44. Tu sai chi sono io?
Dove hanno messo la mia testa?
Dove hanno messo la mia testa?
Lóreley?
Dove?
Dove, Lóreley?
Dove? Dove l'hanno messa?
Lóreley?
Dove hanno messo la mia testa?
Lóreley...
Lóreley!
A fatica riaprì gli occhi umidicci. Qualche secondo ancora di puro smarrimento mentale e tutto tornò ad essere effettivamente reale attorno-sotto-accanto a lei: l'abat-jour sul comodino di Ber era accesa, sopra di lei c'era il soffitto, aveva una mano premuta sulla bocca e la sgradevole sensazione di riarso le infuocava la gola.
Aggrottò le sopracciglia nell'incrociare lo sguardo preoccupato dell'amica e un singhiozzo involontario le scosse il petto subito dopo. Doveva aver pianto molto, nel sonno, le guance che le pizzicavano a più non posso ne erano la prova inconfutabile. Ber, invece, si decise ad allentare la presa e a tornare in piedi sul fianco del letto, un po' tremante e col fiatone.
Lór puntellò i gomiti sulle lenzuola sfatte e a stento tentò di tirarsi su a sedere. Bergljót continuò a fissarla senza neanche dire una parola, improvvisamente piccola nel pigiama rosso e visibilmente sconvolta. Coinvolta.
"Cos'è successo?" chiese Lór e un secondo singhiozzo si mischiò a uno sbadiglio.
"Stavi urlando".
"Stavo urlando?"
Bergljót tornò a farsi scudo col silenzio. Poi spostò gli occhi sulle lenzuola del letto di Lóreley, altezza bacino, dove una grossa macchia scura stava proprio nel mezzo. Aizzata dalla paura aveva tirato via il piumone con uno strattone, lanciandolo alle sue spalle e ammucchiandolo con un calcio sulla scrivania. Il pavimento della camera era un tappeto deforme fatto di fogli, attrezzi da incisione ed evidenziatori.
Lóreley, che ancora si sforzava di capire quanto era appena successo, si guardò le cosce, imitando Ber.
L'incubo si manifestò frammentato tra i suoi ricordi e, con esso, un brivido carico di disagio l'attraversò per intero, costringendola a serrare la mascella pur di non emettere un singolo suono.
Le coperte erano bagnate.
Acqua e detersivo si miscelavano nel cestello da un buon quarto d'ora, Lóreley fissava l'oblò da altrettanto tempo. Di tanto in tanto si torturava l'unghia del mignolo con i canini, ormai bella che andata come le rimanenti nove, e nervosamente scuoteva le gambe che le ciondolavano nel vuoto. Non si azzardò ad abbassare gli occhi neanche per un istante, ma sapeva di avere una scarpa slacciata, la sinistra.
Tornare in camera senza rischiare di inciampare nei suoi stessi piedi sarebbe stata un'impresa titanica. Per scacciare quel pensiero e la futura gogna pubblica a cui sarebbe stata sottoposta, scosse la testa per spostarsi un ciuffo di capelli che le solleticava la punta del naso. Nello stesso istante si attivò un altoparlante, gracchiando prima di un annuncio. Un jingle lungo qualche secondo informò gli studenti che l'apertura della mensa ci sarebbe stata di lì a poco.
Il suo stomaco fece un doppio carpiato nella pancia e il cestello della lavatrice smise di ruotare su se stesso. Ciò non accadde per il fastidio e l'imbarazzo che le vorticavano attorno da tutta la mattina.
Quando aveva messo piede fuori dalla sua stanza, dopo che Ber l'aveva aiutata a mettere le scarpe e a legare i capelli, le inquiline che occupavano quella antecedente le avevano rivolto uno sguardo smanioso e irritato. Una delle due, una certa Ada del corso di Economia, le aveva poi fatto il verso dietro mentre si allontanava, vociando senza ritegno che mi toccherà comprare dei tappi per le orecchie per dormire bene.
Lóreley non si era voltata manco per sbaglio e camminando col capo incassato nelle spalle si era stretta la sacca mezza vuota al petto, aveva vegetato per qualche attimo davanti il distributore degli snack al piano terra, poi aveva ingoiato l'ennesimo attacco di nausea. Infine si era diretta in lavanderia reprimendo un sospiro e, a malincuore, aveva capito di aver toccato il fondo quando una grandissima consapevolezza le aveva fatto breccia nel cervello.
La cosa le stava sfuggendo di mano e il fatto che si fosse involontariamente pisciata addosso durante l'incubo era sintomatico del fatto che, a momenti, non avrebbe più potuto avere il controllo sul suo corpo. D'altronde e ad aggravare la situazione, ricordava poco e niente su ciò che la presenza aveva voluto comunicarle – il suo viso in primis, anche se ce l'aveva avuto stretto tra i palmi... staccato dal resto del corpo.
Era riuscita a conservare ben poche informazioni che, senza ragione apparente, si erano miscelate al suo vissuto, disorientandola: un pappagallo con i bottoni appuntati al posto degli occhi, un collier fatto di perle di sangue, la signora Edda sull'uscio di casa sua, la traversina asciutta, la tuta blu di sua madre, tredici anni di danza classica, il disperato bisogno di trovare una testa e un paio di occhi verdi. Nient'altro.
Il cestello ricominciò a girare, l'altoparlante si attivò nuovamente; stavolta il jingle fu più squillante e una voce pre-registrata annunciò l'effettivo inizio della pausa pranzo.
Lóreley smise di mordicchiarsi l'unghia. Si portò entrambe le mani sui fianchi, la destra coperta da un guanto di lana senza dita. Non aveva avuto il coraggio di vedere quanto in là si era spinta la futura possessione, limitandosi a infilarlo mentre guardava da un'altra parte. Non ce l'aveva fatta, come non ce l'aveva fatta a rassicurare Ber.
I fatti parlavano chiaro, la ramanzina di Johanna pure: doveva tenere duro ancora per un po' e continuare sperare -pregare- che la simbiosi non raggiungesse il suo culmine tanto facilmente. Ma cos'altro avrebbe potuto fare durante tutto il processo? Assecondare lo spettro, forse? Limitarsi ad ascoltarlo facendo dei passi indietro ogni qualvolta si avvicinava troppo, oppure smettere di opporre resistenza?
Sostenerlo o evitarlo?
Aspettare o reagire?
E se, nella più remota dell'ipotesi, fosse già troppo tardi per tornare indietro?
Lór cominciò così a torturarsi l'unghia dell'indice, cercando di fare mente locale. Il primo passo sarebbe stato il più concreto: doveva innanzitutto scindere il suo essere Lóreley Dubois dalla contaminazione emotiva e passata dello spettro, era più che logico. Aveva perciò alla sua mercé delle pupille verdi, il peluche di un pappagallo, l'ossessiva adorazione per una canzone dei No Doubt, un rifiuto latente per qualsiasi cosa commestibile sulla faccia della terra che non fosse la vinarterta, una manciata d'anni di danza, l'essere mancina, ridere alle freddure, un loop di azioni senza senso apparente –castigarsi le unghie, toccarsi i lobi, da che lato del letto scendere– e una morte che doveva esser stata orribile.
Cos'altro mancava all'appello?
Se quel diciannove ottobre si fosse rifiutata di...
Oh.
Oh-oh.
Lór si fiondò fuori dalla lavanderia che aveva il respiro bloccato in gola e le gambe le tremavano a più non posso. Attraversò tutto l'atrio di corsa, attirando su di sé una marmaglia di mormorii e risatine, ma l'ansia ebbe il potere di risvegliare il suo menefreghismo latente. Nelle sue orecchie si fece largo un suono basso e vibrante, simile a un fischio distorto, fintanto che in lei sbocciava l'ennesima e sbagliatissima consapevolezza del...
Se si tratta di un'altra coincidenza giuro che strillo, si ripeteva senza smettere di correre, se si tratta di un'altra coincidenza giuro che strillo e mi faccio internare da qualche parte.
S'infilò nel cordone di studenti in attesa davanti alla mensa, schiacciando piedi e sgomitando a più non posso per aprirsi un varco, e una volta dentro passò in rassegna tutti i visi dei presenti.
Non era lì.
Soppresse un'imprecazione e fece subito dietro-front, beccandosi una serie di manate in faccia e tanti di quegli insulti come mai li aveva ricevuti in vita sua. Pazienza: la sua reputazione aveva smesso di essere tale il giorno della sua stessa entrata in università. O forse non ce l'aveva mai avuta.
Ritornò sui suoi passi senza smettere di correre; superò la lavanderia che rischiava di stramazzare a terra per lo sforzo, quasi inciampò davanti la segreteria per colpa dei lacci sciolti. Quando fu a un passo dalla biblioteca, lo vide passare il tesserino sulla terza entrata, l'immancabile Eastpak accasciato sulla schiena.
Lóreley, adesso, aveva il cervello ridotto in pappa e il sentore di star facendo una boiata era più onnipresente che mai, ciò nonostante non si azzardò a mollare la supposizione campata per aria che l'aveva condotta fino a lì. Lo affiancò in tempo, rimanendo impicciata nel secondo sportello, la sbarra di metallo che si era chiusa sulla sua pancia con l'entrata di una ragazza riccia, la stessa che aveva riso della sua goffaggine proprio in biblioteca.
Gaël lasciò il tesserino sospeso a mezz'aria. Tempo di una sfarfallata di ciglia e riconobbe la mano che lo tratteneva per la cinghia scucita dello zaino.
Lóreley aveva le guance in fiamme e la voce rotta dalla sforzo. "Dobbiamo parlare" ansimò, mentre cercava di non badare al dolore lancinante che le incendiava i polmoni. "Devo dirti – devo parlarti di una cosa".
"Possiamo... fare dopo pranzo?"
"È - È importante".
"Più importante della mia pausa?"
"Fa' silenzio e ascolta-mi. Forse so cosa è successo il... il diciannove ottobre" boccheggiò lei con insistenza, roteando gli occhi nel vano tentativo di rimanere calma. Un altro commento simile e lo avrebbe pestato davanti a tutti. "È solo una supposizione la mia, ma... dobbiamo parlarne. Subito".
Gaël aggrottò le sopracciglia, poi rimise il tesserino in tasca. Inaspettatamente.
"Se così non fosse mi pagherai il pranzo".
Lóreley fece finta di non aver sentito pur di non scatenare un altro incidente diplomatico non richiesto. Gli s'incamminò dietro che si reggeva il fianco dolorante e quasi le sembrò di toccare il cielo con un dito nel momento in cui trovarono una panchina vuota, lontana da tutto e tutti. L'atrio si era nel frattempo spopolato.
Gaël rimase in piedi, lei si accasciò su se stessa come un palloncino sgonfio. Ora che ce l'aveva davanti non sapeva più da dove cominciare. E se si fosse sbagliata?
"Allora?"
Lór sollevò la testa. Sì, era tornato quello di sempre. La gentilezza che le aveva rifilato al World Class doveva esser stata frutto di un delirio di massa, oppure l'influenza poteva benissimo rientrare come seconda ipotesi. Forse era quello il tallone d'Achille di Gaël... ma per sua sfortuna era tornato ad essere sano come un pesce. Ed era vivo. Troppo vivo. Vivissimo da dare schifo.
Solo quando il fiato corto si fu stabilizzato, Lóreley si decise a parlare, ripromettendosi di non tralasciare nulla.
"Il diciannove ottobre sono entrata nel Litlaus. Ho stretto involontariamente un patto con un Auditore per la questione di Edith" gli spiegò, piegandosi tutta a destra per respirare meglio. Marcò l'involontariamente di proposito, quasi volesse lavarsene le mani a priori. "Non era nei piani di nessuno e non ti starò a spiegare perché è successo che venissi convocata io per il Decanto. In tutti i casi, è accaduto che... che qualcosa mi toccasse, lì dentro. Tu sai cos'è una spire di possessione, no?" e agitò la mano incriminata, coperta dal guanto nero.
Gaël annuì con snervante lentezza. Forse fu questione di un attimo, ma Lór ebbe l'impressione di aver quasi fatto centro.
"Certo che so cos'è".
"Ecco. Qualcosa, qualcuno si è legato a me e adesso sono nella merda fino al collo. Devo scoprire chi è prima che la simbiosi giunga al termine. Ora: non so effettivamente come questa cosa possa avere a che fare con te, insomma, ci accomuna solo il diciannove ottobre, ma voglio provarci comunque".
Due studenti ritardatari li superarono in assoluto silenzio, l'eco dei loro passi che si disperdeva assieme a quel briciolo di speranza che aveva condotto Lór fino a lì.
"Se ti dicessi che mi piace la vinarterta, chi potrebbe venirti in mente?"
"... Circa tre quarti della popolazione islandese".
"Che mangiucchio le unghie?"
"Più o meno tutti quelli che soffrono d'ansia".
"E che sono mancina?"
Lui scosse la testa, allacciandosi le braccia al petto, il vuoto cosmico negli occhi... come se non la stesse realmente guardando. Niente di insolito, insomma: il suo sguardo non esprimeva mai nulla.
"Niente di niente".
Lo sgomento fu tale da costringerla a un silenzio provvisorio, tanto pesante da essere opprimente.
E se mi fossi sbagliata?
Lór chiuse gli occhi, colta da un improvviso malessere interiore, eppure continuò la sua lista senza senso apparente. "Da bambina ho avuto un peluche di nome Coco, un pappagallo tropicale con i bottoni al posto degli occhi. Scendo sempre dal lato destro del letto, rido alle freddure, ho fatto danza per tredici anni, ho gli occhi verdi e..."
Nessuna risposta le giunse alle orecchie e questo la demoralizzò ulteriormente. Ora che ci faceva caso, stava parlando di sé come se fosse lei la presenza indesiderata.
"Mi piace tantissimo una canzone dei No Doubt" tentò un'ultima volta, la voce accartocciata dallo sconforto.
Ancora silenzio.
Ancora quel maledetto silenzio...
"... Don't speak?"
Lór schiuse le palpebre di scatto e lo guardò con aria attonita.
"Sì. Don't speak".
Come se fossero l'uno il riflesso speculare dell'altra, Gaël rispedì al mittente la stessa occhiata. Oh, sì: adesso sì che la guardava.
"Sto... sto cercando la mia testa. Tu sai chi sono io?"
Il ragazzo si portò una mano sulla faccia e non disse più niente.
✖ Nel prossimo capitolo, "Sbagliatissimi e terrorizzati":
"Allora torniamo al punto precedente: perché mai dovrei fidarmi?"
"Perché tempo qualche settimana e io starò col culo in una dimensione parallela farcita di morti e parassiti mentre, qualcuno che tu conosci, avrà la fortuna di godersi la quotidianità di merda di Lóreley Dubois. E sottolineo di merda perché fino a settembre credevo che non ci fosse limite alla mia sfiga" le rispose a tono lei, tutto d'un fiato. "E invece eccomi qui. Eccomi qui a discutere con un falso invalido affetto da manie di protagonismo e a temere di dover lasciare la vita che ho sempre detestato per far posto a qualcun altro. E ho paura".
"Mentirei se ti dicessi che me ne importa qualcosa".
"Ma a quanto pare t'importa di questa persona che è con me".
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