60. Tornare all'uno


Premessa importantissima: come avrete potuto intuire dal divisorio precedente, ovvero "Finale", Litlaus è appena entrata nel suo arco narrativo conclusivo. I due capitoli e l'epilogo che seguiranno saranno perciò ambientati nel secondo tempo narrato, ovvero il 2013.

Qui di seguito vi lascio appuntati i numeri dei capitoli in cui ricorrono Lór e Audrine, semmai voleste tornare indietro a dare una sbirciata ಥ‿ಥ

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Buona lettura!

6 aprile 2013
Saint-Médard-en-Jalles
16:15

"Il due dicembre duemila undici m'imbarcavo sull'aereo che mi avrebbe portata qui. Il ventinove novembre consegnavo un bigliettino con la data dettami da Dísella alla professoressa Stewart" la paziente distese le gambe e l'orlo della gonna si accorciò fino a lasciarle le ginocchia scoperte. "Il ventisette dello stesso mese riempivo le valigie con mia madre e salutavo mia nonna. Questo mi rimane di quei giorni. Nient'altro, nessun altro".

Audrine focalizzò la sua attenzione sul registratore per accertarsi fosse ancora acceso. Il lampeggiare della spia rossa la stregò momentaneamente. "Pensavi che Paskúm ti avrebbe presa?" domandò, la voce ridotta a un misero sussurro.

"La rettrice non mi prenderà mai. Ha i giorni contati: presto pagherà per aver vestito gli abiti di Paskúm, oramai è questione di settimane e anche lei lo sa".

"Benóný Hólmsdóttir è solo una delle tante facce di Paskúm?"

"La principale e la creatrice. Benóný ha però scelto di sua spontanea volontà di essere una creditrice dell'Hallormstaðarskógur. Ma l'Albero non ha risposto ai sacrifici, come è facile intuire. Ragion per cui dovrà presto consegnare le sue gambe, la sua testa, le sue braccia e il suo torso. Solo così il debito che ha contratto verrà saldato e la foresta avrà di nuovo qualcosa da conservare. È una regola dell'Albero e le regole vanno rispettate".

Regole. Anche a Morte servono regole ben precise per continuare a esistere. Audrine, dal basso della sua accertata umanità, lo sapeva fin troppo bene; Lóreley pure, ma lo metabolizzava in maniera differente, distorta, capovolta. Per molti, anche il solo accettare i precetti dettati dalla morte era disgustosamente necessario ed eccessivamente doloroso. Ma, a differenza della sua paziente, ogni uomo aveva il permesso di celebrare la morte secondo una propria e personale visione: rifiutare Morte, cercare Morte, adorare Morte, scansarla, evitarla; tutti, in quanto umani, potevano scegliere come, quando e perché temerla. O reclamarla.

Lór, che da un anno e mezzo viveva in bilico tra le due realtà, no. Vivere per conto di Morte non doveva essere un compito alla portata di tutti. La dote in suo possesso poteva considerarla un dono, un regalo che, prima di essere accettato e scartato, portava però con sé una miriade di controindicazioni e regole, per l'appunto. La prima di queste era il non poter tornare sui propri passi.

Consapevolmente, Bodvár aveva compiuto un passo indietro più di cento anni prima. Perché aveva amato, perché aveva generato, perché si era aggrappato alla Vita quando era invece giunto il momento di abbracciare Morte. Ora, Lóreley era tenuta a compierne altri dieci in avanti per porre rimedio alle sue debolezze. Ai suoi desideri.

Vivere, amare, generare, invecchiare... e apparentemente mai morire.

"Tu".

"Umh?"

Audrine allungò una mano verso il registratore e lo spense con fare deciso.

"Tu, cosa vuoi esattamente? Cosa desideri?"

Lóreley non batté ciglio. "Non capisco, dottoressa".

"Mi hai raccontato di quello che Testa di Cervo ha desiderato e desidera. Mi hai raccontato di tutto ciò che lo riguarda, che riguarda il vostro legame, ma non di te. Che cosa vuole, quindi, Lóreley Dubois?"

Due fossette d'espressione bucarono gli angoli della bocca di Lór, accentuando un piccolo sorriso. Un sorriso sentito e sofferto, di quelli che sfoggi quando sai che puoi ancora opporti, che tutto andrà per il meglio, che niente è più in bilico e le certezze sono più reali che mai.

Ma veloce com'era comparso, sparì subito dopo.

"Io? Oh. Io vorrei tornare a casa per Natale, come le ha detto mio padre. Vorrei mangiare l'alesuppe di nonna Danielle e stare con lo zio. Ma non posso. Non posso più stare da nessuna parte".

Detto questo, Lór si alzò in piedi e raggiunse l'appendiabiti. Spiazzata dalla velocità con cui aveva compiuto quell'azione, Audrine si affrettò ad affiancarla per impedirle di andare via. Neanche si era resa conto di aver cominciato a boccheggiare.

"Lóreley, sei ancora giovane, sei giovanissima e puoi stare dove vuoi" la dottoressa le bloccò un braccio, il sinistro, quello che aveva appena infilato nella manica del cappotto grigio. "Tutti apparteniamo a qualche posto. Bisogna solo capire qual è, no? Giusto?"

Lóreley guardò la mano della donna salire dolcemente dall'avambraccio fino alla guancia, in un gesto che sapeva di conforto. Che sapeva di materno.

L'ultima volta che Anaïs l'aveva toccata in quel modo, in Islanda le giornate si stavano accorciando un mozzico di buio alla volta e lei era scappata nel centro dell'Europa alla ricerca del sole. L'ultima volta che Anaïs l'aveva accarezzata in quel modo, Lór aveva scelto di non tornare. Di non ferirla più.

"Torna a parlare con me, Lóreley. Ti aiuterò a trovare quel posto".

Lór non esitò - non c'era più tempo per esitare. Lasciò che la giacca le penzolasse su un fianco e, con un gesto fulmineo, poggiò l'indice dispiegato sulla fronte di Audrine.

L'altra non capì, eppure non si scostò.

"Grazie per avermi ascoltata, le sono infinitamente grata di questo. Non smetta mai di ascoltare le paure delle persone".

Accavallò l'indice e il pollice e le diede una schicchera nel mezzo delle sopracciglia.

"Svart".

Audrine tentò un'ultima volta di capire, eppure non ci riuscì. Gli occhi si ribaltarono all'indietro e lei cadde a terra come una mela troppo matura casca dal suo albero. Lór finì di rivestirsi in silenzio e, recuperato il registratore e la ricevuta sul tavolino, uscì dall'ufficio come se nulla fosse.

Sperò che Audrine, al suo risveglio, non avesse avuto troppo mal di testa.

Non smette di torturarsi le mani e la camicia di flanella le si appiccica al petto ad ogni nuovo respiro. La detesta da morire, ma è l'unico indumento di colore nero che ha nell'armadio - il giallo, pensa, mi sarebbe stato meglio, come dice la nonna.

Vorrebbe torturarsi le mani per scaricare la tensione, ma non può. Il tessuto della gonna che ha indosso è talmente leggero da permettere al freddo di ghiacciargli le membra dal bacino in giù. Indossarla gli piace, certo, ma solo quando è in casa, al caldo, davanti al camino e soprattutto quando non c'è nessuno a guardarlo. Gli piace indossarla solo quando sa di poterlo fare in totale libertà, senza dover chiedere il permesso.
Senza essere obbligato a essere quello che non è.

Anaïs le sta accanto, la mano sinistra è saldamente poggiata sulla sua spalla. La signora Edda è di schiena, non le ha sentite arrivare. Sta parlando con dei vicini da una decina di minuti circa. Anche se ridotta a un bisbiglio, Lór ode l'incrinarsi della sua voce ogni volta che pronuncia il suo nome, avverte i singhiozzi che la scuotono nel dire grazie a chi si avvicina per porgerle le condoglianze. Ovviamente non sorride. Non più.

La Terza continua a parlargli, ma lui non ascolta. Preferisce sentire lo stretto indispensabile, quando lei è arrabbiata. Perché Marsý quando è arrabbiata balbetta, si agita per un nonnulla e non gli lascia il tempo di capire, carburare e assimilare tutte quelle stupide nozioni. Perciò rimane in silenzio e si impone di annuire ogni volta che sente sia il momento giusto per farlo.

Al momento opportuno, Anaïs avanza e Lór anche. La signora Edda le da un pizzicotto sulla guancia appena è abbastanza vicina e... le chiacchiere di circostanza continuano senza sosta. Proprio dietro di lei, la bara preparata per la veglia di quel sabato è aperta. Lóreley non si azzarda ad alzarsi sulle punte per sbirciarne il contenuto, ma gli occhi rotolano verso l'alto per ispezionare il viso Anaïs. Sua madre parla ancora della pipì a letto, del sopralluogo del luglio scorso, delle vacanze di Natale che vorrebbe fare in Europa per festeggiare la sua promozione. Edda annuisce di continuo, fa qualche appunto sulle nevicate dei giorni precedenti, si gratta il collo, si soffia il naso spellato, ritorna a parlare del cattivo tempo.

Marsý si avvicina mentre gli agita il dito contro.

Lóreley non capisce. La mano di Anaïs sulla sua spalla non è più un invito a stare ferma e buona, ma un'imposizione - più i secondi passano, più le sue unghie si ficcano nella carne per obbligarla a non allontanarsi, come se quanto accaduto a Ìan potesse succedere a lei adesso, in quel preciso momento, davanti a tutti. Ed è questo il motivo che fa tanto piangere la signora Edda. Piange e parla di cose inutili perché non ha stretto abbastanza forte suo figlio.

Bodvár rimane composto e incassa lo schiaffo che gli fa scattare la testa di lato. Respira forte dalle narici per far uscire il grumo che gli ottura quella di destra. Quando il sangue fluisce via e arriva a macchiargli il mento, Marsý solleva un ago, il quinto. Ma a Bodvár non interessa, è tuttora distratto. Se si distrae, non pensa al dolore. Non pensa agli aghi. Non pensa a sua madre. Non pensa all'Albero. Se si distrae, non pensa e basta. Allora lascia che la neve nella radura gli riempia gli occhi di bianco e arrivi a gelargli pure l'anima.
Ed è lì che realizza una cosa importantissima.

Lór contrae la mandibola per tenere a bada il dolore.

Bodvár sorride quando l'ago gli buca il fianco.

Lór non sa cosa significhi morire. Ma lo teme, lo teme più di ogni altra cosa al mondo.

Bodvár sa cosa significhi morire e non ha paura. Perciò desidera disubbidire e deridere i capricci di Morte. Sa già cosa fare; è semplicissimo e immediato: vivendo.
Per sempre.
E lo farà.
Vivrà mille vite, le une diverse dalle altre, e non morirà.
Perché lui non teme Morte - sarà la Morte a dover temere lui.
Dovesse cascare il mondo, ci riuscirà a tutti i costi.
Dovesse arrivare a...

Distruggerlo, quel cazzo di mondo.
Distruggerlo e poi ricomporlo con le sue stesse mani.

Dovessero volerci dieci, venti, cinquant'anni.
Cento.

Sarà l'inizio di una nuova storia, senza né suppliche né desideri.
Sarà inizio e mai fine.

Grazie a lei.





Lóreley si strofinò le orecchie per attutire il fischio che si stava propagando al loro interno. Quando se le sentì andare a fuoco, smise. Si trascinò sulle scale che conducevano al porticato senza mai alzare gli occhi davanti a sé.

Con un gesto meccanico recuperò le chiavi dal vaso di peonie che le oscillava vicino alla testa, le infilò nella toppa ed entrò. In casa non c'era anima viva. Berenice e Marcel erano fuori per le visite di routine del vecchio. Dal micro ictus accusato sei mesi prima, suo padre aveva cominciato a perdere colpi. Faticava a stare in piedi, scordava date, bollette da pagare, numeri di telefono e a volte anche le parole, i costrutti grammaticali. Stava male, sempre più male. Ma Lór aveva scelto di restargli accanto per quanto più tempo possibile - per quanto di tempo, in realtà, non ce ne fosse più. Non per lei.

Tolse il cappotto e lo lasciò cadere a terra. S'infilò nel corridoio in penombra e raggiunse il salotto che premeva la mano sulla parete per aiutarsi a camminare. Si fermò nel centro della stanza, si guardò le scarpe sporche di fango, le calze fradicie e la gonna spiegazzata da acqua e vento. Raggelò quando una vampata di calore le esplose in petto, accorciandole d'improvviso il fiato. Un attimo ancora e le gambe cedettero sotto il suo stesso peso.

Cadde in ginocchio, il respiro mozzato e la vista chiazzata da fastidiose bollicine bianche. Restò ferma, persa in una sorta di contemplazione verso sé stessa, verso il suo corpo. O meglio: verso quel che stava rimanendo di esso. Voltò i palmi verso l'alto, tremolanti come foglie intrappolate in turbini di vento, e si capacitò di essere... stanca. Non ce la faceva più.

Se si fosse spinta ancora un po' più in là, nel vano tentativo di contenerlo ancora per un poco, sarebbe morta.

Ma non glielo avrebbe permesso.

Lui non le avrebbe permesso di morire, come gli era stato promesso se avesse capito che...

Lór fece una smorfia. Un'altra bomba di calore le esplose nello sterno e lei serrò la mandibola per trattenere un lamento. La spire di possessione che adesso le occupava il corpo per intero riprese a vibrare e strisciarle sulla pelle, come a reagire agli impulsi dati da una scarica elettrica. Nera come la morte, viscida e sinuosa come un serpente che sa di avere in pugno la sua preda.

Bodvár la stava infine invadendo e lei non sapeva come fare a fermarlo.

Chiuse entrambi i pugni e sfogò il dolore in un sospiro pesante.

"Ci stiamo mischiando".

Era inevitabile.

"No" rispose lei di getto. "No, non lo era".

Continui a richiamare a te la dote. Continui a voler affondare, sempre di più, e il tuo corpo sta perendo dallo sforzo. Era, ti dico, inevitabile. Perché non hai mai smesso di dubitare di me.

"Perché tu mi hai mentito".

Tu non hai ascoltato.

"Tu non hai ascoltato me. Tu ascolti sempre e solo te stesso. Lo hai fatto da vivo e continui a farlo anche da morto. Ma non puoi punirmi per aver messo in discussione le tue parole. Le tue bugie sono anche le mie, ricordatelo".

Prima o poi avresti comunque compreso la mia vera natura. Non volevo che accadesse, ma è stato necessario tu vedessi.

Lóreley tacque. Si voltò a guardare la collezione di whisky di suo padre, gelosamente custodita nella vetrina che occupava tutta la parete di destra. Si morse la lingua nello scoprire che il contenuto del Port Ellen, la terza bottiglia a partire dal centro, sfiorava a malapena l'etichetta.

"Tu sei solo un parassita. Ecco cosa sei".

Bodvár abbandonò le viscere della sua testa per trasmutarsi davanti a lei come l'essere umano che era stato un tempo. Lóreley non alzò gli occhi per guardarlo in volto.

"Non ti ho mai nascosto di esserlo. Nonostante questo hai comunque desiderato un ritorno all'uno. Ti ho raccontato la mia storia affinché tu potessi capire quanto mi è stato negato e il perché di questa mia condizione".

Lór assottigliò lo sguardo e un brandello di spire le si raggrumò sulla guancia, provocandole una fastidiosissima fitta alla tempia. "Mi avevi detto di voler sparire una volta e per sempre. Mi avevi detto che sarei dovuta andarci io all'Albero, mi avevi detto di trovare il tuo corpo e bruciarlo per renderti libero" dichiarò e, d'istinto, si concentrò sull'immagine riflessa nella vetrina - la sua. "Ma tu non vuoi morire".

"Morte voleva esser madre e l'ha fatto. Non vedo sostanziali differenze".

"Ti sei preso gioco di me, delle mie debolezze. Hai fatto leva sul nostro legame affinché ti concedessi il mio corpo per camminare libero sulla terra".

"No" la interruppe, lapidario. "Certo che no. Io ti ho offerto qualcosa di più, sempre. Io ti ho dato speranza, conforto, unione. Io ti ho dato tutto quando non avevo più niente. Io ti ho permesso di vivere quando era invece giunto il tempo di morire".

Sparì e si ricompose alle sue spalle. Lóreley, ancora una volta, non si mosse. Era tutto inutile.

Se per anni aveva sofferto all'idea di aver perso una parte fondamentale del suo essere nelle più oscure profondità cosmiche, ora la verità era ben diversa. Non era Bodvár a essere una minuscola parte di Lóreley come aveva sempre creduto, ma Lóreley di Bodvár. Era lei a rivestire il ruolo di tassello insignificante, ma prezioso e indispensabile: quello che conservava, legato all'anima da chissà quale stregoneria o scelta del destino, la dote della vǫlva.

E Bodvár l'avrebbe trascinata all'Inferno con lui e per lui, se necessario. L'avrebbe immolata in nome di un desiderio apparentemente impossibile, ma tuttora fattibile.

L'avrebbe e stava per condannarla a qualcosa di peggiore della morte stessa.

Da carne a ombra in un istante.

"Quando eri una bambina ti ho promesso che ti avrei reso grande e forte come una montagna. Lascia che lo faccia".

Dal cielo scaturì un bagliore bianco. Sopraggiunse immediato un tuono e lo scrosciare dell'acqua coprì la mancata risposta di Lóreley. Allora la possessione avanzò ancora, distorcendosi e infittendosi sulla carne di lei, e due linee rosse tracciarono le distanze tra naso e mento poco dopo.

Un mezzo lamento le scappò dalla bocca quando parlò. "Io ti ho promesso altro, un anno e mezzo fa, davanti la tua Tomba".

Un fremito che distorce la realtà. Un secondo lampo vicino e il Bodvár umano tornò a essere voce nella sua mente. Gli occhi di Lór si fecero piccoli e umidi - non di lacrime.

Di sangue.

Non ci ucciderai. Non lo farai.

I moti di calore crebbero a dismisura, il dolore le annebbiò la mente e compromise la sua già precaria lucidità. Lór oscillò un poco sulla schiena, ormai allo stremo delle forze anche per restare dritta, eppure si impose di non cascare a faccia in avanti. Continuò a specchiarsi, inerte, alla distratta ricerca di sé stessa. Ma non c'era più niente di umano in quel riflesso.

"Tu non decidi nulla" sputò lei in un mormorio. Adesso se lo sentiva muovere dentro, espandersi ed esplodere come farebbe una malattia incurabile.

Sei qui perché sono stato io a deciderlo.

"Io sono qui perché... perché è stata mia madre a deciderlo".

Sei qui perché io ho scelto di vivere.

"Tu non puoi vivere, Bodvár".

Le palpebre vennero giù, l'udito si ovattò e il sapore metallico che le aveva contaminato la bocca sparì.

"Tu sei morto, non puoi vivere".

Con l'eco di quelle ultime parole dette, Lóreley si abbandonò sul fianco destro. Un dolore indescrivibile, la sensazione di perdersi e mai di ricomporsi. Il rumore di una cucitura che si rompe.


Vuoto.


È inizio e non è fine.

Io vivo.

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