev'essere la pizza. –

– Già. – concordo.

Mi guarda negli occhi.

– Vai tu? –

– Certo che vado io. –

– Prendi la Coca-cola in frigo? –

– Non vuoi la birra? –

Il campanello suona di nuovo.

– Non amo l'alcol. –

– Come vuoi. –

– Se non ti togli non posso andare. –

– Non ho voglia di farlo. –

Lo guardo abbassando le sopracciglia.

– Ti amo, Shōyō, cazzo. –

– Anche io. –

Sporgo il collo per baciarlo, lo aiuto a spostarsi senza farsi male, mi tiro su e procedo per la casa di fretta, che quel poverino già deve aver aspettato per il nostro battibecco da amanti, sarebbe scortese...

Mi passa l'orologio di fronte agli occhi.

Che ore sono?

È...

Mi si raggela il sangue nelle vene.

È troppo presto.

È immotivatamente presto.

È...

Mi avvicino alla porta.

Deglutisco un grumo d'ansia che sembra piombo, prendo fiato, mi faccio coraggio che non ho, le mani mi tremano come foglie.

– Chi è? –

C'è silenzio.

La porta è spessa, buttarla giù è complicato, lo so. Ci sono tante armi qui dentro, non metto in dubbio che potremmo sopravvivere ad un attacco, ma...

– Non apro se non sento chi è. –

Lo so che ho detto che mi bastava stare con lui, anche da morto, ed è così.

Ma...

Un attimo.

Ancora un paio d'ore, vi prego.

Ancora il tempo di guardarlo sorridere mentre mangia la pizza.

Ancora...

– Siamo noi, Tobio. Siamo disarmati, vogliamo solo parlare. –

Sugawara Kōshi.

È arrivato anche il mio turno, no?

L'ho detto prima che tutto questo iniziasse, che il corvo canta la morte, l'ho detto. È il mio turno di essere divorato? È il mio turno di scomparire nel nulla?

Io...

– Siamo disarmati. Facci entrare. –

Il cuore nemmeno batte, no, trema.

– Chi mi dice che siete... –

– Lo giuro sulla vita di Daichi. Sul Karasuno, su me stesso, su Oikawa. –

Avvicino la mano al pomello.

– Anche tu, Daichi. Giura anche tu. –

Sento qualcuno schiarirsi la voce.

– Giuro sulla vita di Suga, sul Karasuno, su Asahi e sul kimchi di Kuroo. –

– Il kimchi di Kuroo? –

– È spaziale, amore, non dire che non lo sia. –

– Sei un cretino. –

Stanno...

Stanno scherzando fra di loro?

Sono venuti qui a casa mia per ammazzarmi e stanno scherzando?

Io...

Sono disarmati.

Sono disarmati e vogliono parlare.

Io non mi fido, ma dall'altra, posso permettermi di non farlo?

Forse...

– Shōyō, rimani di là. Non uscire dalla camera. – urlo verso l'interno della casa.

– Eh? –

– Ti prego, ascoltami e basta. –

Non sento risposta.

Avrà capito?

Sì che ha capito, certo che ha...

Apro la porta di casa.

Non ho dubbi sul fatto che siano disarmati, lo dicono tutti, che il Karasuno non mente, e di certo non lo possono fare le persone che lo rappresentano.

Non riesco però a trovare calma sufficiente dentro di me per fingere, quantomeno, di essere rilassato.

Si stagliano sulla porta di casa mia come la coppia che sono.

Uno vestito di nero, l'altro di bianco, mano calzata in un guanto che si mescola con la pelle martoriata dell'altra, nei e ciglia chiare da una parte, mascella squadrata e serietà dall'altra.

La camicia di Daichi è più aperta del solito, oggi.

Si vede l'enorme corvo bianco che porta sul pettorale sinistro.

Indietreggio di qualche passo nel silenzio più tombale.

Mi sento di troppo.

Mi sento di troppo nella mia stessa casa.

– Possiamo sede... –

– Mani fuori. Voglio vedere le vostre mani. – mi scappa dalle labbra, più di riflesso che altro.

Suga sembra avere a che fare con una bestia feroce fuori controllo, quando libera la sua mano dalla stretta e tira fuori l'altra dalla tasca, mostrandomele di fronte a sé.

– Disarmati vuol dire disarmati, Tobio. –

– Io non... –

– Non saremmo mai venuti qui armati. –

Mai?

No, forse per me no.

Ma lui l'avete fatto accoltellare.

Non facciamo finta che non sia mai successo.

– Siamo solo venuti per parlare della tua... situazione. –

– Se siete qui per fare altre ipotesi di merda su come e chi decido di scopare potete uscire da quella porta e non tornare mai più. –

– No, Tobio, no. –

Daichi prende una sedia e la tira indietro, fa sedere Suga per primo. Gli tasta una spalla distrattamente, come se fosse un gesto quotidiano ed istintivo, stringe le dita così, affettuosamente.

Si siede dopo di lui, al suo fianco, in mezzo al salotto con le sedie del tavolo sul tappeto scuro che copre il parquet.

– Perché non ti siedi anche tu? –

Guardo Suga come se mi avesse fatto un torto. Che probabilmente me l'ha fatto e non lo sa, probabilmente non si rende di quel che dice.

– Non ho alcuna intenzione di sedermi. –

– Ti ho detto che siamo... –

– Non mi siedo, punto. –

Sospira, china la testa, capitola con un timido "come vuoi".

Rimango là, fra la camera da letto dove Shōyō deve rimanere e loro, in piedi, col sangue che non saprei se dire gelido o bollente, l'ansia fiorita fin nello stomaco, le gambe molli e il respiro corto.

Non potete.

Non potete toglierci questo.

Deve arrivare la pizza, noi stavamo per mangiare la pizza.

Volevamo solo essere due ventenni normali, per un attimo, per un minuto solo.

– Quello che hai fatto è molto grave, Tobio. – inizia Daichi.

Annuisco.

– Lo so. –

– Tante altre persone che non sono te a quest'ora sarebbero a faccia in giù sul cemento in giro per la città. Tante altre persone che non sono te non sarebbero mai riuscite ad uscire da quell'ufficio. –

– So anche questo. –

Mi guarda dritto negli occhi.

Così intensamente che sembra voglia farmi evaporare in una nuvola in mezzo alla stanza.

– Mi hai puntato una pistola alla testa, hai difeso un traditore, hai ucciso i miei uomini, hai disobbedito ai miei ordini, non hai concluso la mansione che ti ho dato e hai preso le parti di un esterno al posto della nostra famiglia. –

Fa la lista dei miei peccati?

Sembrano i capi d'accusa in un processo.

Vuole che mi dichiari colpevole?

Vuole che urli ai quattro venti la mia innocenza?

– Ti sei comportato davvero male. –

– Hai deluso molte delle mie aspettative. – aggiunge Suga, lo sguardo sul mio, le gambe accavallate e i guanti aperti sulle cosce.

Mi sembra di essere sgridato da mamma e papà.

Ma mamma e papà di solito non hanno una pistola e non stanno per uccidere te e tutto quello che ami e...

– Vogliamo che tu capisca quanto problematico sia stato il tuo comportamento e trovi una soluzione da solo, vogliamo che... –

– Non è stata colpa sua! –

La voce arriva dal fondo della stanza.

La voce è allegra, è energica, è dolce.

Mi piace, la amo.

Ora mi spaventa così tanto, ma così tanto che potessi nascondermi lo farei.

Mi giro di scatto, osservo la testa di Hinata spuntare dalla porta della camera da letto, il tutore puntato verso di me, le gambe nude e la maglietta che gli copre quasi le ginocchia, i mille cerotti e le bende, lo sguardo come al solito, fiero, orgoglioso.

Non cede.

Lo guardo come a pregarlo di non dire altro ma lui, come al solito, non cede.

– Non è stata colpa sua. Niente di tutto questo è stata colpa sua. –

– Shōyō, torna... –

Suga alza una mano.

– No, Tobio, per favore. Vorrei sentire cos'ha da dire il prigioniero. –

Lo guardo male.

– Shōyō non è un prigioniero. –

– Ex. – precisa, infastidito, come se gli stessi rubando del tempo.

Tendo una mano verso Shō ma non la prende, cammina con la faccia verso Daichi e Suga, sembra quasi che per un attimo non mi veda.

– Voi siete qui a parlare di colpa e di punizioni e stronzate varie come se la colpa fosse davvero di Tobio. Ma è colpa di Tobio? O è colpa di chi l'ha messo alle strette per comportarsi in questo modo? –

Daichi si piega in avanti.

– Stai dicendo che è colpa nostra? –

– Sto dicendo che usate due pesi e due misure, e volete ammazzare me e Tobio per qualcosa che in precedenza avete lasciato correre. Io so tutto, e quando dico tutto, intendo tutto. Io lo so cosa nascondi sotto quei guanti, Sugawara Kōshi, so com'è andata, so che cosa è successo. Non fingere che la situazione sia diversa, adesso, non sarebbe vero. –

Cammina mentre parla e mi supera.

Mi supera e si mette di fronte a me, con le braccia conserte e lo sguardo fiero.

Mi sta...

Mi sta proteggendo.

Sembra volermi dire "stammi dietro, qua ci penso io".

Me l'aveva detto, ma non ci avevo creduto, prima.

– Quando Sugawara è stato rapito quattro anni fa, lo vogliamo dire ad alta voce perché è successo? Io lo so, me l'avete detto voi. –

Suga guarda Daichi che lo guarda indietro.

Panico?

È per caso quello...

– Nessuno puntava a Sugawara. Puntavano a Oikawa Tooru e lui si è messo in mezzo e si è fatto prendere al posto suo. Per la legge secondo cui tutto quello che ruota attorno ad un tentato omicidio è un problema da risolvere, Sawamura, avresti dovuto far uccidere anche Oikawa. Ma non l'hai fatto, perché Suga gli vuole bene. –

È così piccolo.

Così...

– Tobio mi vuole bene. Tobio mi ama, anzi. Perché lasciar correre con Oikawa e non con me? Perché sono feccia? Perché sono povero? Perché non sono importante? Sì, credo che l'atteggiamento di Tobio sia colpa vostra. Lo credo perché potevate fare diversamente e l'avete già fatto, avete scelto di comportarvi così, Tobio ha solo reagito di conseguenza. –

Il silenzio è tombale.

Lui è...

L'ho detto, io, che è il Sole.

Rischiara, illumina, comprende.

Ditemi ora che non vi sembra non esserci altro nella stanza.

Ditemi ora se tutta la luce non viene da lui, non è lui, in questo posto.

– Io non mi farò ammazzare. Sono sopravvissuto a tutto, sono in grado di sopravvivere anche a voi. Se fate qualcosa a Tobio, qualsiasi cosa a Tobio, io vado dalla polizia e racconto tutto. Tutto di tutti, tutto. Di voi non rimarrà nemmeno il ricordo. –

– Guarda che in prigione ci vai anche... –

– Non m'interessa dove finisco, m'interessa che ci finiate voi. –

Ha le spalle rigide, la postura autoritaria.

Un metro e sessanta, sarà.

Ma sta qui in piedi di fronte a me e li minaccia se mi fanno del male, lui...

– Tobio non lo farebbe, lui vi vuole bene. Io no. Io vi distruggo uno per uno se provate a rovinare questo. –

Credo che "questo" sia... noi.

– Io e lui non vogliamo fare male a nessuno. Non volevo mandarti a morte, Sugawara, lo giuro. Ho venduto le informazioni per soldi come ho fatto con te e con tutte le persone con cui lavori, io non ho responsabilità su come vengano usate. –

Si sposta indietro.

Le sue spalle sbattono contro il mio addome, si regge su di me.

– Non facciamo niente a nessuno. Vogliamo solo l'occasione di poter stare insieme come due persone normali. Noi... noi ce la meritiamo, cazzo. Ce la meritiamo davvero tanto. –

È terrorizzato, molto più di me.

Lo sento da come mi si appoggia addosso.

Lui...

Trema forte, fortissimo, suda freddo, ha paura.

Lui ha paura ed eppure...

Esterrefatto credo che sia la parola corretta. Stupito, impressionato, colpito per usare dei sinonimi.

Sono in silenzio che guardo l'altrettanto tombale silenzio della stanza, vago con lo sguardo da Suga e Daichi come me, zitti, in rispettosa attesa che le parole finiscano e che tutti le abbiano capite, non vola una mosca.

Lui riempie la stanza.

Lui fa sua la stanza.

Lui...

Io amo Hinata Shōyō.

Lo amo perché è scemo e mi costringe a dire una parola come "formaggiosa". Lo amo perché ha i capelli del colore delle arance, lo amo perché mi piace che sia fisicamente esile, lo amo perché la sua voce mi tranquillizza.

Lo amo perché è energico e lo amo perché non lo è, lo amo perché non ha voluto vivere per tanto tempo, lo amo perché ora vuole farlo.

Lo amo perché è forte.

Più forte di chiunque altro.

Lui ha superato l'abbandono, gli abusi, la morte della sorella. Ha superato una vita di rifiuti e di persone che si sono girate dall'altra parte, di solitudine, di fuga.

Hinata Shōyō non ha chinato gli occhi quando gli ho puntato una pistola alla tempia.

Non ha chiesto scusa quando ho minacciato di ucciderlo.

Non ha evitato il mio sguardo quando mi ha pregato di poter vedere i miei occhi prima di morire.

Hinata Shōyō è quell'unico diamante che nasce dalla violenza delle rocce attorno a lui.

È la stella che ce la fa.

La stella che splende.

Hinata Shōyō è il Sole, che non teme nessuno, nemmeno due mafiosi che potrebbero distruggerlo, se deve prendersi quello che vuole.

Quello che vuole sono io.

E credo ormai di brillare un po' della sua luce riflessa.

Sugawara sbatte le palpebre, è il primo a prendere fiato per parlare.

– Io... –

Gli muore la voce in gola. Rimane fermo, respira, ricomincia e riprova.

– Io non so cosa dire. Non so che cosa... –

Daichi gli mette una mano sulla coscia.

– Amore, che cosa faccia... –

– Non lo so, Daichi, non ne ho idea. Ha ragione, ce l'ha, ma... –

– Io... –

Stringo forte le braccia attorno a lui, lo sorreggo su di me.

Senti che ti amo?

Da come ti tocco, lo senti che ti amo?

Si guardano, Daichi e Suga, per un paio di istanti.

Poi si annuiscono a vicenda.

Poi ancora si alzano.

Sugawara si avvicina a Shōyō, io avvito più stretta la mia presa.

– Quando Tobio ha detto che eri speciale ho creduto parlasse di sesso ma... wow, ragazzino, con quale faccia tosta. –

Shō stringe i denti.

Sta per dire "con la mia".

Se lo risparmia.

– Però non hai torto. Sulla faccenda di Oikawa, non hai torto. Secondo la tua teoria, se dovessi uccidere te, dovrei ipoteticamente uccidere anche il mio migliore amico. –

Annuisce, Suga arriva così vicino che riesce a spostagli una ciocca arancione dalla fronte.

– Peccato che non m'interessi di sembrare coerente. Sono un mafioso, non un politico. –

Ci cammina vicino un passo dopo l'altro, ci ruota attorno.

– In ogni caso... Tobio ti ama. E questo è innegabile. –

Daichi annuisce.

– Non ci perdonerà mai se ti facciamo del male. –

– E Tobio l'abbiamo cresciuto per seguire a Daichi, quindi perderlo sarebbe problematico. –

– Mmh, giusto, giusto. –

Si guardano a vicenda, esaminano le possiblità.

Io lo stringo forte, Shōyō.

Non so cosa ci faranno.

Teoricamente niente, ma...

Se dovessero fare qualcosa così è perfetto.

Con te fra le braccia è...

Suga si ferma di colpo. Si ferma, si gira, fa due passi decisi verso di me, si pianta di fronte a Shōyō.

Sobbalzo quando gli prende i polsi con le dita, sento un brivido corrermi sulla schiena.

– Da quanto non ti fai? –

– Tre mesi. –

– Hai smesso tu? –

– Involontariamente, ma ho smesso. –

Suga storce il naso.

– Onestamente, è qualcosa a cui ritornerai? –

– La droga? –

– Mh-mh. –

Hinata fa spallucce.

– Io usavo la droga per scappare dalla realtà, Sugawara. Ora... non credo di aver tanta voglia di scappare.  –

– Ottima risposta. –

Gli guarda gli avambracci, i segni cicatrizzati dei buci, i tagli, i graffi.

Che cosa sta facendo?

Che cosa...

– Tobio. –

– Dimmi. –

Lo guardo immediatamente negli occhi.

– Portalo a tatuarsi entrambe le braccia, non devono vedersi i segni dei buchi. Torna a partire dalla prossima settimana, ci servi a lavoro. Il prossimo problema che create siete morti. –

Il mio cuore si ferma.

– Lo voglio formato entro tre mesi. Formato ed efficiente. Se tu sarai il nuovo Daichi, lui sarà il nuovo me, ed essere me non è affatto facile. –

Annuisco selvaggiamente.

– Credo che il fattorino delle pizze sia passato mentre parlavamo, ho sentito il campanello. –

Il fattorino...

– Daichi, hai qualcosa da dire? –

Daichi si alza, scuote la testa mentre lo fa.

Stanno per andarsene?

Sono venuti qui a graziarci?

Sono...

Vedo una delle mani di Suga raggiungere Shōyō, la chiude alla base del suo viso, lo stringe e tira su il suo sguardo verso il suo.

– Del rapimento, non devi parlare a nessuno. Sono serio, serissimo. Non una parola, non un accenno. Se qualcuno inizia a sapere qualcosa, vengo da te, e questa volta nessuno potrà intercedere per la tua vita, ragazzino. –

Shō annuisce.

Suga sposta gli occhi verso di me.

– La prossima volta che tiri fuori una pistola a meno di un metro da Daichi ti faccio tagliare le mani. –

Mi mordo l'interno della bocca e annuisco come ha fatto Shōyō un attimo fa.

– Entro la fine del mese lo devi presentare agli altri della famiglia. Lo so che odi gli eventi pubblici ma lo devi proprio fare, Tobio. –

Daichi annuisce.

– Possibilmente cerca di non minacciare di morte le persone quando lo faremo, ce la puoi fare? –

Mi sta prendendo in giro?

Mi stanno prende...

Si affiancano uno all'altro, percorrono il mio salotto verso l'uscita, uno dietro l'altro, con la calma serafica dell'assurdità che ci circonda.

– Noi andiamo, ora. Ci vediamo fra una settimana. Ah, Shōyō? –

Shō, fra le mie braccia, alza lo sguardo.

– Sì? –

Suga addolcisce lo sguardo.

– Hai davvero un bel sorriso. –

Apre la porta, fa spazio a Daichi, agita la mano e se ne va, nel silenzio tombale e spettrale che ci circonda.

Così.

Arrivato come un fulmine a ciel sereno ed esaurito nel giro di pochi istanti.

Ma...

Shōyō trema.

Trema forte e si adagia ancora di più su di me.

È...

– Cazzo, è la cosa più terrorizzante, la più terrorizzante che abbia mai fatto. Sto... reggimi, Tobio, ti prego. –

Ha le gambe che sembrano gelatina.

Lui era spaventato, tanto, tanto spaventato.

Ma...

– Perché l'hai fatto? Perché sei uscito se ti avevo detto di rimanere di là? –

Non ha la forza di girarsi verso di me, ma lo tiro su infilando un braccio sul retro delle sue ginocchia, me lo porto vicino al viso, vicino al cuore.

– Perché da solo non sai fare niente, scemo di un Tobio. –

Sorrido, lo guardo come a dirgli "oh, certo, immagino".

Scuote la testa.

Mi accarezza una guancia.

– Io so chi hai tradito per me, Tobio. Tu pensi di avermi fatto solo un torto dietro l'altro ma in realtà non è affatto così, tu mi hai protetto da loro per mesi. –

Apro la bocca per controbattere ma inizia a parlare prima che possa farlo io.

– Volevo proteggerti come hai fatto con me. Darti una mano. Non voglio che tu debba fare tutto da solo, se stiamo... insieme, allora facciamo le cose insieme. –

Sbatto le palpebre.

– Io non sono mai stato così felice in tutta la mia vita, Shō. –

Mi guarda.

– Neanch'io. –

Ci baciamo.

Non lo lascio andare, lo tengo in braccio, quando lo riporto in camera.

– Mi sa che dobbiamo ordinare un'altra pizza. –

– In effetti ho fame, sì. Mi va sul serio la pizza formaggiosa. –

Alzo le spalle.

– Sai una cosa? Va anche a me. –

Ridiamo insieme, torniamo sul letto.

Il mondo cade, là fuori.

Il mondo cade e non smetterà di cadere.

Ci è caduto addosso tante volte, nel corso della vita, Hinata Shōyō. Ci ha portato via la famiglia, la motivazione, la gioia, l'energia di aprire anche solo gli occhi un altro giorno.

Noi non eravamo niente.

E siamo poi qualcosa, ora?

Non saprei dirtelo con certezza.

Forse continuiamo ad essere niente, Shō.

Forse continuiamo ad essere un corvo che mangia i morti e un ragazzino invisibile di cui nessuno ricorda il nome, forse lo saremo per sempre, forse non cambieremo mai.

Forse soffriremo ancora, anzi, non metto in dubbio che sarà così.

Ma, e parlo per me, anche se credo per te valga la stessa cosa, per una volta essere quel che sono sempre stato non mi pesa. Per una volta non voglio scappare, non voglio nascondermi, non voglio chiudere gli occhi e sperare nel nulla, nel torpore, nella fuga.

Per una volta tutto questo... mi piace.

"Tobio, io non voglio morire."

Neanch'io, Shōyō.

Neanch'io.

Non più.

Non voglio morire.

Voglio vivere.

Perché per una volta, io, posso farlo con te.

Il mondo cade, là fuori.

Che cada.

Non m'interessa più che cosa fa.

Non m'interessa più niente.

Sei l'unica cosa che conta.

Sono passati cinque mesi, quando osservo il cielo serale di Tokyo arrossarsi verso il tramonto dalla finestra del mio ufficio, in piedi di fronte alla finestra.

Cinque mesi.

Cinque... mesi.

Tengo la sigaretta fra le dita, prendo un tiro dopo l'altro quasi di fretta, osservo il Sole che muore all'orizzonte, rimango fermo nella densa nuvoletta di fumo che mi avvolge.

Cicco sul posacenere che tengo sulla scrivania, indietreggio, mi appoggio mezzo seduto sul bordo di legno, mi stiro il collo, ascolto i miei muscoli che si stirano e mi fanno male.

Sono stanco.

Sono stanchissimo.

Loro...

Daichi e Sugawara se la sono presa più del previsto, eh? Certo, forse ho fatto un po' di casino e forse potrei essermi meritato questo trattamento, ma cazzo.

Sono sfinito.

Lavoro come un mulo da cinque mesi.

Devo ancora farmi perdonare?

No, perché arrivo a casa talmente devastato che a malapena gli dico "ciao", a Shōyō, a questo punto hanno decisamente avuto successo nel separarci.

Ridacchio fra me e me.

No, non è vero.

Non hanno avuto successo.

Ho scoperto di avere molta più stamina del previsto.

Scopare dopo aver passato la notte dietro a gente che ci ha fatto dei torti non è facile, ma a quanto pare ci riesco. Forse sono davvero il più fico del mondo, cazzo, forse lo sono davvero.

Uno stormo di uccelli mi passa di fronte, gracchiano dalla mia parte.

Sono corvi.

Uno si separa dal gruppo, vola verso di me, verso la finestra, appoggia le zampe sulla ringhiera che ho di fronte al viso, sembra che mi guardi, che si rivolga direttamente a me.

Siamo uguali, io e te, eh?

Quale morte hai portato, oggi?

Quale cadavere hai divorato?

Quanto felice sarai quando tornerai col tuo stormo e la tua compagna ti accoglierà come se non te ne fossi mai andato?

Essere un corvo non è una scelta.

È una maledizione, ho pensato tanto tempo.

Ma credo ora, mentre fumo e ne guardo uno vero di fronte a me, che forse mi sarebbe potuta andare peggio.

Alla fine chi è che sopravvive?

Solo noi.

Vivere non è mai stato così piacevole.

Spengo il mozzicone sul posacenere, faccio subito per prenderne un'altra dal pacchetto.

Sono stressato, sfinito, tornerò a casa fra tre ore e credo questo sia l'unico piacere che posso concedermi, al momento.

Non ho presentato Shōyō a nessuno.

Solo ai nostri.

A Nishinoya che ci è subito andato d'accordo, a Tanaka, Asahi, gli altri.

Yamaguchi e Yachi erano scioccati, quando l'hanno visto.

Non credo Shō ce l'abbia con loro.

Io, ce l'ho un po' con loro.

Lo so che cosa vuol dire dimenticare per andare avanti, lo so quanto complesso sia ricordare e vivere assieme, lo so che certe volte uno ha solo bisogno di scappare.

Ma nulla di quel che abbiamo passato sarebbe successo se qualcuno si fosse ricordato di lui.

L'avrebbero salvato.

Sono felice di averlo fatto io, ma non sono così egoista da pensare che se non avesse smesso prima di fare quel che faceva sarebbe andato meglio.

Scuoto la testa per scacciare il pensiero.

È andata, Tobio.

È andata.

Non hai niente di cui lamentarti, no?

Niente.

Lascio scattare la pietrina dell'accendino di fronte al mio viso, prendo il primo tiro, socchiudo gli occhi nella sensazione della gola che brucia.

Devo presentarlo, vero?

Lo devo fare.

Devo urlare alla società che Tobio non è più un solitario antipatico che uccide e non parla con nessuno. Devo dirle che c'è qualcun altro, ora, dentro quello che loro chiamano "Tobio".

Però...

Non è che tema che lo prendano di mira.

Se qualcuno mi sta alle calcagna già lo sa, che non sono più da solo.

È che sono un po' geloso.

È il mio, che bisogno c'è che lo conoscano anche gli altri? Brilla per me, perché altre persone dovrebbero immergersi nella luce che emana?

Lo so che è infantile.

È vero.

Però 'fanculo, è mio, me l'ha detto lui.

Suga si è innamorato di Shōyō. Non nel senso romantico, credo Daichi ci avrebbe fatto secchi tutti e tre, ma in senso affettivo. Davvero, non me l'aspettavo, ma è... successo e basta?

Io ho passato tanti anni attaccato a Daichi per imparare ad essere come lui.

Credevo semplicemente che avrebbero sostituito il successore, dopo tutto quello che è successo, ma a quanto pare non è stato così.

Credo invece che, calmate un po' le acque ed esaminati i fatti con calma, si siano resi conto che ora mi rispettano di più.

Dopotutto servono i nervi saldi e la faccia tosta di disobbedire, per diventare un capo, no? Serve sapere per cosa combatti, serve essere motivato.

Prima non ero affatto motivato.

Ora vado avanti e non solo lo faccio bene, lo faccio anche con sorriso sul volto.

Suga sta addestrando Hinata per essere... beh, per essere la Regina della scacchiera. Non credo che Shō avrà mai quella verve così elegante e calcolatrice, ma Suga crede in lui, se n'è proprio innamorato, l'ho detto.

So che Daichi si ritirerà fra cinque anni, ai trenta compiuti.

Rimarrà al Karasuno, ma credo di aver capito che lui e Suga vogliono figli, e non credo sia facile gestire una famiglia vera e una di mafiosi assieme. È rischioso, anzi.

Mi fa strano, pensare che fra cinque anni saremo io e Shō ad occupare quella scrivania sull'attico.

È strano.

Non vedo l'ora, però.

Non mi sono mai visto Re, mi sono sempre visto più sulle retrovie, sul fondale a gestire quel che scappava agli altri.

Ora è diverso.

Ora...

Non so, credo che sentirmi più completo mi abbia cambiato completamente.

La voglio gestire, la famiglia?

Certo.

Certo che voglio farlo, certo che posso farlo, certo che lo farò.

Perché non sarò da solo.

E quando saremo in cima, quando tutto sarà nostro, allora sì che nel mondo esisteremo solo noi.

Rilasso le spalle, stiro le gambe, sospiro.

Odio i completi eleganti, cazzo.

Soprattutto dover portare la camicia chiusa fino all'ultimo bottone. Prude, questa merda, mi sembra di sudare come se stessi lavorando in un campo.

Certo non posso aprirla, che Shō ha il vizio di tirare fuori i denti ultimamente e sembra che io abbia fatto un corpo a corpo con una tigre, però che cazzo, esistono camicie che non prudono?

Porto le dita al bottone che mi illudo di poter aprire, socchiudo gli occhi.

La scrivania trema.

Appena appena.

Mi tiro su dal mio torpore, giro la faccia, vedo lo schermo del telefono illuminarsi e mi sporgo per prenderlo.

Mi stanno chiamando.

Chi?

Non ho salvato il numero.

A dirla tutta non ne salvo quasi nessuno, ma è irrilevante.

Rispondo.

– Pronto? –

La voce che arriva è preoccupata, in ansia.

– Signore, io non volevo perderlo, lo giuro, non è colpa mia! È lui che è scappato fuori e... –

Alzo gli occhi al cielo.

– Di cosa stai parlando? –

– Glielo giuro, è proprio saltato via e non sono riuscito a fermarlo, io... –

– Non ho la minima idea di cosa cazzo tu stia dicendo. –

Sento l'interlocutore respirare a pieni polmoni.

Gli trema la voce, è incerto, sembra terrorizzato.

– Sugawara mi ha detto di accompagnare Hinata a casa, ma ci siamo imbottigliati nel traffico e non mi sono accorto che era scappato. Non so dove sia, è... –

– Dov'eravate? –

– Siamo di fronte al giardino di Wadakura. –

Mi costringo a tirare giù gli angoli della bocca.

– E l'avete perso? –

– È lui che è scappato, lo giuro, io... –

– Quanto tempo fa è successo? –

– Io... credo una decina di minuti, forse meno, forse... –

Tiro su il polso, guardo le lancette dell'orologio.

C'è una scala antincendio che porta sul tetto di un palazzo là vicino, mi ricordo, Shō me l'ha fatta notare quando siamo andati a pranzare al parco.

Gli mancano...

– Mi dispiace, Signore, io ho una moglie e dei figli, la prego non mi... –

Dovrebbe essere qui.

A momenti, a...

Atterra come se stesse effettivamente volando.

Atterra sul balcone con un sorriso grande quanto la città intera, le guance appena arrossate dalla fatica, gli occhi che brillano.

Agita la mano verso di me.

Sento lo stress, la fatica scivolarmi via dalla schiena.

– Non è un problema. Vai a casa. – rispondo al telefono.

Batte sul vetro della portafinestra, aggrotta le sopracciglia quando prova ad aprire ed è chiusa.

– Signore, io... –

– Non è un problema, davvero. Vai a casa. –

Chiudo la telefonata prima di sentire la sequela di "grazie" e "scusi", appoggio il telefono sulla scrivania, mi tiro su, cammino verso il vetro che ci separa.

Lui vola davvero.

Lo giuro, lui vola.

L'ho visto.

Gli ho chiesto, poco dopo che si era rimesso in sesto dalle ferite di cinque mesi fa, di farmi vedere.

Vola.

Shō vola.

Non è la prima volta che si arrampica e atterra sul tetto dell'ufficio. A me sembra da pazzi, ma dice che ci sono abbastanza balconi di piano in piano perché riesca ad arrivare al mio senza nessun tipo di problema, per quanto mi spaventi la prospettiva di vederlo spiaccicato a terra, mi fido.

Apro la portafinestra, lo faccio entrare.

– Perché hai chiuso? Mi volevi lasciare fuori? Hai un amante e non volevi che venissi da te? –

Scoppio a ridere, apro le braccia, lo avvolgo e lo stringo a me.

– Scemo. –

– È un problema serio, Tobio, guarda che... –

Rido di più.

– Sei uno scemo, Shō, sei proprio uno scemo. –

Mima resistenza, all'inizio, ma poi si scioglie, si lascia andare, ed eccolo che diventa di burro addosso a me.

– Sei tu scemo. –

– Tu. –

– Ho detto che sei tu che sei uno sce... –

Mi stacco e lo bacio prima che finisca una frase che ho sentito così tante volte da ricordarmi a memoria anche solo l'inflessione di ogni singola lettera della dalla sua voce.

Si lascia andare.

Quando lo bacio si lascia andare, mi circonda il collo con le braccia e si mette sulle punte dei piedi.

Mi piego anch'io, per raggiungerlo.

Quando ci stacchiamo rimango con la fronte sulla sua.

– Mi sei mancato tutto il giorno, oggi. Come facevi a sapere che volevo vederti? –

– Non lo sapevo, volevo vederti anch'io. –

Mi ritrovo a sorridere.

– L'autista mi ha chiamato dicendomi che ti aveva perso. Che hai fatto? –

– Sono saltato fuori dall'auto. –

– In corsa? –

Stringe gli occhi.

– Sono James Bond. –

Ridacchio.

– Sei James Scemo. –

Mi bacia invece di rispondere, mi bacia, sorride nel bacio.

Indietreggio sulla scrivania, lo tiro su, lo appoggio sulla superficie di legno. È faticoso baciarlo, per il mio collo, è tanto dolce e tanto divertente, ma Shō non è proprio una torre.

Apre le gambe e stringe le ginocchia attorno alla mia vita.

Rimane comunque più basso di me, ma non devo tirarmi giù per appoggiare la punta del naso sulla sua, solo inclinare la testa.

– Che hai fatto oggi? –

Sospira come se fosse esausto.

– Suga mi ha portato a tutti i suoi incontri. Mi dice che devo comportarmi come se tutti volessero scoparmi perché più hai fascino più le persone ti danno retta, ma cazzo, io non sono mica come lui. Mi sento un tredicenne che ha appena capito che non lavarsi non aiuta a rimorchiare, in confronto. –

Storco il naso.

– Io preferirei che nessuno volesse scoparti, posso dire? –

– No, non puoi dire. –

Chino gli occhi.

– Uffa. –

– Puoi dirlo forte. –

Mi guarda di sbieco.

– Non sono molto bravo ad essere sexy. –

Cerco le sue labbra con le mie.

– Secondo me sei molto sexy. –

– Dici? –

Annuisco appena, mi sorride.

– Lo dici solo perché mi hai visto nudo. –

– Lo dico proprio perché ti ho visto nudo. –

Ridacchia, lo faccio con lui.

– Tu che hai fatto? –

– Niente di che. Sono passato al Seijoh a ritirare dei documenti, Oikawa mi ha tenuto mezz'ora perché non sapeva se mandare a Suga i fiori bianchi o azzurri per il loro anniversario. Che poi non so nemmeno di che anniversario parlasse, ma... –

– Anniversario della loro amicizia. Lo fanno da anni, fa scassare vederli. Sembra una puntata di Gossip Girl. –

– Ah. –

– Già. –

Mi appoggia le mani a fianco del viso.

Spazza via i capelli scuri dalla fronte.

– Sono passato al Nekoma, ci hanno invitato al matrimonio del loro capo. – mi ricordo, poi.

– Si sposano? –

– Pare. –

Approda al lato di un occhio, muove le dita con delicatezza, affettuosamente.

Sono ancora blu, i miei occhi.

Anche se ho pianto tanto, sono ancora blu.

– Io non ho tanta voglia di presentarti agli altri, però, lo sai che... –

– Non fare il musone, Tobio. Mi sembra una buona occasione, invece. Ai matrimoni sono tutti felici, sarà meno difficile. –

Faccio il broncio.

– Dobbiamo proprio? –

Annuisce.

– Dobbiamo proprio. –

Sbuffo, incollo lo sguardo sul retro della scrivania.

Io non voglio che...

Aggiunge la mano libera a quella che mi teneva il viso, apre per bene le dita sulle mie guance, guida i miei occhi di fronte ai suoi.

Sorride.

Mi sorride.

Non voglio condividere questo, non vo...

– Non c'è nient'altro oltre te, Tobio, oltre noi. –

Mi bacia piano.

– Non devi avere paura di niente. –

C'è abbastanza Sole per tutti, tu dici?

No, non è questo.

È diverso.

– Nessuno potrà mai portarmi via da te. –

Annuisco.

Ci sarà anche il Sole per gli altri.

Ma così brilla solo per me.

Che lo guardino.

Non sapranno mai quanta altra luce possa emanare, perché quella luce appartiene a me, quella la consegna solo a me.

– Esistiamo solo noi. –

Lo bacio un'altra volta.

– Sì, Shōyō, hai ragione. –

Poso la fronte contro la sua.

Ti amo, Hinata Shōyō.

Ti amo così tanto.

– Esistiamo solo noi. –

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