𝗷𝘂𝘀𝘁 𝘁𝗼 𝗰𝗮𝘁𝗰𝗵 𝗮 𝗳𝘂𝗰𝗸𝗶𝗻𝗴 𝘀𝗺𝗶𝗹𝗲
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Il corvo è un animale davvero particolare.
Ho sempre pensato che fosse strano, come nonostante tutti gli altri scegliessero nomi più semplici, più attraenti o più interessanti, la nostra famiglia avesse preso qualcosa di così strano come un corvo, come nome.
Però ha senso, ha un senso.
Il corvo mangia dove gli altri crepano di fame.
Il corvo predice e prevede, premonisce e scompare nel buio, il corvo campa nella discarica come campa nel più rigoglioso giardino, il corvo ti parla di morte di notte e si nasconde nella luce del giorno.
Il corvo è la divinità irlandese allo stesso modo in cui è il rintocco di morte per un poeta, il corvo è malaugurio ed è buon auspicio, il corvo è fine, è inizio, è notte ed è mistero, il corvo con noi si sposa bene, perché ce l'ha, in sé, quel potere violento e sconosciuto che ci vantiamo di portare coperto dai vestiti e dalle parole educate.
Essere un corvo non è una scelta.
Non lo è mai per nessuno.
Per alcuni è una benedizione, per altri il peggiore dei drammi.
Dipende da come sei fatto.
Dipende se ti senti più preda o predatore nella vita, dipende se mettere le mani nella morte ti disturba, dipende se preferisci la giustizia del mondo, o la tua.
Dipende se sei l'animale della discarica che mangia i morti o no.
Dipende.
Il corvo è uno degli animali di più antica evoluzione ad ora presenti sulla Terra.
Fa ridere, non fa forse ridere?
Impressionante.
A divorare i morti degli altri vedi che campi più di chiunque, a prendere il lascito delle vite altrui, quelle belle e pulite condotte lontane da te, nessuno può buttarti giù.
Che continuino a scintillare nelle vetrine palesi ed esibizioniste della politica, della moda, della ricchezza.
Alla fine vi veniamo a prendere noi.
Alla fine arrivano i corvi.
Nessun corvo lascia avanzi.
Non un pezzo di carne indietro, non una goccia di sangue a terra, non un rimpianto né una parola, non un indizio, non un ricordo.
La Mafia è così.
Non è un bel mondo.
Non è qualcosa di cui pensi "anche io", non è qualcosa a cui vuoi partecipare, non è il sogno di un bambino e non è il futuro che qualcuno vorrebbe attraversare.
La Mafia è essere un corvo.
È stare nascosto nella notte ed uscire solo al momento esatto, solo quando le pedine sono così marce da cadere a terra da sole, per divorarle e inghiottirne ogni parte.
È scandire la vita degli altri anche se gli altri non lo sapranno mai.
È rintoccare l'orologio dell'esistenza altrui, è comandare e condurre, ottenere, rubare, uccidere per sopravvivere e sopravvivere per uccidere, è non piangere perché le lacrime sono per i vivi, pregare di essere vivo perché qualcuno pianga per te.
La Mafia non la scegli.
Non la vuoi.
Arriva.
Arriva da entrambe le parti.
Arriva quando sei fragile e solo, ti dà un posto, ti dà un obiettivo, ti mangia dall'interno e ti rompe così tanto che giusto non ci tornerai mai, ti costringe a vivere in un modo solo.
Arriva anche quando sei in cima al mondo, qualche volta.
Ma non è quello il mio caso, dei ricchi caduti come pedoni colpiti da un buon arciere, non m'interessa e non m'è mai interessato.
La Mafia è arrivata che nessuno in casa mia sarebbe sopravvissuto un minuto di più.
È arrivata quando stavamo per diventare noi, il cibo dei corvi.
"Dateci il ragazzino e la ragazza".
I miei hanno dato il ragazzino e la ragazza.
Hanno dato me e hanno dato mia sorella in pasto ai corvi, ma grazie a non so quale Dio, non ci hanno inghiottiti interi ma ci hanno risputati fuori tinti di nero com'erano loro.
Miwa è morta tanto tempo fa.
Io non so se sono vivo.
Non ci giurerei.
Forse sì.
Forse no.
Chi lo sa.
La vita dei corvi non è tagliata per tutti.
È nasconderti e difenderti, è il peso della pistola incastrata sul retro dei pantaloni e le mani piene di tagli, le mille serrature alle porte di casa e i volti da non dimenticare.
Dicono di me che sono un Principe della Yakuza.
Che sono il successore di Sawamura, che i corvi saranno miei, che sono il futuro della Mafia, che quando il mio capo se ne andrà sarò io, il corvo più minaccioso nella discarica dove campano quelli come me.
Ma io non so neppure se lo voglio.
Non che importi a qualcuno che cosa io voglia, per carità.
Non c'è spazio per i desideri personali, in questo mondo.
Anche volessi provare a credere in qualcosa e a sperare in qualcosa, non saprei da dove partire.
Vorrei... mangiare l'okonomiyaki di Miwa. Quello che faceva la notte fonda, quando avevo ancora sedici o diciassette anni e tornavo di notte con la faccia piena di sangue, le nocche spaccate e le parole chiuse fra le labbra.
Vorrei dormire una notte intera senza svegliarmi.
Vorrei comprare una televisione nuova. È di ultima generazione, quella che ho a casa, ma a contrasto coi soldi che ora ho a palate e non so nemmeno perché, se fosse piccola e più bruttina, mi farebbe sentire più a mio agio.
Vorrei scopare come fanno le persone normali.
Vorrei che la mia voglia sessuale potesse trovare sfogo in qualcuno a caso come succede a tutti gli altri.
Vorrei che per me non fosse solo un atto meccanico che faccio tanto per abitudine, vorrei che mi piacesse come mi è capitato qualche volta nella vita.
Vorrei fare una doccia bollente.
Togliere la fondina che prude contro la schiena, slacciare il primo bottone della camicia e aprire il finestrino oscurato, andare in giro di giorno come le persone normali e non essere costretto a dormire per riprendermi dalle notti interminabili.
Che strano.
Nemmeno più i sogni, ho.
Solo le speculazioni pratiche e immantinenti di una vita arida e secca.
Certe volte guardo fuori dalle finestre e penso che se cadesse un meteorite dal cielo, se scendesse una tempesta di fulmini o un uragano, forse, in quel mondo nuovo e devastato potrei ricominciare a sperare.
Poi mi ricordo che sono un corvo.
E che se morissero tutti, rimarrei coi miei simili, sopravvivrei, perché mangerei le loro carcasse come, alla fine, faccio ora.
− Kageyama, siamo arrivati. −
− Scendo. −
Mi concedo, della mia lista interminabile di desideri tristi, solo di slacciare la camicia di un paio di bottoni, prima di aprire la portiera dell'auto su cui sono e scendere in strada.
Non fa freddo, ma c'è vento.
Apre il completo nero che porto, lascia svolazzare i miei capelli scuri nell'aria, mi costringere a chiudere un po' gli occhi.
È notte.
Siamo fuori città, in una zona residenziale quasi deserta.
Non c'è l'ombra di una persona da nessuna parte per quanto cerchi di guardarmi attorno, la desolazione non termina, si estende a perdita d'occhio.
Sembra quasi di campare in un limbo, di respirare in un posto senz'aria.
Se un albero cade nel bosco e nessuno sente il suo rumore, si può davvero dire che è caduto?
Se vivo nel nulla e nessuno interagisce con me, sono davvero vivo?
Ignoro la questione quando l'autista scende dalla macchina e mi raggiunge.
− Questo è il posto. −
− Avete acceso l'acqua corrente? −
− Sì, come hai chiesto. −
L'abbiamo rapito, dopotutto, non portato in uno zoo. Non riuscirà ad uscire in nessun modo, dargli un bagno è solo la parvenza di umanità che gli concediamo.
− Avete scoperto qualcosa? −
− Niente. −
− Bene. −
No, non è bene.
Non è bene per niente.
− C'è qualcun altro, dentro? −
− Due o tre uomini che gli danno il metadone. Lo stanno a controllare quando non c'è nessuno, dicono che tremava così tanto, ieri, che rischiava di aprirsi la testa in due sul cemento. −
Alzo gli occhi al cielo.
− Eroinomane di merda. −
− Già. −
Odio i drogati.
Che diritto hanno di scappare da questa realtà quando io me la devo sorbire in ogni sua parte? Che diritto hanno di scegliere di crepare in un mondo diverso dal nostro quando io ci sono così attaccato da non riuscire nemmeno a sognare?
− Quanto tempo abbiamo? −
− Quanto ti pare, Kageyama, nessuno ci sta dietro. Nessuno ha idea di dove sia questo posto e Daichi dice che questa faccenda te la puoi gestire da solo. −
− Perfetto. −
Lascio scivolare la giacca del completo giù dalle braccia e la infilo nel sedile della macchina, apro i polsini e tiro su le maniche fino ai gomiti.
− In che condizioni è? Se vedo il minimo accenno di vomito me ne vado. −
− No, non vomita più. −
− Sarà meglio. −
Sospiro nell'aria fresca e rivolgo lo sguardo verso l'alto.
Non ci sono le stelle, stanotte, nel cielo. Nemmeno loro guardano i corvi. Che abbiano paura di essere divorate?
Non divorerei una stella.
A meno che non fosse strettamente necessario, è ovvio.
Percorro il vialetto spoglio verso l'enorme edificio di cemento armato di fronte a me.
Non so dove cazzo l'abbiano trovato, faceva parte dei possedimenti del Karasuno prima che lo cercassi e che ne avessi bisogno, ma per quel che vale sembra una di quelle fabbriche tessili del primo Novecento, dismessa e vuota.
C'è una catena composta di anelli spessi quasi quanto le mie braccia all'ingresso.
− È aperto? −
− Sì, entra pure. −
Non vedo bene, con questo buio, per cui non distinguo perfettamente che cosa io stia facendo. Prendo una delle maniglie e la tiro, grazie al cielo si apre senza far cadere la catena e svegliare il vicinato intero.
Ci sono tre lampadine elettriche col filo scoperto che pendono dal soffitto alto, la luce è gialla, sporca, mi ricorda casa mia quando avevo cinque, sei anni. Sfarfallano a momenti alterni, gettano ombre strane su tutto lo spazio vuoto.
C'è il bagno in un angolo, l'unica stanza presente, un materasso gettato a terra fra un paio di colonnine, i rimasugli di quello che immagino fosse il ramen istantaneo che gli hanno portato per cena, una coperta arruffata.
Non lo vedo, all'inizio.
Noto prima i due uomini, uno in piedi e l'altro abbassato sui talloni al centro della stanza.
− Ci si riesce a parlare? −
Uno si gira verso di me.
Saluta educatamente nonostante sia più vecchio di me, accenna un inchino che non considero, si schiarisce la voce.
− All'incirca. −
− Risponde? −
− No, ma capisce. −
Faccio spallucce.
Meglio di niente, no?
Ho le gambe lunghe, supero la distanza con poche falcate ampie, cerco di mettere a fuoco la scena.
Dov'è?
C'è voluta una vita per prenderlo, dov'è?
Dove cazzo l'hanno messo?
Dove...
Oh.
Me lo aspettavo... diverso. Me lo aspettavo alto, imponente, di presenza intimidatoria e molto più grande di così.
È questa, l'esca che cerchiamo da settimane?
Questo ragazzino delle medie che tiene la fronte contro le ginocchia e trema su se stesso?
− Almeno è maggiorenne, cazzo? −
Uno dei due annuisce, sospirando.
− Ha vent'anni, è solo basso. −
Fregati da un ragazzino di merda, eh?
Quando Daichi e Suga lo sapranno ne rimarranno colpiti, lo so. Abbiamo visto uomini grossi due volte lui piegati a pregare pietà con le lacrime agli occhi, quantomeno questo non chiede e non implora, nonostante sia così piccolo.
− Siete sicuri che sia lui? –
− Al cento per cento. –
Non faccio il lavoro di scagnozzo da anni.
Ho passato tanto tempo ad essere io, quello che scendeva dalla macchina la notte fonda e caricava le persone sul retro, quello che doveva fare le ricerche e scavare nei passati turbolenti, ma ora non mi compete più.
Sono giovane, ma sono qui da quando avevo nove anni.
Ho guadagnato un posto.
Posso evitare di sporcarmi sempre le mani.
− Potete andare, ora. –
− È sicuro che non vuole che rimaniamo? Se avesse... −
− Rimanete fuori, se ha una crisi vi chiamo, quando me ne vado dovete rimanere qui. –
Annuisce uno per entrambi.
− Avete un accendino? Ho lasciato il mio nella giacca. – chiedo poi, mentre mi tasto il petto alla ricerca di una tasca interna che la camicia, al contrario dell'altro indumento, non ha.
Quello in piedi annuisce e tira fuori un accendino di quelli da supermercato dalla tasca sul retro dei pantaloni, china la testa, trascina l'altro con sé e si allontana, un passo alla volta, verso la porta.
Io non faccio altro che prendere il pacchetto morbido di sigarette e infilare il filtro arancione di una fra le labbra. Lascio scattare la pietra focaia dell'accendino, l'accendo e prendo un tiro, osservo il fumo che tinge l'aria mentre mi avvicino ancora.
È piccolo davvero.
Le spalle sono così minute che se ci stringessi una mano addosso, potrei sentire l'osso rompersi sotto le mie dita.
Trema, ma non sembrano più i terremoti che mi hanno raccontato ieri.
Non credo però nemmeno che sia il freddo, la coperta ce l'ha e non la sta minimamente calcolando.
Aspetto che il rumore della porta che si richiude raggiunga le mie orecchie, prendo un altro tiro e rimango a fissare la nuvoletta grigiastra che si apre dalle mie labbra per un istante che sembra infinito.
Che vita, eh?
Mangiare per non essere mangiati, mangiare anche qualcuno che trema in astinenza e ha le gambe così sottili che basta guardarle per romperle.
I corvi non guardano in faccia le carcasse che depredano.
Puntano agli occhi per primi, uno scienziato ti direbbe perché le parti molli sono le più nutrienti, un poeta perché non riuscirebbero a sopportare lo strazio della loro vittima durante tutta la tortura a cui la sottopongono.
C'è una sedia di metallo, verso il muro, la prendo e la trascino con me fino al centro della stanza, lascio che il rumore squarci il silenzio per infastidirlo, per fargli avere paura, per farlo irrigidire.
Sobbalza, di fatto, non molto di più.
Mi siedo appoggiando le braccia sullo schienale, tenendo le gambe aperte e piegando la testa per guardarlo meglio.
Credevo che fosse un effetto strano della lampadina, ma non è quello.
Ha proprio i capelli di un colore strano.
− Hinata Shōyō, l'esca. Non credevo che di tutte le persone mi avrebbero portato un ragazzino eroinomane coi capelli arancioni. –
Riconosce il suo nome.
Ma non risponde, non alza nemmeno il viso verso di me.
− È educato guardare qualcuno quando ti parla. –
Ancora niente.
È sordo?
Hanno detto che sentiva, prima, non è che...
− Guardami o ti sparo, stronzo. –
Alza la testa.
Gli occhi sono grandi, enormi, sembrano castani. Ha le ciglia lunghe, credo, perché l'angolazione della luce fa sembrare l'ombra che proiettano sulle sue guance una manciata di lacrime scure che tingono la pelle chiara.
Una bambolina di ceramica.
Di quelle spezzate nei mercatini inquietanti dell'usato.
− Come se non aveste intenzione di farlo in ogni caso. –
Vero, il ragazzino ha ragione.
Ma...
− Se collabori potremmo lasciarti andare. –
− Io sto collaborando. –
Stronzetto, mi prende per il culo?
Sta collaborando?
Appoggio il piede in avanti, spingo verso di lui il busto, la sedia si piega in equilibrio con me.
− Vuoi morire o cosa? –
Alza le spalle.
− Voglio farmi e rimanerci, come ti sembra? –
Mi prende per il culo, mi prende decisamente per il culo e lo fa con quel faccino così innocente.
Irritante.
Piccolo bastardo, con chi crede di avere a che fare?
Crede che lo lascerò andare solo perché sembra giovane? Crede che avrò pietà? Nessun corvo gode dell'idea di averne anche solo per se stesso, di pietà, darne a te sarebbe impensabile.
− Se parli te ne do un po'. –
Apre gli occhi.
Che schifo, i drogati.
Mi fanno schifo.
Sembrano girasoli che si piegano con la stella sbagliata. Sembrano segugi dietro ad una preda che più che preda è uno di quei minuscoli serpenti terribilmente velenosi.
− Davvero? –
− Puoi permetterti di dubitare? –
Si sposta i capelli dalla fronte con una mano piccina, sono arruffati e chiari quando lo fa. Hanno un colore particolare, che m'incuriosisce, vorrei toccarli per vederlo da vicino.
− Devi... devi promettere. –
− Io non faccio patti coi prigionieri, ragazzino. –
− E allora non ti dico niente. –
Sbuffo.
Mi guarda dritto negli occhi e non cede di un centimetro, quando porto la sigaretta alle labbra e prendo un altro tiro.
Non ha paura, ha fegato.
Non ha speranze di uscirne vivo, non ha merce di scambio né qualcosa per potersi difendere, non ha niente dalla sua.
Eppure non guarda verso il basso, non cede.
Tiene gli occhi fermi contro i miei.
Prendo un altro tiro, poi lancio il mozzicone per terra, mi tiro su, scendo dalla sedia.
Voglio davvero toccare i suoi capelli.
Chissà se profumano d'arancia.
Hanno lo stesso colore delle arance.
− Cerchi di contrattare quando non hai niente da scambiare, ragazzino? –
− Io non ho intenzione di dire una paro... −
Li voglio proprio toccare.
Ci chiudo una mano in mezzo, faccio leva sul bicipite e tiro su, finché non è a mezz'aria sotto di me, un paio di lacrime di dolore che il suo corpo gli spreme fuori dagli occhi e la mascella stretta.
Tiro fuori la pistola con la mano libera, premo la canna contro la tempia.
− Non sono qui per giocare, Hinata Shōyō. –
Lui sorride.
− Neanche io, Tobio Kageyama. –
Lascio andare di colpo la mano e cade a terra, le ginocchia contro il cemento e la testa che sembra non reggersi più nemmeno sul collo, china subito, non appena torna seduto.
− Come cazzo fai a sapere come mi chiamo? –
− Io so tutto. –
Porto una mano verso il viso.
No, non profumavano di arance.
Sanno di sudore.
Non un sudore particolarmente sgradevole, a dirla tutta, ma niente di che.
− Sei solo un figlio di puttana. –
− Un figlio di puttana che sa tutto. –
Ho ancora la pistola in mano.
Faccio per rimettergliela di fronte al viso e sposto i capelli con la canna che è diretta, dritta al centro della sua fronte.
Muovo la sicura, la sente scattare.
Ricomincia a guardarmi in faccia.
C'è qualcosa di maniacale, in lui, qualcosa di spaventoso e inquietante.
Forse sono questi fanali che chiama occhi, così grandi, così onesti, che sembrano scavarti dentro. Forse è il sorrisetto fanatico, forse la bellezza infantile del suo viso che mal s'accompagna con le cose che dice e la posizione in cui è, forse lui e basta.
− Spara, Tobio Kageyama. Spara, su. Spara. –
Potrei.
Potrei, Hinata Shōyō, potrei sparare.
Il tuo cervello uscirebbe dall'altra parte e per me saresti solo l'ennesima carcassa divorata nell'ennesima notte di caccia, niente di più.
Ma nessuna preda mi ha mai pregato di finirla.
E non so perché, ma questa cosa estirpa in me ogni traccia di adrenalina.
− Inizia a parlare. –
− Ho già parlato. –
− Quello che hai detto è una stronzata. Voglio la verità, stronzo. –
Spinge la testa verso di me, come se volesse inglobare la canna della pistola dentro il suo cranio.
− Se non mi credi spara, Tobio. –
− Lo farò. –
− Fallo. –
Sfioro il grilletto con l'indice.
Potrei.
− Che gusto c'è ad uccidere una preda che prega di morire? –
− Quello di fare una buona azione. –
Una buona azione?
− Non farmi ridere. –
− I corvi non fanno buone azioni di tanto in tanto? –
− I corvi non sanno nemmeno cosa sia il bene, Hinata Shōyō. –
Alza solo metà del viso in un sorriso, cerca di respirare ma gli trema il petto.
So che non è il panico ma l'astinenza e decido in quest'istante che quest'aspetto malaticcio e grigiastro, indosso, non gli sta affatto bene.
È spaventoso.
Lui e le braccia piene di buchi, lui che manco riesce a parlare da quanto gli tremano persino i denti.
No, non gli darò un'altra dose.
Sembrava una buona opzione per farlo parlare, prima, ma non mi piace.
− Non capisco perché non mi crediate. – borbotta dopo un po', il corpo per terra che sembra solo un ammasso di carne senza muscoli gettato a terra.
Trattengo una risata.
− Perché la risposta alla domanda "come fai a sapere così tanto di noi" è stata "ascolto quello che dite". –
− E cosa ci sarebbe di falso? –
Stringo i denti.
− Tu sai dove mettiamo i soldi, dove sono i nostri nascondigli, dove la droga, i container, i punti di ritrovo, le reclute, i boss, tutti. Tu sai tutto, e non è possibile che tu ascolti e basta. –
− Invece è esattamente quello che faccio. –
Mi viene voglia di sparargli per davvero.
Crede che sia idiota?
Crede che sia...
− La mia specialità è non farmi notare, Tobio. Nessuno mi vede, io sono la carta da parati. E tutti dicono tutto di fronte alla carta da parati. –
− Stronzate. –
− Non credermi, non lo rende meno vero. –
Io dovrei avere il potere.
Io sono quello ben vestito, in piedi, con la pistola in mano e i soldi, io sono quello che ti ha rinchiuso e che ti sta interrogando, io sono quello che sparerà una pallottola nel tuo cervello quando si riterrà soddisfatto.
Perché, allora, mi sembra di guardarlo ed essere... debole?
− Fra quattro giorni c'è l'anniversario della morte di Miwa. Hai comprato i fio... −
Mi muovo prima di rendermene conto.
Sbatto il calcio della pistola contro la sua tempia e lo vedo cadere di lato, un rivolo di sangue che scende verso il naso, l'espressione strafottente anche nel dolore, gli occhi pieni di lacrime.
− Non parlare di mia sorella. –
− No? –
− Se non vuoi crepare, no. –
Chiude la bocca e quando la riapre c'è qualcosa di rosso che spunta dai lati delle labbra.
− Anch'io ne avevo una che è morta, sai? Si chiamava Natsu. Era davvero carina. –
Perché me lo sta dicendo?
A me non fotte un cazzo, a me...
− Tu sei diventato un corvo per la tua e io carta da parati per la mia. Alla fine sono morte comunque, ironico, non credi? –
Ironico?
Non lo so, se è ironico.
Che nonostante ci abbiamo provato in due modi diversi abbiamo avuto lo stesso tragico epilogo, intendo.
− Alla fine rimaniamo solo noi e non sappiamo che cazzo farci con la vita. –
− Campare senza vendere informazioni riservate della Yakuza per lavoro mi sembra una scelta onesta. – rispondo.
Ride.
Ride appena, sembra sorridere per un solo istante in un modo davvero solare.
− Rispetto la tua opinione. –
− Dovresti farlo sul serio. –
Mi giro un'altra volta verso la sedia, la porto più avanti, di modo che sia esattamente di fronte a lui, a pochi centimetri dal suo corpicino esile e tremolante.
− Tirati su, ragazzino. −
− Ho un nome. −
Piego la testa per guardarlo in faccia.
− Non più. −
− Ce l'avrò finché non crepo. −
Fa fatica a rimettersi seduto, c'è il sangue che gli cola sul viso dalla ferita che gli ho aperto sulla tempia e sembra essersi morso così forte la lingua che anche parlare, è doloroso.
Non m'interessa del suo dolore.
− Possiamo mandare avanti questa cosa in due modi, Hinata Shōyō. −
Sorride quando dico il suo nome.
Pensa che abbia ceduto?
No, non l'ho fatto.
Non sono il tipo che cede, io, dovrebbe saperlo, lo saprebbe se sapesse tutto quel che dice di sapere.
− Il primo è che tu parli, mi dici come cazzo fai a sapere così tante cose di noi e torniamo tutti a casa interi. −
Lo sa che non è vero.
Sa che intero, lui, a casa, non ci tornerà mai.
Ma quando dico quel che dico intendo che non lo ucciderò facendolo soffrire, che gli darò il lusso di una morte veloce e rapida, che non patirà ore e ore pregando che lo finisca.
− Il secondo è che non parli e ti faccio parlare io. −
Si morde l'interno della bocca.
− Avevi detto che mi davi la droga. −
Storco il naso.
No, non mi piace.
Questa opzione non mi piace.
Se ti riprendessi e ti facessi una doccia, i tuoi capelli profumerebbero d'arancia? Lo vorrei davvero sapere, la questione m'incuriosisce.
− Non parlo coi drogati. −
− L'avevi detto. −
Follia pura di chi vuole e a cui viene negato, stende un braccio verso di me ed è sottile, così sottile.
Stringe la mano nel tessuto scuro e tira, lo stronzetto, come se potesse davvero permettersi di farlo.
− L'avevi detto, l'avevi detto, tu me l'avevi... −
− Non toccarmi. −
− Ti giuro che ti dirò tutto quello che vuoi sapere, ma devi, tu devi... −
Perché quando ti ho detto che t'avrei sparato non hai reagito così? Perché hai detto "spara, Tobio" con la canna di una pistola premuta contro la fronte e ora preghi, pretendi e ti lagni?
Non ce l'hai un minimo di spirito di autoconservazione?
− Lascia andare i miei pantaloni. − ripeto.
Non lo fa.
No, stringe invece la gamba con la mano.
Le dita sono sottili e minute, ma la presa è salda, come fosse d'acciaio. Fa male, malissimo, reagisco d'istinto e muovo la gamba per scalciarlo via.
Atterra di nuovo sulla colonnina su cui era, batte appena la nuca contro il cemento, sento un lamento uscirgli dalle labbra.
− L'avevi detto, tu l'avevi... −
− Ti fidi di un mafioso? −
− Avevi detto che... −
Non piangeva, un attimo fa. Non ha pianto quando ho minacciato di piantargli una pallottola nel cervello.
Perché piange ora?
Maledetto pezzo di merda.
Quale folle sacrificherebbe la sua stessa salute per una stronzata del genere? Quale folle piangerebbe per l'eroina e non lo farebbe per la propria stessa vita?
Non ti comprendo, Hinata Shōyō, l'esca che ci ha fatti uccidere a frotte.
− Perché cazzo t'interessa così tanto quella roba? −
Ride.
Non è una risata pulita o infantile come te l'aspetteresti da un viso come il suo. Non è lo scintillio di un campanello che risuona nell'aria.
È acida.
Stanca, sfinita.
− Stai davvero chiedendo ad un drogato perché vuole la droga? −
− Perché cazzo sei un drogato? Hai vent'anni, per la miseria, sei giova... −
Stringe lo sguardo.
− Dove credi che saresti finito tu se non ti avessero preso i corvi? Guarda che sei come me, stronzo, hai solo avuto fortuna nella vita. −
Fortuna?
Tu la chiami fortuna?
Sarebbe stata fortuna se m'avesse adottato una famiglia di medici, di persone rispettabili. Se fossi ora qualcosa di onesto e leggero come un impiegato, un atleta, un dottore.
Io non sono stato fortunato.
Ho solo i soldi, ma sono due cose diverse.
− In qualche modo uno deve tirare avanti. − aggiunge, con gli occhi grandi e stanchi, la voce ridotta ad un filo stanco e incerto.
− Quello non è tirare avanti. −
Io tiro avanti.
Ma tiro avanti da solo, senza scorciatoie, stronzetto.
− Tanto vale ammazzarti, se devi passare la vita con una siringa piantata nel braccio. −
Mi guarda da sotto le ciglia.
− Non ci riesco a farlo direttamente. Ho troppa paura, non so perché, mi fermo sempre ad un passo dal farlo. −
Ah.
Io stavo...
No, non stavo scherzando.
Ma mi aspettavo una risposta diversa.
Rimango in silenzio, appoggio una guancia sopra le braccia incrociate e lo fisso e basta.
Quante volte, Hinata Shōyō, è successo anche a me.
Quante volte ho raggiunto il balcone di casa mia e sono rimasto lì, le mani sulla ringhiera, e guardare di sotto.
Se morissi sarei in pace?
Se morissi rinascerei umano e non corvo?
Se morissi potrei dormire senza nessuno a disturbarmi?
Se morissi mi sentirei migliore?
Se morissi, a questo mondo, mancherei?
− Alla fine è solo un suicidio dilazionato, il mio. −
Vero.
Vero il tuo, vero il mio.
Vivere così non è forse la stessa cosa?
Ad ogni angolo che giri, ad ogni parola che dici, ad ogni persona che incontri, sai che prima o poi sarà l'ultima e che qualcuno ti ucciderà per quello che fai.
− Perché uccidersi se qualcuno può prendersene la briga per te? − dico ad alta voce, più catturato dai miei pensieri che dalla realtà di quello che sta succedendo.
Sorride, Hinata Shōyō. Sorride a trentadue denti, illumina la stanza per un attimo come se il Sole ci stesse brillando dentro, mi ricorda cosa vuol dire vivere alla luce del giorno e non nascosto nelle pieghe della notte.
− Perché non sfidare ogni giorno la sorte e vedere quanto ci mette la vita a fotterti? −
Non mi ero reso conto che fosse attraente.
Non la persona più attraente che io abbia mai visto, ma attraente.
Ha la pelle chiara e gli si piegano gli occhi quando sorride, ha il naso dritto, il viso ha qualcosa di delicato, infantile.
È attraente, Hinata Shōyō.
Chissà se anche lui trova me attraente.
− Non posso darti la droga, Shōyō. −
Perde il sorriso.
Ricomincia a piangere.
− Perché? Perché non puoi, io... io non ti dico niente senza, io non dirò una parola, io, io... −
− Non posso proprio. −
Perché, lui chiede.
Non lo so, perché.
Perché non mi piace l'effetto che ha su di te, perché saresti più attraente senza, perché voglio sapere di cosa sanno i tuoi capelli puliti, perché voglio parlarti quando sarai completamente sobrio e completamente concentrato solo su di me.
− Io non dirò... −
− Tu parlerai, sappiamo entrambi che parlerai. Risparmia il fiato e accetta la situazione per come è. −
Rivoglio il sorriso di prima.
Non mi piace l'odio che mi rivolgi ora.
Rivoglio quel sorriso enorme e plateale che mi ha scaldato la pelle come una giornata di Sole senza vento, questa lama che è il tuo sguardo mi piace di meno.
− Starai meglio senza. −
− E a te che cazzo te ne frega di come cazzo sto? −
Che me ne frega, tu dici.
Niente.
In effetti, niente.
Ma m'incuriosisci, perché sei davvero strano. Non sei un corvo ma pensi come uno di loro, non uccidi ma parli come se l'avessi fatto, mi sembri me e mi sembri allo stesso tempo diverso.
− Ti daranno il metadone per aiutarti, non sarà così terribile. −
− Io quella merda non la voglio. −
Alzo le sopracciglia.
− Ah, l'eroina sì e il metadone no? −
− Mi fa venire da vomitare. −
− Sono sicuro che ti sia successo di peggio. −
Sembra un bambino, da come fa il broncio. Sporge il labbro inferiore e incrocia le braccia, guarda di lato e aggrotta le sopracciglia, tira su le ginocchia verso il petto.
− Sei un pezzo di merda. −
− Non è vero. Sei tu che sei un drogato del cazzo. −
Sbuffa.
− Sei anche maleducato. E cattivo. −
− Wow, uno Yakuza è cattivo. Non l'avrei mai detto, sai. −
Mi guarda malissimo.
− Non prendermi in giro. −
− Oh, e se no cosa mi fai? −
Sembra che il nervosismo gli si raduni sotto la pelle.
S'irrigidisce e rilassa in un attimo, nasconde la faccia fra le gambe e lascia andare un urletto infantile di puro fastidio.
− Sei odioso. Te l'hanno mai detto che sei odioso? Sei davvero odioso. Non stento a credere che la gente dica quel che dice di te, cazzo, hanno ragione. Sei davvero il più antipatico del mondo. −
Rimango interdetto.
Antipatico?
Chi cazzo ha detto che sono antipatico?
Io non sono antipatico.
− Che hai detto? −
− Che sei un antipatico. −
− No prima, sul fatto che... −
− Ah, che lo dicono di te? Sì, è vero, e hanno ragione. −
Come si permettono? Io potrei ucciderli uno ad uno, farli secchi come scarafaggi e non lasciare di loro nemmeno la polvere sulla faccia del mondo.
− Chi è il figlio di puttana che va in giro a dire che sono antipatico? −
Alza gli occhi al cielo, si adagia contro la colonnina.
− Bene o male chiunque lavori sotto di te. Li ho sentiti dire che sei troppo noioso, che vuoi sempre che gli altri facciano le cose come le dici tu, che non ascolti i consigli e che tratti gli altri come se fossero coglioni. −
− Non lo faccio. −
− Kunimi Akira ha detto a Kindaichi Yuutaro di essere passato al Seijoh solo per non doverti mai più rivedere della vita. −
Eh?
Kunimi?
Ma io e Kunimi eravamo assieme all'addestramento, io e Kunimi...
− Dice che non hai rispetto del lavoro altrui e che l'unica cosa che conta per te sono le tue stronzate. Ha ragione, se chiedi a me. Tante delle cose che fai sono così e dal vivo sei ancora più insopportabile. −
− Io non sono insopportabile! −
Sottile come un foglio di carta, pianta gli occhi sui miei.
− Se non fossi insopportabile mi daresti la droga. −
Stronzetto impertinente.
È sceso a patti col fatto che tanto, comunque andrà, creperà lo stesso e tanto vale darmi più fastidio possibile prima che accada?
È così di natura?
− Ti sto solo facendo un favore, Shōyō. −
− Non è vero. Credi di starmelo facendo perché l'hai pensato tu, e nonostante per me sia tutto il contrario, a te fotte solo delle tue idee. –
Pensa di essere tanto brillante, non è vero? Pensa di potermi leggere come un libro e dirmi che cosa sto facendo quando non me ne accorgo.
In realtà, potrebbe avere anche ragione.
Ma non ha importanza che ce l'abbia, perché il potere di prendere la decisione finale ce l'ho io, e che sia arrogante, antipatico o qualsiasi cosa lui dica, questo non cambierà.
− Continua ad essere un no. –
− Ah, cazzo, ti odio, ti odio, se davvero un... −
− Antipatico? –
Annuisce e non finisce la frase.
Mi dà fastidio che lo dicano in giro di me. Non tanto perché non sia vero, ma più per il fatto che non devono permettersi di farlo.
Però lui lo dice in un modo che lo fa sembrare un ragazzino delle medie.
Come se mi stesse insultando profondamente, nonostante stia solo dicendo "antipatico".
Prendo fiato.
− Quindi spii anche il Seijoh? –
Non reagisce male alla domanda. Non è che me l'abbia detto per sbaglio, che se lo sia lasciato sfuggire, sembra più che non gl'importi di avermelo fatto sapere.
Forse è meno chiuso di quel che sembra.
Forse si tratta più di leggere fra le righe, con lui, che di minacciare e tirare fuori la pistola.
− Non spio nessuno. Siete voi che venite a dirmi le cose, io non ve le chiedo. Io le so e basta. –
L'esca.
Tutti lo chiamano l'esca.
Anche noi, l'abbiamo chiamato "l'esca" per mesi, per anni, forse.
Non un nome, non una faccia, non una voce o un'ombra.
Solo le informazioni che ti servono nel momento in cui ti servono in cambio di denaro.
L'esca è stato l'informatore più utile di questo mondo.
Però ha venduto le sue parole alla persona sbagliata.
E ha fatto uccidere venticinque dei nostri in un'imboscata che per un pelo non prendeva Suga, e l'epilogo è stato che ho ricevuto l'ordine di prenderlo, estirpargli tutte le informazioni dal cervello, capire come faceva a sapere tutto e ucciderlo senza pietà.
Non è colpa sua.
Per lui era solo lavoro.
Ma se tocchi l'unico corvo bianco dello stormo il suo compagno non avrà pace finché chi ha partecipato all'attacco non sarà a terra esangue ad aspettare di essere mangiato.
Il corvo è un animale fedele.
Uno dei pochi, molto più dell'uomo.
Il corvo sceglie un compagno e non lo abbandona mai per la vita, condivide il nido, il cibo, le migrazioni e le notti infinite di gracchiare senza sosta.
Non mi aspettavo niente di diverso da Daichi.
− Ho bisogno che mi spieghi cosa intendi con questa frase, Shōyō, perché detta così è criptica e non si capisce un cazzo. –
Ride appena.
− Non intendo niente. È così. –
− Voglio dire che... −
− Non posso dirti qualcosa di più vero della verità –
Sospiro.
Gioca con le parole, lo stronzo, gioca con le parole e i concetti e cerca di confondermi. Ma so che lo sta facendo, al momento, ancora non funziona.
− Come sapevi che Sugawara sarebbe passato da quell'incrocio a quell'ora? –
Deglutisce.
− Me l'ha detto lui. –
− Non è possibile che l'abbia detto... −
− L'ha fatto. –
Non può averlo fatto. Non è l'ultimo dei coglioni, cazzo, è il capo di un'enorme famiglia mafiosa che uccide di lavoro. Non è possibile, non lo è proprio.
− Mi volete uccidere per quello, vero? Sapevo che non avrei dovuto vendere quell'informazione, ma non avevo i soldi e mi servivano per... −
− Per la droga, eh? –
Ride.
− Che opinione bassa hai di me, Tobio Kageyama. No, mi servivano per mangiare. Avevo speso già quelli per mangiare nella droga. –
Nascondo una risata.
È divertente, nell'amarezza di quel che dice, lo stronzo.
− Non avresti dovuto farlo, no. Non so che cazzo ti sia passato per la testa. –
Annuisce.
− Vai tu a capire. –
Stiracchia le braccine in avanti e lascia scattare le dita.
− Se davvero non hai intenzione di darmi la droga devi chiamare gli altri due cretini. Sta per venirmi un'altra crisi. –
− Ora? –
− Dammi cinque minuti e sarò a contorcermi per terra. –
Davvero?
Non so se voglio...
− Vomiterai? –
− Di sicuro. –
− Allora me ne vado. –
− Schizzinoso. –
No, non sono schizzinoso. È che mi fa schifo. Non mi fanno schifo il sangue, i corpi morti e i cadaveri, le teste mozzate e i cervelli spappolati sul cemento.
Il vomito sì.
È tanto strano?
− Torni domani? –
− Torno quando sei pulito. –
− Ah, ok. –
Mi alzo dalla sedia, lo guardo sotto la luce.
− In piedi, Hinata Shōyō. –
− Non ce la faccio, mi tremano le gambe. –
− Ho detto in piedi. –
Sospira, aggrappa una manina alla colonnina di cemento e ci prova, a tirarsi su sulle ginocchia. Ce la fa per un pelo, si vede che fatica, ma riesce.
− Quanto sei alto? –
− Un metro e sessantacinque. –
Mi arriva alla spalla, deve piegare la testa per guardarmi bene negli occhi.
Appoggio una mano sulla sua testa, l'arruffo fra i capelli. La prossima volta sarà meglio che profumino d'arancia, o m'incazzerò davvero.
− Quando torno voglio che mi racconti chi sei. –
− Che cosa in particolare? –
− Tutto. –
Fa "sì" con la testa.
− Posso chiederti una cosa? Ma devi rispondermi onestamente. – dice poi, con la voce ridotta ad un filo.
Cos'è, questa, Hinata Shōyō? La speranza che lasci uscire solo una volta ogni tanto, la lacrima di voglia di vivere che ti è rimasta? La paura di morire?
Annuisco.
− Va' avanti. −
− C'è una chance di uscire vivo da qui? –
Migro con la mano dalla matassa arancione e inaspettatamente soffice dei suoi capelli al lato del suo viso.
Attraente, sì, sei attraente.
− No. –
− Ok. –
Potrebbe persino non piacermi, ucciderti.
Chissà cosa proverò.
− Parlerai lo stesso? –
− Cambierebbe qualcosa se non lo facessi? –
− Non c'è qualcuno a cui devi fiducia? –
Ride.
Ride e si allontana da me appoggiando la schiena contro la colonnina, come se non ce la facesse più neppure a stare in piedi.
− L'unica persona a cui devo qualcosa è me stesso, Tobio. –
− Giusto. –
Trema, più forte di prima.
Le sue spalle si scuotono proprio.
− Tanto alla fine crepo da solo, di chi altri dovrei preoccuparmi? –
Ha ragione, sa di avere ragione.
− Sono l'unica persona che non mi abbandonerà mai nella vita. –
Sorride.
Cade di lato.
− Credo. –
E poi scompare, Hinata Shōyō scompare e compaiono al suo posto tremori che sembrano convulsioni, sudori freddi, lamenti di dolore e occhi sbarrati.
Mi allontano.
− Siete ancora fuori? –
Vedo la porta aprirsi, uno dei due fa capolino dallo stipite.
− Continuate col metadone finché non sta meglio. Non dategli l'eroina per niente al mondo. Richiamatemi quando sarà normale. –
Annuisce, chiama l'altro.
− Kageyama? –
− Dimmi. –
Lo scagnozzo mi guarda.
− Possiamo picchiarlo? Se fa lo stronzo, se è... −
Stringo gli occhi così tanto che sembrano fessure.
− Non allungate un dito su di lui. –
− Oh... ok. –
Supero la porta.
− Comprategli qualcosa per lavarsi. –
− Qualcosa per lavarsi? –
Sorrido fra me e me, mi giro di tre quarti verso gli scagnozzi completamente confusi, piego la testa e rubo un'altra occhiatina al corpo così piccolo di Hinata Shōyō per terra sul cemento freddo.
− Comprategli uno shampoo all'arancia. –
− Dove lo... −
− Andate al supermercato e comprate uno shampoo all'arancia. È una direttiva difficile da seguire? Mi sembra di parlare una lingua che capite, qual è il problema? –
S'irrigidiscono entrambi.
Forse è vero che sono antipatico.
− Comprategli un cazzo di shampoo all'arancia. –
Mi rigiro verso l'auto.
− Se i suoi capelli non sanno di arancia la prossima volta che lo vedo m'incazzo. –
− Capito. –
− Perfetto. –
Me ne vado senza dire un'altra parola.
"Sei anche maleducato. E cattivo".
Mi ritrovo a ridere fra me e me.
Oh, Hinata Shōyō, non sai quanto.
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