𝘁𝗵𝗲𝘆 𝗿𝗲𝗮𝗰𝗵𝗶𝗻' 𝗼𝘂𝘁 𝗳𝗼𝗿 𝘄𝗵𝗮𝘁'𝘀 𝗺𝗶𝗻𝗲

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Ticchettano come gocce di pioggia sul finestrino, i colpetti che Sugawara dà sul vetro rigido a fianco del mio viso.

Toc, toc, toc.

Esito, prima di premere il tasto per abbassarlo.

Esito un istante.

Ho da fare.

Ho da fare, Suwagara, ho da fare. Di meglio che parlare con te, di meglio che essere qui, di meglio di qualsiasi altra cosa mi sia mai capitata nella vita.

Non posso stare con te.

Non posso rimanere davvero.

Il finestrino scende un istante alla volta in un intervallo di tempo che sembra infinito.

Tutto il tempo sembra infinito, ormai.

Non c'avevo mai ragionato tanto su come fosse relativo, il tempo che mi scorre addosso. Avevo sempre vissuto come se ogni evento fosse uguale, non mi ero mai accorto di quanto invece potesse variare attorno a me.

Tutto il tempo è infinito, questi giorni.

Scorre troppo lentamente.

Non va, non scala, non passa, non cede, arranca e si aggrappa a me come se fosse melassa, mi rallenta e mi rincoglionisce, mi distrugge.

Quelle sei ore notturne volano, invece. Come se fossero una manciata di minuti, come se anche solo sbattere le palpebre potesse sprecarlo.

Per quello, ho fretta.

Perché ho quindici minuti per arrivare fino al casolare, ed un solo secondo in più, sarebbe uno spreco che non saprei perdonarmi.

Sospiro.

Sugawara sorride.

– Mi serve un passaggio, Kageyama, dove devi andare? –

Gli serve...

Cerco di tenere a bada la lingua.

Istintivamente avrei sputato uno "sticazzi, non è affar mio", o un "non sprecare il tempo che non ho, che io e Shōyō non abbiamo", ma devo trattenermi.

Se sapesse, anche quel ridicolo ammontare di tempo che mi rimane svanirebbe, è necessario che mantenga il segreto e sembri tutto come al solito.

– A casa. –

– Perfetto, anche io devo venire da quella parte. Mi porti? –

No.

Vattene.

Tornatene dalla tua felicità perfetta e facile, chiama un autista, fatti accompagnare da Daichi, rimani su o fai quel che cazzo ti pare.

Io non voglio, non voglio, non...

– Certo, sali. –

– Grazie mille. –

Circonda la macchina con pochi passi, sblocco la portiera perché possa entrare, il profumo costoso di Daichi pungola le mie narici quando si siede sul sedile a fianco del mio e si mette la cintura con calma.

Lo fanno da sempre.

Portano lo stesso profumo da che li conosco.

Non so se sia una cosa romantica o un effetto del rimanere sempre appiccicati, seduti uno in braccio all'altro, ma è caratteristico di loro, li fa sembrare spesso e volentieri una cosa sola.

Dovrei iniziare a lavarmi anche io i capelli con lo shampoo all'arancia?

Così saprei di Hinata.

Sarebbe...

– Devo andare al Seijoh. Non ho fretta, ma... –

Scuoto il torpore via dalla mia testa, tolgo il freno a mano e premo il piede sulla tavoletta veloce abbastanza perché riesca a muovermi ma non tanto da sbalzarci in avanti.

– Scusa, mi ero distratto. –

– Sì, me n'ero accorto. –

Incrocia le gambe una sopra l'altra, si tira indietro i capelli chiarissimi con una mano, si adagiano a lato del viso dolcemente.

Ho avuto una cotta per Suga.

È stato tanto tempo fa, tre o quattro anni, credo.

Ha sempre avuto questo modo di fare estremamente materno, con noi, che credo la maggior parte delle reclute che erano con me, poco prima o poco dopo, se ne siano infatuati. Era dolce, delicato, ti parlava della sua vita e ascoltava la tua, si connetteva alla tua intimità e sembrava davvero comprenderti.

Mi sentivo con la testa un po' più leggera, quando veniva a trovarci.

Tutti ne parlavano sempre, dalla prima volta che si era presentato a noi, e all'inizio non capivo che cosa ci trovassero.

Poi, credo perché mi trovasse promettente o cos'altro, aveva iniziato a prendermi da parte, offrirmi il tè, chiacchierare con me di se stesso e chiedendomi a sua volta chi io fossi, aveva iniziato a conoscermi e io a conoscere lui.

Là sì, che ho capito che cosa ci trovassero.

Là ho iniziato a vedere la sua bellezza.

Ma Sugawara Kōshi è territorio off-limits da prima che anche solo riuscisse a parlare, credo.

Non che m'importi più in ogni caso.

Quella cotta niente ha a che vedere con quello che provo adesso per... un'altra persona.

– Ultimamente sei parecchio distratto, ora che ci penso. Sembri in un altro mondo, sei sempre con la testa da un'altra parte. –

– Dormo poco. –

– Sicuro? –

Suga è riuscito a farmi infatuare di lui, a infilarsi fra i lembi della mia demisessualità, con la sensibilità di capire e di osservare.

Allo stesso modo ora, credo che sia meno facile di quanto io abbia creduto, fingere che non sia cambiato nulla.

– Sì. –

– Mmh, se lo dici tu. –

Porta sempre i guanti. Daichi no, Daichi sfoggia come trofei le nocche piene di cicatrici e le ferite quotidiane che gli adornano le mani, ma Suga non le scopre quasi mai.

Credo di non averlo mai visto senza.

All'inizio credevo che fosse schizzinoso, poi Tanaka mi ha detto una volta che ha due brutti segni che non gli piace mostrare sui palmi.

– Mi hanno detto che passi a Omotesando spesso, ultimamente. Immagino che quelli tu li abbia presi là, no? –

Rivolge la testa verso i sedili posteriori, dove so esserci un'altra bustina di plastica piena di cibo. Gli vanno i takoyaki, a Shōyō, glieli vado a prendere spesso perché li fanno buoni e sorride tanto quando li mangia.

– Mi fai seguire, Suga? –

– Hai qualcosa da nascondere? –

Stringo appena le dita attorno al volante.

– Pensi che abbia qualcosa da nascondere? –

Fa spallucce.

Si veste sempre con colori chiari. Fa effetto, quando lo vedi accanto a Daichi, perché l'altro è sempre vestito di nero. Hanno quest'aura di potere addosso che descriverei, ancora adesso, sicuramente terrificante.

Sposta la giacca grigia sul busto, la sistema e stira le pieghe con le dita. Sono sottili e bianchi, i suoi guanti, di pelle. Ci mette sopra un paio di bracciali identici, tutti diamanti e platino e altre cose da ricchi, che credo gli abbia regalato suo marito qualche anno fa.

Forse è per sopperire al fatto che non si vede la fede.

Forse solo per viziarlo.

– Penso che tu sia strano, Tobio. –

– Addirittura per nome? –

Ride appena.

– Non posso chiamarti per nome? –

Stringo la mascella e faccio finta di nulla, non rispondo.

No, non puoi chiamarmi per nome. Vorrei che non lo facessi, vorrei davvero che non lo facessi.

Non ne hai alcun diritto.

Non ce l'hai.

– Dove l'hai incontrata? –

– Chi? –

– La ragazza con cui stai. O il ragazzo, sai che non cambia niente. –

Calma, calma.

Sta' calmo, Tobio.

Il fatto che tu abbia una relazione non compromette il tuo piano, non lo fa. Potrebbe essere chiunque, l'importante è che non sappia la sua identità, se indovina che c'è non ci sarà alcun problema.

– Come hai fatto a capirlo? –

– Riconosco uno sguardo omicida quando ne vedo uno, e a giudicare da quanto male mi hai guardato quando ti ho chiesto di accompagnarti o mi detesti, o stavi andando da qualcuno che t'importa molto più di me. –

Mi guarda da sotto le ciglia chiare.

"Il corvo bianco".

Il più raro, il più bello, il più anomalo. Sembra una colomba, da lontano, sembra pacifico e innocuo, sembra un mite portatore di pace.

Non ti avvicinare.

Se ti avvicini capirai chi è.

Divorerà il tuo corpo prima che tu possa nemmeno tentare di scappare.

– E poi c'è un flacone mezzo finito di lubrificante nella portiera. –

Sento le mie guance scaldarsi ed evito il suo guardo, lo pianto dritto sulla strada e continuo a guidare in silenzio.

Non è imbarazzante, ok?

Ho vent'anni.

Suga non è veramente mia madre.

Non c'è nessun discorsetto da fare.

Ride alla mia reazione, il rumore pacato ed elegante che risuona nell'abitacolo, poi incastra le mani una sull'altra e le porta sopra le sue cosce.

– Ti sei innamorato, Tobio? –

Se mi sono innamorato?

È un mese che me lo chiedo.

Un mese che m'infilo di notte, da solo, in quel casolare sperduto e mi chiedo se la sensazione che provo sia il principio di un attacco di cuore o innamoramento.

– Sì. –

– Adorabile. –

Svolto sulla sinistra.

Sono vicino al Seijoh, non manca molto, se Dio vuole ho il tempo di smollare Suga di fronte e scappare dalla persona che ho appena detto di amare.

Ma...

– Anche tu ami Daichi, no? –

Reagisce alla mia curiosità con un'occhiata un po' confusa.

– Certo, certo che lo amo. –

– Nel tempo lo ami di meno? È una cosa che poi... va via? –

Si sporge dalla mia parte, avvolge una mano attorno al mio braccio, stringe piano.

– Hai paura che il tuo amore svanisca, Tobio? –

– Credo... credo di sì. –

Sorride.

– Se è amore vero, non svanirà. Io amo Daichi ogni giorno da... più di sedici anni. Lo amo quando mi ama e lo amo quando litiga con me. Lo amerei anche se morisse, anche se non ci fosse più. –

"Lo amerei anche se morisse."

– Lo dici come se dovesse morire da un giorno all'altro. –

– Con questa vita è possibile, sai. –

Ci sono così tante cose, che vorrei potergli rispondere.

Perché continuare a farla, allora? Perché condannarvi a vicenda, se potete cambiare? Perché non ricominciare daccapo, perché non scegliere qualcos'altro, perché non salvarvi, voi che potete?

Io vorrei così tanto poter mutare quello che sono, ora.

Voi che ne avete la possibilità, perché non pensate davvero di farlo?

– Se morisse che cosa faresti? –

Non so quanto la mia domanda mi tradisca. Non ne ho idea, al momento non me ne curo, perché la risposta la voglio sentire, la voglio sentire davvero.

Sugawara sospira, mi accarezza il braccio, poi stacca la mano e la stringe con l'altra. Ha lo sguardo d'acciaio, quando risponde, sembra la pallottola di uno sparo, penetrante, serio.

– Troverei chi l'ha ammazzato e ucciderei chi ama di fronte a lui. Lo costringerei a vivere quello che ho vissuto io. Poi mi sparerei in testa, penso. Non credo di voler stare in un mondo in cui Daichi non c'è. –

Io ci voglio stare in un mondo dove Shōyō non c'è?

Me lo chiedo ora, mi pongo ora questa domanda in questi termini.

Ho pensato di non volerlo uccidere, di non poterlo in nessun modo ferire e di amarlo, è vero.

Ma ho sempre dato per scontato di non poter avere quello che voglio, ho sempre pensato che fosse un tempo finito, il nostro, che qualcosa sarebbe dovuto succedere per forza.

Non ho mai pensato a che cosa avrei fatto, se poi un giorno lui non ci fosse stato più.

Mi ritrovo nelle parole di Sugawara, mentre ci penso.

Ha ragione.

Io non credo di voler vivere in un mondo dove Shōyō non c'è.

– Fermati qui, c'è l'entrata laterale. Hai fretta, vero? –

Non rispondo verbalmente ma annuisco.

– Mi farò riaccompagnare a casa da Iwaizumi. Divertiti. –

Apre la portiera, sfila le gambe una dopo l'altra di lato, fa per alzarsi. Si gira all'ultimo, mi guarda di sbieco, non sorride, è decisamente più serio.

– Tobio, ascoltami. Credo di aver intuito quello che sta succedendo e spero di sbagliarmi, ma se ho ragione hai un bel problema. Un problema che devi risolvere. Prima che Daichi venga a saperlo. Non reagisce affatto bene quando ci sono io di mezzo. Fa' il bravo, non fare cazzate, stai attento. –

Scende prima che possa ribattere, chiude la portiera e scompare nella porticina del muro di fronte, un passo alla volta, nel silenzio più totale.

Lui sa che...

Riparto prima che anche solo la porta si chiuda.

Lui lo sa.

Certo che lo sa.

Sugawara le sa, queste cose, le sa tutte, le ha sempre sapute. Legge nelle persone, capisce prima che lo facciano gli altri, ha l'istinto di una madre, invece che quello di un padre, e naviga fra le righe anche senza prove, anche senza dubbi.

Lo sa.

Se fossimo una scacchiera, se questa enorme famiglia fosse una scacchiera, lui sarebbe decisamente la Regina. Può morire, il gioco non si ferma se muore, ma finché c'è è lei che tira i fili, lei che si muove dove nessun altro può, lei che conduce.

Daichi è la testa da tagliare.

Sugawara è sempre stato la variabile che non riesci a comprendere e che spesso e volentieri, ti fotte prima che te ne renda conto.

Si guida con due mani ma una io non l'appoggio sul volante. La porto alla bocca.

Quando ero piccolo mia sorella mi diceva di non mangiarmi le unghie.

Mi teneva seduto per ore chiedendomi le cazzate peggiori mentre mi passava la lima attorno alle dita come se fosse un'estetista vera, qualche volta per scherzo mi metteva lo smalto, faceva la manicure all'unica bambola che mai le avessero regalato, me.

Sono stato attento a non rifarlo, da quando è morta.

Ma ultimamente ho ripreso il vizio.

Se lo sa Sugawara, lo sa anche Daichi, vero?

Lo sa.

Lo sanno.

Forse...

Forse me l'ha detto per darmi un po' di tempo o forse per avvertirmi o...

Brucio un rosso, la macchina che mi passa accanto suona, per un pelo non facevo un incidente stradale. Merda, non posso distrarmi così, devo ricordarmi di dove sono, di dove sto andando e del motivo per cui sto facendo tutto questo.

"Non fare cazzate"?

Tu le chiami "cazzate", queste, Sugawara?

Ti sembrano "cazzate"?

Sono l'unico modo in cui posso sopravvivere.

Sono tutto quello che ho.

Tutto quello che mi rimane.

Svolto a destra, a sinistra, a destra di nuovo.

Potrei andare dritto, ci metterei meno, ma ho imparato solo questa strada, per venire in questo posto. Il rischio di rovinare tutto, di distruggere tutto facendomi cogliere in flagrante mi ha imposto di far perdere le mie tracce, di confondere chiunque mi stesse eventualmente seguendo in questo modo.

Il problema è che non è servito a nulla.

È stato tutto inutile, non è vero?

Tutto completamente inutile.

Sono una carta facile da giocare, un libro facile da leggere, una pagina già scritta, una storia già raccontata.

Vorrei sapere come va a finire, a chi di me dice di sapere tutto.

Come va a finire, eh?

Chi muore, in questa catartica tragedia di innamorati da due lati di una battaglia?

Se dovessi scegliere preferirei che fossi io.

Ma l'essenza stessa del nostro dramma, è che è proprio quello, il tassello che ci manca.

La possibilità di scegliere.

Il beneficio di capire che cosa debba essere di noi.

La voce in capitolo.

Ricaccio indietro le lacrime che non posso permettermi di versare mentre svolto un'ultima volta, supero ad una velocità sicuramente non idonea i due isolati che mi mancano e freno di colpo, fregandomene completamente del fatto che così facendo potrei farmi male sul serio.

Rimango fermo un istante.

Che faccio?

Che ti dico?

Entro e ti racconto tutto, o entro e mi lascio avvolgere dal tuo profumo, dal tuo corpo, dalla tua voce?

Te lo dico che siamo destinati a finire?

Come se non lo sapessi già, poi. Se possibile, tu, sei ancor meno abituato di me alla felicità. Credo tu abbia messo in conto con quel primo sorriso smagliante che tutto sarebbe andato a finire male.

Spero solo che ne sia valsa la pena per te, Shōyō.

Che per te sia stato importante quanto lo è stato per me.

Che...

Prendo la bustina dal retro, apro la portiera, scendo e cammino di fretta. Non m'interessa di fare rumore, non più.

Non so come andrà a finire.

So però che anche adesso mi manchi così tanto che le diciotto ore che abbiamo passato separati sembrano essere durate una vita intera.

Sfilo la catena, la lascio cadere a terra, apro la porta e me la richiudo alle spalle, scompaio nella luce giallastra e nella sensazione di essere così felice, così felice come non lo sono stato mai.

È così piccolo.

Così minuto, così esile, così fragile.

Aspetta con le gambe incrociate sul materasso, la coperta radunata sulle cosce e l'espressione vuota, gli occhi fissi sulla porta da cui saprà che arriverò.

Mi distruggi il cuore ogni volta che ti vedo.

Credo tu lo rimetta a posto, poi, ma tenendotene sempre un frammento perché sia tuo e tuo soltanto, ricomponendo il disegno un po' vuoto ogni istante di più, perché sono convinto a ragion veduta sia più quel che ti lascio, che quello che rimane a battere nel mio petto.

Sorride.

Mi guarda e sorride.

Il mio mondo si ferma.

Qui, io voglio rimanere qui.

Voglio stare qui per sempre, in questo istante, in questo momento.

Qui fermo, a guardare il suo viso che sorride a me, solo a me, solo per me.

Io non so che cosa Sugawara intendesse.

Ma se pensa che questa "cazzata" io possa risolverla in un modo che mi permetterà di sopravvivere, si sbaglia di grosso.

– Tobio, dov'eri? Mi sei mancato così tanto! –

Si alza, fa per alzarsi, ma mi avvicino prima che possa farlo.

Corro, credo di farlo, arrivo in un attimo al fondo del suo letto, cado in ginocchio sulla superficie morbida, mi getto contro di lui.

Respiro.

Respiro solo così.

Respiro solo quando mi stringe le braccia attorno al collo, solo quando il mio naso gli atterra fra i capelli, solo quando l'odore dell'aria è il suo.

Il mondo cade qua fuori, Shōyō.

Ma per me potrebbe anche bruciare, nulla conterebbe più, se potessi rimanere qui con te fino alla fine dei tempi.

– Tobio, va tutto be... –

Lo schiaccio se lo stringo così forte?

Vorrei che tu mi abbracciassi così forte da schiacciarmi, Shōyō. Vorrei che potessimo farcelo a vicenda, vorrei che morissimo così, attaccati, persi in noi stessi, nel mescolarsi timido e pallido nei nostri corpi.

Io non posso farlo.

Tu, tu ce la faresti?

– Tobio. –

Mi stacco col fiatone.

Ho ancora la bustina in una mano, la chiave della catena nell'altra.

Le lascio a terra con le braccia scosse da un tremore che non riesco a controllare, non riesco a compiere il rito che abbiamo formato in questi giorni così belli, non riesco a tirare fuori i takoyaki dalla loro scatolina e a porgerteli perché tu possa mangiare per una volta nella tua giornata qualcosa che effettivamente ti piace.

Non mi sfilo la felpa, non ti sorrido e ti accarezzo il viso guardando tutto quello che credo al mondo sia importante per me.

No.

Io...

Mi sporgo contro Shōyō, lo copro col mio corpo e aspetto che ricada indietro contro il materasso, sotto di me.

Pianto lo sguardo sul suo.

– Io ti amo, Shōyō. Lo capisci? Lo riesci a capire? Io ti amo, ti amo, non ho mai amato nessuno quanto amo te, non amerò mai nessuno quanto amo te. Io ti amo, Shōyō, io... io ti amo. –

Spalanca gli occhi castani e sembrano enormi, ancora più enormi, ora.

Perché te lo sto dicendo?

Non è una di quelle cose che devi macinare e ragionare prima di dire?

Non prima di essere stati insieme due mesi, cazzo, non prima del decimo appuntamento, non prima di essersi presentati al proprio gruppo di amici, non prima...

Io e te non abbiamo niente, Shōyō.

Che cos'abbiamo?

Appuntamenti?

Davvero?

Io e te passiamo i nostri appuntamenti a scopare in un casolare dove io ti ho rinchiuso, passiamo il tempo a nasconderci dagli altri, passiamo il tempo a far finta che questa sia vita, che quella a cui ti ho costretto io, sia vita.

Ma che cazzo di senso ha?

– Io ti amo, Shōyō. Non so come tu potresti farlo con me dopo quello che ti ho fatto, comprendo che tu non possa ricambiare e mi va bene così. Nessuno mi capisce come fai tu, mi sembra davvero che tu mi veda oltre tutto quello che dicono di me. –

Gli si inumidiscono gli occhi.

Ha le spalle contratte, il viso addolorato.

Non sta male perché gli ho detto "ti amo", non è vero?

È triste perché questo gli sembra un addio.

È triste perché questo, probabilmente, lo è.

– Vorrei che ci fosse un posto là fuori dove esistiamo solo noi. Vorrei poter uscire da qui e uccidere tutte le persone che non siano te, vorrei che non ci fosse nessun altro. Io vorrei... –

Cadono, le lacrime che gli rimanevano aggrappate negli occhi.

Piangere rende il suo viso più bello.

So che dovrei dire che vederlo piangere mi distrugge e mi devasta, ed è vero che lo fa, ma è innegabile che quando piange, il suo viso sia più bello.

Gli occhi sembrano più grandi, le labbra si gonfiano appena, la sua pelle si scalda in corrispondenza delle guance e del naso, si arrossa.

Sorride sempre, quando piange, Hinata Shōyō.

Lo fa perché gli viene naturale, immagino.

È la cosa più bella che abbia mai visto.

– Anche io ti amo, Tobio. –

Mi chino e mescolo le labbra con le sue ma mi stacca da sé.

– Sei la prima persona che mi abbia... visto. –

Tira su con il naso.

Non so se io sto piangendo, non ne ho idea, non mi sento più nulla, ormai.

– Sei l'unico motivo per cui m'importa qualcosa di me. –

Mi passa il pollice sulla guancia.

– Sei l'unico motivo per cui mi sveglio e non penso che se fossi rimasto a dormire sarebbe stato meglio. –

Riprovo a baciarlo, mi allontana ancora.

Vuole finire di parlare.

Vuole...

– Ti amo davvero, Tobio. Ti amerò per sempre. –

Non sento battere il mio cuore.

Non credo che sia perché non lo stia facendo, no.

Credo che sia così veloce, così fuori controllo, che nemmeno lo distinguo più bene.

Mi avvolge le braccia dietro il collo e mi piego con lui, schianta la bocca contro la mia, la apro subito, non aspetto che usi la dolcezza solita per chiedermi di farlo.

Lo tocco ovunque, sulle gambe magre, sulla vita, sui fianchi, sulla schiena, sulle spalle, sul collo e sul viso, in ogni angolo, in ogni punto.

Non so come andrà a finire.

Ma io devo ricordarti, Shōyō.

Devo.

Sei tutto quello che ho.

– Ti amo, Tobio. –

Sposto le labbra dalle sue all'angolo della sua bocca, poi alla mascella, all'orecchio, al collo. Ha la pelle chiara, a malapena vede il Sole, gli rimangono marchi come lividi addosso.

Non m'interessa.

Apro le labbra e mordo.

Mio.

Tu sei mio.

Sarai per sempre solo mio.

– Anche io ti amo, Shōyō. Ti amo, cazzo, quanto ti amo. –

Passo la lingua sul morso, sulla clavicola, sulla linea che connette la spalla all'orecchio. Posso mangiarti, Shōyō? Posso inghiottirti e tenerti dentro di me finché non rimarrà di noi solo un'unica persona? Posso, Shōyō, posso?

Mi stringe una mano fra i capelli, preme la mia testa verso di sé, verso il basso.

– Tobio, cazzo, To... –

Lascio una scia di baci sempre nello stesso punto, nella stessa distesa morbida di pelle chiara, lo sento scaldarsi sotto di me, iniziare a sfregare le cosce fra di loro.

Ne forzo una ad entrare fra le sue.

Spingo il ginocchio verso di lui che le apre, ce l'appoggio in mezzo, sfrego verso l'alto, la sua schiena si alza.

Mi sposto dall'altra parte del collo, apro le labbra e gliele richiudo in mezzo un'altra volta.

Succhio, questa volta, succhio un segno che sarà viola, scuro, visibile. Chiama il mio nome e la sua voce si alza ancora di più, si stringe contro di me.

Io non ho mai amato fare sesso.

Non è mai stata una cosa per me.

Mi sono sempre costretto a farlo e bene o male ho imparato due o tre cose per il gusto di saperle fare, ma di dire che mi sono mai sentito coinvolto non me la sento.

Sentivo un prurito, un istinto fisico.

Ma non volevo farlo, Dio, non ho mai voluto.

Tranne un paio di volte, mi dicevo fino a qualche giorno fa, ma ora anche quel paio di volte, mi sembra un'inutile e pallida imitazione di qualcosa che doveva ancora arrivare.

Fare sesso con Shōyō è...

Cazzo, non saprei nemmeno come descriverlo.

Stringe forte le ginocchia attorno alla mia coscia, il suo bacino si alza e fa frizione contro di me, la sua voce esce in un verso che somiglia ad un lamento.

Mordo un'ultima volta la sua pelle, prima di staccarmi e rimanere un istante a guardarlo.

Piange ma non soffre, ha le labbra semi aperte, umide di saliva. Gli occhi sono glassati di una patina di lacrime, ansima addosso a me.

Non so come io sia per te.

Ma tu sei e sarai per sempre la cosa più bella che io abbia mai visto.

– Ti va di farlo? –

Sorride, ride piano.

– Mi stai davvero chiedendo se mi vada di fare sesso, Tobio? –

– Non voglio dare per scontato che tu voglia farlo, magari non ti va, magari... –

Si lecca le labbra, allunga il collo dalla mia parte, sfrega le labbra contro le mie.

– Si, mi va. Mi va decisamente di farlo. –

– Ok. –

– Ok. – ripete.

Passa qualche secondo di silenzio, di completo silenzio e nulla.

Poi ricominciamo a baciarci e non sembra che la calma abbia mai fatto parte di questo posto.

Fare sesso con Hinata Shōyō è come uccidere le prime volte che lo fai.

Come ricevere una pistola e sentirti dire che il tuo compito, in quel momento, è scaricarne il caricatore su un'altra persona.

Uccidere diventa un gesto quotidiano, col tempo.

Ma all'inizio è lotta.

È il sangue che ti rimbomba nelle orecchie, il cuore che cerca di scapparti dalle costole e la pelle così sensibile da sentire anche le gocce di sangue che più piccole che ci atterrano sopra.

È l'adrenalina che ti scorre nelle vene come fuoco, l'istinto di averne ancora, di non sapere chi sei, cosa sei, di uccidere e di prendere tutto quello che puoi cercando di non farti a tua volta distruggere dal corso delle azioni che hai imboccato.

Fare sesso con Shōyō è così.

Ho la sensazione che però non smetterò di avere questa smania, nel futuro.

Se mai ce l'avremo un futuro.

È lui a tirarsi su verso di me, le mie mani s'infilano sotto la sua maglietta e lottano per sfilarla ma non cede, rimane col viso attaccato contro il mio, le labbra spalancate e la lingua intrecciata alla mia.

– Fammi togliere la... –

– Stai zitto, Tobio, stai zitto, stai... –

Devo strattonarlo indietro per riuscire a spogliarlo, e si lagna strizzando il labbro inferiore fra i denti.

È innegabilmente di conformazione esile, ma è di fatto meno fragile di quel che sembra, sotto la maglietta. Si vede che ha passato anni della sua vita a saltare fra i tetti, a scomparire nelle luci del buio, o, come dice lui stesso, a volare.

La sua schiena è magra ma solida, la pancia è piatta ma non incavata, si notano appena le costole all'inizio del torace.

È tanto bello, Hinata Shōyō.

Bello come il Sole.

Non credo che riuscirei ad immaginare qualcosa che potrebbe anche solo lontanamente competere con lui in quanto a bellezza.

Trema di freddo al contatto con l'aria ma non si ferma, nessuno dei due è qui per fermarsi, neppure per respirare un istante.

Ricomincia subito a cercare di uccidermi.

Salta addosso al mio grembo e sposta un ginocchio perché sia a lato del mio, si spalma completamente su di me, non punta alle mie labbra ma a piegare il mio capo dove vuole che sia.

Gli piacciono i baci sul collo.

A chi non piacciono, dopotutto?

Gli piace affondare le mani sottili fra i miei capelli scuri e tenermi là, fermo immobile, a respirare la luce del Sole del suo odore nascosta nell'incavo fra la spalla e il viso.

Non me lo lascio chiedere due volte.

Inspiro e bacio, tocco, mordo, succhio tutto quello che posso.

Mio, Hinata Shōyō tu sei mio.

Tu sei....

– Anche tu, Tobio, anche tu. –

Mollo la sua pelle col fiatone.

– Cosa? –

– Spogliati. Voglio... toccarti anche io. –

Sorrido fra me e me, annuisco, gli bacio una guancia.

– Stenditi, però. –

– Ma io... –

– Stenditi o ti perdi lo spettacolo. –

Ride appena e lo faccio con lui, lo spingo dalle spalle e obbedisce, per la prima volta da che sono arrivato qui, si adagia sul materasso e mi guarda.

Tu dovresti essere la preda, Shōyō.

Io sono il predatore.

E allora perché mi sembra di guardare la mia fine negli occhi quando tu non fai altro che rimanere là, fermo, ad aspettare me?

Perché mi sembra che sia tu a dovermi divorare?

Perché mi sembra di essere quello in svantaggio, in un posto dove il potere dovrei averlo io?

Tiro su la felpa con calma, l'appoggio accanto a noi.

Quando finiamo gli viene freddo.

Preferisco che si avvolga nei miei vestiti che nei suoi.

Raggiungo l'orlo della maglietta e lo tiro su, sopra la testa, la lascio cadere a terra come se niente fosse.

Mi avvolge il braccio, il pettorale e la scapola, il simbolo di chi sono.

Inchiostro nero, scuro, dettagli finissimi che hanno fatto malissimo quando impressi nella mia carne, uno stormo di corvi è marchiato sulla mia pelle.

Gli piace.

Dice che è bello.

Io non so che farmene, di un'appartenenza che non mi ha mai fatto sentire appartenente a qualcosa.

Sporge una mano verso di me, mi chino per accettarla.

– Sei così bello, Tobio. –

Arrossisco più di quanto mi convenga.

– So che non ti piace questo tatuaggio ma... ti sta bene. Ti fa sembrare più cattivo, non so, ti sta... bene e basta. –

Ha le dita morbide, sottili, contro il disegno intricato e scuro.

Percorre le piume dei corvi, dai più piccoli a quelli in primo piano. Ce ne sono due insieme, uno bianco e uno nero, poco sopra il cuore. Ci mette sopra un polpastrello, ne traccia i confini.

– Daichi Sawamura e Sugawara Kōshi. –

Annuisco.

Scorre fra gli altri.

– Tanaka Ryūnosuke, Nishinoya Yū, Asahi Azumane, Tsukishima Kei, ci sono tutti. –

Approda sul disegno più dettagliato, sul corvo più grande, quello scuro con gli occhi blu, blu come il mare, blu come le lacrime che non sapeva versare, prima che qualcuno gli desse un motivo per farlo.

– Ci sei anche tu. –

Annuisco.

Apre la mano, la piazza attorno al corvo che sta toccando, stringe.

– In realtà, visto così, sembra che ci sia solo tu. –

– Io non sono da solo. –

Apre le gambe, le chiude attorno alla mia vita.

– No, non lo sei, Tobio. –

Stringe forte e s'inarca, dà frizione ad entrambi e le nostre voci si mescolano.

– Finché ci sono io, non lo sarai mai. –

Mi perdo a baciarlo per un attimo.

Mi fermo a baciarlo mentre mi tocca, mi tasta come se fossi suo. Ma io sono suo, in fondo, e di nessun altro sarò mai, ora che ho provato cosa significhi essere suo.

Mi geme nella bocca e mi stacco, mi sporgo verso la felpa, tiro fuori la bottiglietta mezza finita di lubrificante dalla tasca. Credo di averlo messo qui d'istinto, d'abitudine, che di pensare a mente fresca, quando stavo arrivando da lui, non ero proprio in grado.

– Pronto? –

Si incastra le dita contro l'elastico dei pantaloni, li tira giù assieme alle mutande, li lancia via, spalanca le cosce.

– Vai, Tobio. –

Spremo il liquido gelatinoso fra le dita, lo scaldo e avvicino la mano all'incrocio delle sue gambe. Continuo a guardarlo perché non smette di piangere, non capisco se sia perché mi ama o perché mi odia, o perché ami o odi il mondo, o per chissà cos'altro.

Inizio con due.

Lentamente, pacificamente, con calma.

È stretto, è di conformazione minuta, farlo è di per se stesso complicato.

Ma gli piace, Dio come gli piace.

– Ah, Tobio, cazzo! –

Arrivo fino fin fondo, il palmo a contatto col suo corpo, mi fermo un istante.

– Tutto bene? –

Annuisce, si morde il labbro, cerca di muovere il bacino contro di me.

– È che hai le dita lunghe, sono... –

Alzo un angolo della bocca.

– Sai che dopo non andrà meglio. –

– Dio, ti amo per questo. –

Rido appena e inizio a muovere la mano.

Cade a pezzi. Ad ogni contatto, cade a pezzi sempre di più, gli occhi s'inumidiscono e la voce si libera nell'aria, l'espressione si fa più oscena, la schiena s'inarca di più.

Piego le falangi verso l'alto, lo tengo fermo per impedirgli di muoversi col bacino.

– Tobio! –

Mi lecco le labbra.

– Shōyō. –

Non cedo.

Non rallento, non torno indietro.

Aggiungo un altro dito, le infilo di nuovo fino in fondo, poi fuori e poi di nuovo dentro, apro le dita fra di loro, le separo per prepararlo, per sentirlo, per guardarlo contorcersi.

È erotico, è eccitante.

Il modo in cui si stringe sulla mia mano come se la volesse tenere dentro di sé, il suono che fa il lubrificante quando entro ed esco, la sua voce.

Chiama il mio nome così bene.

Sembra essere fatta per farlo.

Sposto la mano libera dal suo fianco alla spalla, lo pianto in basso, aumento il ritmo.

Mi stringe l'avambraccio con le mani, pianta le unghie sull'inchiostro.

– Bravo, così, Shōyō, così. –

– Tobio, cazzo, ti prego, Tobio, io... –

Sento il sudore iniziare a colarmi dalle tempie.

– Sei così bello, Shōyō, così bello. Ti amo, io ti... –

Si stringe più forte.

– Anche io, anche io, anche... –

Angolo meglio le spinte, le porto più in alto, più a fondo.

– Chiama il mio nome, Shōyō. Di' il mio nome. Dillo, cazzo, dì' il mio cazzo di nome. –

– Tobio, Tobio, Tobio, cazzo, Tobio sto per... –

Non ha grande resistenza fisica, Shōyō. Non che sia debole, ma decisamente non tenta di durare, non si trattiene, prende tutto quel che vuole come lo vuole e non si ferma, no, continua a prendere anche se è troppo.

S'inarca meravigliosamente, stringe meravigliosamente le cosce fra di loro.

Si aggrappa così forte alle mie dita che temo voglia staccarmele.

Si morde forte il labbro che iniziano a brillargli addosso un paio di gocce di sangue, è al limite, lui è al limite, è al...

Tiro fuori la mano.

Mi chino per assorbire la sua frustrazione su di me.

Si lamenta e piagnucola in una sequela di "no" e "continua" e "rimettile dov'erano", ma lo interrompo baciandolo un'altra volta.

È più docile, ora.

Ma non meno aggressivo, anche se sembra combattere meno.

Mi succhia il labbro inferiore fra le sue, stringe, morde forte.

– Mi fai male, Shō. –

Tira su con il naso.

– E non ti piace? –

– Non ho detto questo. –

Sorride appena, il suo corpo si scuote quando respira come se l'aria che ci passa dentro fosse un uragano.

Mi tiro su, riprendo il lubrificante in mano, appoggio le mani sulle sue ginocchia e le apro.

– Muoviti, Tobio, ti prego, ti prego, muoviti. –

– Non avere fretta. –

Alza un angolo della bocca, si tira su sui gomiti per osservare meglio i miei movimenti, per osservare meglio me.

– Con te ho sempre fretta, non so perché. –

Perché poi devo andarmene. Perché poi finisce, perché poi scompare, perché poi niente rimane a nessuno dei due, perché è come se corressimo uno addosso all'altro nel tentativo di tenere per noi qualcosa che non abbiamo.

– Probabilmente perché ti piaccio molto. –

– Potrebbe essere, sì. –

Sfaccio il fiocco dei pantaloni della tuta, li tiro giù di poco, non ho voglia di tirarmi su e togliermeli per bene.

– Non ho mai fatto sesso con nessuno come lo faccio con te. –

– Faccio qualcosa di tanto speciale? –

Mi ruba il lubrificante dalle mani, mi tira giù le mutande prima che possa intervenire in alcun modo.

– Come mi guardi, come mi tocchi, come... non lo so, Tobio, so solo che mi piace tanto e che vorrei che non finisse mai. –

Ne spreme un po' sul palmo di una mano, l'avvicina a me, sorride e la stringe sulla mia erezione.

– Le dimensioni, anche. Quelle sì che non le avevo mai viste. –

Rido appena ma la mia risata si trasforma in un ansimo accennato.

Ha le mani piccole.

Le dita sottili, bianche, chiare.

Non so se sia vero quel che dice, sulle mie dimensioni. So che però a contrasto con la sua mano lo sembra e certo non ho mai avuto niente di cui lamentarmi, ma...

Ride appena.

– Tobio, ti mette in imbarazzo sentirtelo dire? Se vuoi non lo dico. –

Sento il sangue fluirmi sulle guance e sul naso.

– No, è che... –

– Non te l'ha mai detto nessuno prima? –

Scuoto appena la testa.

Sì, me l'hanno detto. Non so perché la cosa mi metta tanta soggezione, alla fine sono adulto, non dovrei essere imbarazzato da questo che è, tra l'altro, anche un complimento, però...

Stringe le dita ancora di più, le muove in alto e in basso lentamente, gli occhi piantati sui miei.

– Perché posso dirtelo tutte le volte che vuoi. –

Si ferma.

Il mio sangue sembra di fuoco.

Decido di prendere in mano la situazione.

Lo trascino in avanti sul materasso, gli cedono i gomiti e finisce completamente steso, piego appena il suo bacino all'indietro, mi allineo con lui.

– Pronto? –

– Ti prego, Tobio. –

Il fatto che sia di corporatura esile lo rende...

Davvero stretto.

Non faccio fatica ad entrare ma è come se il suo corpo fosse quasi allo stremo delle forze, quando lo faccio. Le pareti si stringono, le gambe tremano, la testa rimane indietro e il suo fiato arriva in piccole prese d'aria vicine fra loro.

– Più piano? –

– Più forte. –

Mi mordo l'interno della bocca.

Stringo il suo bacino.

Entro completamente in un unico movimento, così a fondo che credo ormai io e lui siamo completamente una cosa sola.

Si stringe di più, tutti i muscoli s'irrigidiscono contro di me, una mano vola verso una delle mie spalle e ci pianta le unghie sopra, il momento sembra durare in eterno, vorrei che durasse in eterno.

Gli pettino via un paio di ciocche dalla fronte, aspetto con calma che il suo cuore rallenti un po', che smetta di ansimare così velocemente.

– Ssh, rilassati, rilassati, va tutto bene. –

Ha le lacrime agli occhi, la saliva che gli bagna i lati della bocca.

– Sono solo io, solo io. Rilassati, da bravo, rilassati. –

Deglutisce piano la saliva.

– Sei solo tu. – ripete.

– Sì, sono solo io. –

Muove appena la testa per girarla verso di me.

– Ci sei solo tu. –

– Ci sono solo io. –

Mi chino dalla sua parte, le nostre labbra si sfiorano, si avvicinano, si assaggiano.

Sento il suo corpo farsi più morbido, più molle, lo stringo a me e inizio a muovere il mio bacino contro il suo.

Non è mai aggressivo, all'inizio.

È dolce, è cercare di trovare un ritmo che lo faccia sentire più a suo agio, che lo abitui, che non gli faccia male.

Lento e a fondo, con calma, solo noi due e nient'altro.

Lo bacio sulle labbra, sulle guance, sulla fronte, mentre bevo i rumori che fa come se fossero la cosa più dolce che sia mai esistita. Sono brevi, accennati, niente più di un gemito di piacere, ma la sua voce è sottile, esile come lui, è decisamente erotica.

Smette di graffiarmi e mi tocca, mi passa le mani aperte sulle spalle, sulla schiena, fra i capelli.

– Ti amo, Shōyō. –

Sorride.

– Anche io ti amo, Tobio. –

– Ti amo, ti amo, ti amo, ti a... –

Il suo corpo si contrae come se stesse avendo uno spasmo.

Getta la testa indietro, i capelli sono ovunque sul materasso, stringe forte la mia vita con le cosce.

– Cazzo! –

Sorrido fra me e me.

– Trovato. –

Ricomincio ancora più lentamente, con ancora più dolcezza, con più calma, ma arrivo lì, in quel punto specifico, e lo guardo cadere a pezzi un attimo dopo l'altro.

– Ancora, ancora, ti prego, ancora. –

– Arrivo, con calma, con calma. –

Mi guarda come se lo stessi minacciando.

– No, no, non con... ah! –

Affondo un'altra volta dento di lui, la preghiera si spegne e rimane solo il suono della sua voce che rimbomba nella stanza, che risuona fra le pareti e si perde fra di noi.

– Non ti piace così? –

Certo che gli piace, certo che vorrebbe di più.

Ma voglio che me lo chieda.

Mi piace quando mi chiede le cose.

Mi piace farmi pregare da lui e mi piace tanto accontentarlo, mi piace fare un po' questo tira e molla da ragazzini che sembrano non avere nemmeno un problema nella vita.

– Di più, Tobio, per favore. –

– Mmh, non ne sono sicuro. –

Aumento il ritmo appena appena, il rumore del mio bacino che sbatte contro il suo si mescola alle nostre voci.

– No, di più, di più, di... –

Lo tiro su dal retro delle cosce, vado appena più a fondo.

– Dio, Tobio, cazzo, cazzo, ca... –

Smetto di trattenermi.

Non ce la farei un istante di più.

Non potrei anche volendolo, non riuscirei a...

– Così, Shōyō? Lo vuoi così? –

Non un attimo di tregua.

Solo la pelle che sbatte contro la pelle e la sua testa indietro e gli occhi che rotolano verso l'alto, la saliva che cola dal lato delle sue labbra e le cosce che mi stringono e tremano assieme, solo la sua schiena che s'inarca e le sue mani che si piantano sulle mie scapole.

– Dimmi che lo vuoi così, Shōyō. –

Mi lancia uno sguardo che sembra disperato, ma che non cede di una virgola.

Fiero, lui è sempre fiero. Qualsiasi cosa faccia, che sorrida o che pianga, lui non cede mai, lui è fiero, orgoglioso.

Poche cose sono attraenti come l'energia che gli scorre dentro.

– Lì, Tobio, lì, cazzo, cazzo, ancora, io... –

Più forte.

Così forte che non so nemmeno se riuscirò a smettere.

Così forte che forse gli faccio male.

– Tobio, Tobio, Tobio, To... –

Mi piace che chiami il mio nome.

Mi piace essere solo Tobio per te.

Mi piace che tu sappia chi sono, che tu ti rivolga a me, che tu chieda a me di farti star bene e che tu mi permetta di averti così, mi piace, che tu dica Tobio.

Non credo di aver mai ragionato davvero su chi fossi.

Ma ora lo so anche se non ci ho mai pensato.

Io sono Tobio qui.

Là fuori non ho idea di chi io sia.

Ma qui, qui io sono Tobio.

Spingo verso il basso il suo petto, mi tiro su sulle cosce, lo guardo in faccia.

Guardo il suo viso contratto da quello che non so distinguere fra piacere e dolore, guardo i respiri che prende di fretta, uno dietro l'altro, guardo me dentro i suoi occhi.

Non posso distruggere questo.

Io non posso.

Non posso trovare nessuna soluzione a questa cazzata, non posso risolvere il problema, non posso cambiare le cose.

Non posso.

– Shōyō, cazzo, Shōyō, sei così... –

– Vieni qui, vieni qui, ti prego, ti... –

Mi chino, le sue braccia mi stringono il collo forte, mi portano verso di sé.

Non potrei andare da nessuna parte.

Non vorrei.

Dovrei, ma niente me lo renderebbe mai possibile.

Spalanca la bocca e lo faccio anch'io, mi geme direttamente verso la gola e ugualmente la mia voce gli risuona addosso, si stringe, si stringe ancora, ancora di più, ancora più...

– Dentro, Tobio, ti prego. –

– Sì, sì, sì, come vuoi, come... –

Non dura mai tanto.

Non è mai una di quelle sessioni infinite di delicatezza e coccole e preliminari.

Vorrei che lo fosse.

Non è così che io e Shōyō ci amiamo.

Brucia come un fiammifero, si accende e si esaurisce nel giro di un paio di secondi.

Vorrei potermi prendere cura di te con calma.

Vorrei poterti dare tutto quello che meriti.

Vorrei farti sentire come tu dovresti sentirti, vorrei darti tutto e non toglierti niente, vorrei custodirti, renderti un tesoro da adorare, renderti il centro della mia vita, l'unica cosa importante.

Vorrei, ma non credo di poterlo fare.

Viene prima di me.

Viene fra noi con un gemito lungo, lagnoso, mi morde il labbro quando lo fa.

Si stringe così forte che non posso fare a meno di seguirlo, dentro di lui, in fondo dentro di lui, io e Shōyō mescolati in un modo che nessuno potrebbe mai cambiare.

Il mondo fuori cade.

E forse cadiamo anche noi.

Ma ci facciamo cadere a vicenda.

Mi piace, cadere per te.

Lo farei tutte le volte che posso.

Distruggimi, perché il modo in cui mi distruggi tu, è la cosa più dolce che mai abbia provato nella vita.

L'adrenalina scende di colpo, mi ritrovo stretto fra le sue braccia sul materasso, il fiato corto e il cervello più libero, i gomiti ai lati del suo capo e le sue mani strette attorno a me.

Lo guardo negli occhi.

Lui sorride.

Io mi spezzo.

– Scappa, Shōyō. –

È intorpidito quanto me.

Molle, inerme, confuso.

Porta lo sguardo sul mio.

– Eh? –

– La porta è aperta, scappa. Vai via, lontano, non tornare qui mai più. Vattene via, via, prima che io debba... –

Prende fiato dalle labbra.

– Vuoi che me ne vada? –

Mi cade una lacrima verso di lui.

– Non voglio farti del male. –

Sposta le mani dal mio collo alle mie guance, mi tira verso di sé, mi bacia le labbra.

– Non vuoi uccidermi, vero? –

– Non ho mai voluto, ma mi sono reso conto che non è solo quello. Io non posso, è diverso. Io non posso ucciderti. Non rimarrebbe niente di me se ti uccidessi, non sarei niente se tu non ci fossi più. –

Sorride ancora, il Sole gli riluce nel viso.

Si lecca le labbra secche, mi bacia ancora.

– Non posso scappare, sai che mi troverebbero. Mi troverebbero e mi ammazzerebbero loro. –

– Io non voglio... –

Il sorriso che fa ora, è il più bello che gli abbia mai visto fare.

Gli piega la pelle vicino agli occhi, è smagliante, mi scuote, mi distrugge, mi devasta.

– Io devo morire, Tobio. Sapevo che sarei dovuto morire da quando sono nato. Sapevo che qualcuno mi avrebbe ucciso. –

Le mie lacrime gli battono una ad una sul viso.

– Se devo morire, però, vorrei che mi uccidessi tu. Sei l'unica persona che ha il diritto di farlo. Sei l'unica persona che ha il diritto di prendersi la mia vita. –

Scuoto la testa.

– Io non posso, Shōyō, non posso. –

– Vorrei che non dovessi anch'io. –

Mi avvita le gambe attorno, sono ancora dentro di lui.

Niente ha più valore, mi rendo conto.

Niente.

Niente e nessuno.

Nemmeno le regole con cui sono stato cresciuto, nemmeno le vite che ho preso e le persone che mi hanno salvato, non la mia esistenza, non il mio mondo.

Sugawara diceva che senza Daichi non sarebbe riuscito a sopravvivere.

So che cosa vuol dire.

Lo so.

Io non ho niente, se tu non ci sei.

– Posso provare a fare una cosa. Posso provare a chiedere a Daichi se... –

– Tobio, no. Ti uccideranno, ti daranno del traditore, non puoi... –

– Se devo morire per provare a salvarti, cazzo, se... –

– Non puoi morire per colpa mia. –

– Sei tu che devi perché io ti ho portato qui. –

Mi bacia un'ultima volta, mi bacia e mi stringe forte.

– Preferisco morire io. –

– Per me vale lo stesso. –

Singhiozzo, mi spazza via le lacrime dal viso.

– Ti distruggerà la vita. –

– Me la distruggerebbe uccidere l'unica persona che io abbia mai amato. –

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