51. Le tue bugie sono anche le mie (pt.1)


Non parlare. Pensa - le ricordò Dísella, spalancando un po' troppo la bocca nel dirlo. L'orribile colatura di pelle che aveva sotto l'occhio sinistro si estese, tirando verso il basso una buona porzione di guancia. - Pensa e lui ascolta. Anche se dorme.

Lóreley non rispose e la nostalgia l'assalì subito dopo. Si limitò a fare un altro cenno di assenso, mentre gli occhi correvano nuovamente sul monolite e si piantavano proprio nel mezzo, nella spirale di rovi e cristalli che cullava il cranio d'animale. Si soffermò a scrutare l'interno delle orbite vuote, scavate nell'osso, in una distratta ricerca di se stessa.

Perché la sua vita era un continuo e nauseante susseguirsi di coincidenze?

La tomba sarebbe potuta appartenere a chiunque, ma Lór sapeva che non era così. Perciò attese il manifestarsi di una risposta alla sua domanda - un sì, sono qui, sono sempre stato qui sarebbe stato più che gradito, date le circostanze. L'importante, al momento, era che Bo' comunicasse con lei, che la rassicurasse, che le dicesse con tono sarcastico di averlo svegliato in un mondo dove i morti non dormivano affatto.

Si trattenne dall'allungare una mano e toccare quella che a momenti le sfiorava il petto vuoto. Inconsciamente si diede della cretina per il desiderio misto a repulsione che le stavano annebbiando la ragione. Aveva seguito Dísella nelle profondità del Litlaus correndo un rischio madornale ed era stata una stupida. Stupida e ingenua, come una bambina che cammina sola nel mondo per la prima volta.

Ed effettivamente lo era; lo era sempre stata.

Quando Bo' era riaffiorato dal nulla dopo anni di latitanza, portandosi dietro una raccolta di ricordi tanto ingombranti quanto dolorosi da leggerle, Lóreley si era tappata le orecchie pur di non starlo ad ascoltare. Capitolo dopo capitolo, parola dopo parola, aveva infine deciso d'interromperlo sulla metà di tutto. E di riflesso, come a vendicarsi, lo aveva sporcato della sua rabbia, forzandolo a scrivere insieme il triste resoconto della scomparsa di Ían.

Ma i traumi non erano prerogative dei morti e Testa di Cervo ne era stato immune fin dall'inizio. Quindi, il pacchetto colpe apparteneva, in egual misura, un po' all'uno e un po' all'altra: su un punto di vista umano, era maledettamente sbagliato ciò che lui aveva fatto a lei e viceversa. Universalmente parlando, invece, tutti e due erano sbagliati, inconciliabili per ovvie ragioni. Il loro continuo cercarsi, respingersi e riacchiapparsi aveva i passi di danza, la musica e la coordinazione di un ballo mortale e immorale.

Perché se lei era giunta proprio lì non era stato per volere del caso. Perché, in un modo o nell'altro, Testa di Cervo sembrava aver controllo su ogni aspetto della sua vita. Perché le aveva lasciato intendere di essere destinati al raggiungimento di uno scopo comune.

Perché lui era morto da centovent'anni, e lei viveva a stento da venti. Perché Bo' abitava il Litlaus, mentre Lór apparteneva di diritto alla realtà terrena.

Perché Bodvár l'aveva esposta a un mondo pericolosamente letale e fatto dono degli occhi della morte in nome di...

Nulla. Niente di cui lei fosse veramente a conoscenza.

Questo continuava a farla desistere, anche ora che avevano l'occasione di tornare a essere completi. Era questo il motivo che le scatenava dentro al cuore scintille di avversione, di paura, di sospetto - scintille che, prima o poi, sarebbero esplose in fiamme impossibili da domare.

La scelta di aizzare o estinguere sul nascere quell'incendio spettava solo e soltanto a lei.

Sapere o scegliere di non sapere. Trovarsi o perdersi in maniera definitiva. Chiudere per sempre gli occhi oppure continuare a scandagliare il buio senza più avere timore.

Essere di nuovo uno, come un cane fatto di carne e un'ombra impressa sul muro.

Ti ho incolpato di così tante cose che, figurati, neanche riesco a ricordarle tutte, pensò lei, ti detesto perché non capendo le tue intenzioni, non riesco mai a capire me. Non capisco cosa voglio, cosa desidero, ed è frustrante. Perché tu sai meglio di chiunque altro quanto io abbia bisogno di te.

Lóreley guardò le dita immobili che la cercavano, contratte in un gesto sofferente. Un capello era attorcigliato attorno al pollice; grigio nel Litlaus, biondo dall'altra parte.

Tempo fa mi hai chiesto di cercarti e compiere la mia scelta. Niente mi distoglierà mai dall'idea che tu abbia programmato tutto questo, perché è così, è palese e non provare a mentirmi. Le tue bugie sono anche le mie. Perciò, prima di darti il mio responso, voglio elencarti le mie richieste.

Dísella incantò il capo di lato intanto che Lór pizzicava l'estremità del capello.

Rendimi grande e forte come una montagna, come mi hai promesso quando ero bambina. Dimmi ogni cosa e non nascondermi più nulla. Basta segreti. Basta partenze. Rimani, te lo permetto. Me lo permetto.

In un movimento circolare e ripetitivo, sfilò via il premio che aveva soddisfatto il patto con Radice. Lo tenne stretto tra i polpastrelli per qualche secondo, poi lo lasciò andare. Il capello svolazzò in aria prima di essere assorbito dal pantano ai suoi piedi.

Spiegami cosa siamo e perché lo siamo e giuro, ti giuro...

Lóreley sorrise. C'era quasi.

"... Che non mi ucciderò per uccidere te" mormorò infine, racchiudendo l'indice cristallizzato di Bodvár nelle sue mani.

Non poteva più tornare indietro.

Lór rafforzò la presa e ispirò forte dalle narici, più per abitudine che per reale necessità. Come volevasi dimostrare le parve di toccare una bolla fatta di niente. Dopodiché, facendo leva sui piedi, tirò più forte che poté non appena una manciata di rami furono attraversati da un lieve spasmo, simile a un tenue battito cardiaco.

Strattonò una seconda, una terza, una quarta volta, scansando l'ennesimo quesito universale sulle dinamiche vigenti nel Litlaus - esisteva il concetto di forza fisica, lì dentro?

In un batter d'occhio, gli spasmi si tramutarono in tremori sconnessi e il legno nero di cui era fatta la tomba fu presto tempestato da profonde crepe. L'una dopo l'altra, in un triste susseguirsi impossibile da arrestare, le radici caddero in frantumi nella melma densa.

Lóreley intrecciò le dita attorno al polso di Bodvár e tirò un'ultima volta prima di strizzare gli occhi e decidere di tenerli ben chiusi. D'un tratto, il coraggio di restare a guardare le era venuto a mancare. Non voleva vedere cosa aveva riesumato. Non voleva credere di aver profanato una maledettissima tomba fatta di rovi in un dannatissimo limbo di anime morenti. Se avesse potuto ridere e piangere al contempo per scaricare tutta la tensione accumulata, lo avrebbe fatto a squarciagola, fottendosene di tutto.

Ma Lór non rise e non pianse. Con ancora il corpo teso all'indietro e in bilico sui talloni, aprì un occhio per sbirciare.

Chiudilo.

Lo fece, mentre la tranquillità tornava a contaminarla per intero, lenta e costante come una guarigione desiderata dopo aver vissuto una lunga malattia. La palla d'aria che aveva compresso tra i palmi scoppiò, e l'assenza di un appiglio la rese instabile. Una pressione all'altezza delle spalle l'accompagnò nella caduta, ma non si oppose. Per un momento le sembrò di galleggiare in un mare di niente.

Nel disperdersi e nel ricomporsi, ricordò dei giochi fatti nell'infanzia con Marcel. Ricordò la sua camera a Saint-Médard, la parete bianca ridipinta da pochissimo, la consistenza del lenzuolo tirato sopra il naso e il cane d'ombra intessuto nella luce.

Finalmente era entrambe le cose.

E capì di essere Lóreley Anaïssdóttir-Dubois tanto quanto lo era Bodvár Løvenfeldt.

... Continua

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