40. Dita nere (pt.1)

Prima di lasciarvi alla lettura di questo capitolo, ci tengo a dirvi che mi spiace se sono sparita per qualche settimana, davvero, mi dispiace davvero tanto. Ma avevo bisogno di stare un po' per i fatti miei e soprattutto a tu per tu con me stessa. Non starò ad ammorbarmi con i miei problemi, ma sappiate che mi siete mancati davvero tanto. Sul serio. Perciò vi giuro che non farò più scherzi simili e che la storia procederà senza intoppi fino alla fine... anche perché questo è un capitolo che getterà altra benzina sul fuoco, perciò state attenti u.u
Vi voglio bene!

Il vecchio cucù a forma di chalet si attivò senza preavviso, scandendo poi nove rintocchi acutissimi, eppure nessuno dei presidianti alla tavola rotonda di casa Østergaard si azzardò a sollevare lo sguardo dalla alesuppe fumante.

Lóreley amava la zuppa di anguille di nonna Danielle -c'erano stati tempi, nella sua infanzia, che avrebbe potuto fare i capricci per ore e ore pur di costringerla a cucinarla- ma adesso, con le guance umide di vapore e le dita serrate attorno al cucchiaio, capì che non era più così. Mangiare la zuppa in famiglia rientrava sotto la specifica voce ritualità, come, d'altro canto, ogni altra piccola e insignificante cosa nella sua vita, tipo le docce interminabili e la sedia accanto al letto: ingozzarsi di alesuppe la faceva sentire un po' meno francese, islandese solo per sentito dire e danese per diritto di nascita. Ma lei neanche sapeva cosa fosse la Danimarca, come poteva esser fatta, chi c'era stato e chi, per anni, l'aveva chiamata casa e successivamente abbandonata per motivi che nessuno mai si sarebbe preso la briga di starle a spiegare. E faceva male.

La feriva. La feriva perché ora che il Litlaus si era manifestato nella sua quotidianità e Testa di cervo pure, capire chi o a cosa fosse destinata era difficile. Omologarsi alla realtà circostante era estenuante, adattarsi allo scorrere degli eventi anche. Scegliere da che parte del mondo pendere, poi, manco a pensarci. Perciò Lóreley Dubois sapeva di essere un po' questo e un po' quello. Un collage di vittimismo, insoddisfazione e orgoglio a palate. Un po' francese, un po' danese e un pizzico islandese.

Un po' viva fuori e un po' morta... dentro.

A quel pensiero, i punti sutura cominciarono a pruderle e un piccolo spasmo le attraversò le dita della mano fasciata. L'attimo seguente le contrasse nuovamente attorno allo stelo della posata e a testa bassa cominciò a mangiare in silenzio. I due alla sua sinistra la seguirono a ruota come fossero dei burattini, tranne lei.

Tranne Anaïs.

Quando la tazza da consommé fu mezza vuota, una domanda inaspettata da parte di quest'ultima la forzò a mandare giù un boccone più viscido degli altri.

"Chi ti ha riaccompagnata a casa?" la donna si pulì la bocca con un tovagliolo nonostante non avesse ancora assaggiato la zuppa. Era l'unica ad avere le gambe accavallate sotto il tavolo e il mento, appuntito come quello di Danielle, era tenuto alto da una sana dose di presunzione materna.

Primo presagio nefasto della serata per Lór: a quanto sembrava aveva avuto modo di scatenare un effetto domino devastante, lo stesso che era stato in bilico per anni fino a quel momento. Ergo: Anaïs non gliela avrebbe mai perdonata quella presa di coscienza avuta nel pomeriggio. Per nulla al mondo. 

Se fossi stata in lei avrei fatto la stessa cosa. Essere madre comporta un sacco di responsabilità... essere figli implica il rispettarle.

La più piccola degli Østergaard la fissò di sbieco. "Un amico" borbottò.

Oh, sì, certo, complimenti, Lór. Adesso sei pure sua amica.

"Il tuo amico deve avere tanti soldi, visto che guida un Cayenne bianco".

"Puoi dirlo forte. Sai, la Fær Øer è fatta per i ricconi".

Anaïs afferrò il suo, di cucchiaio, e cominciò a rigirarselo tra le dita, come se volesse in parte temporeggiare per permettere al suo cervello di intavolare una conversazione che non avesse nulla di accusatorio e aggressivo... in apparenza.

"E chi è il tuo amico, Lór?"

Lóreley alzò le spalle, presa alla sprovvista. "Ah... si chiama... Gaël Elíasson".

Il nome del suddetto doveva segretamente fare riferimento alle parole magiche sim-salà-bim, senza ombra di dubbio; ipotesi vagliata e accertata nel giro di una manciata di secondi: in men che non si dica si era levato, attorno a lei, un trambusto fatto di chiacchiericci, insulti, e sospiri a mezza bocca. Quindi, facendo un veloce calcolo statistico e ripensando all'incontro che avevano avuto quello stesso pomeriggio, Lór poté affermare che... sì, certo che sì. Era ovvio. Gaël possedeva centinaia di migliaia di talenti innati -come apparire in situazioni dalla morale discutibile oppure essere antipatico, saccente e irritante all'occorrenza-, ma in pole position ce ne sarebbe stato sempre e soltanto uno: la cattiva nomina della sua famiglia. E cosa poteva esserci di peggio di questo?

Essere sfigati. Beh, almeno lui non lo è come la sottoscritta...

"Quel bastardo di Elías!"

"Gesù, Bjarni!" vociò Danielle, battendo entrambi i palmi aperti sul tavolo.

Anaïs respirò forte dal naso e agitò il cucchiaio per aria alla stessa maniera di un'arma bianca. Ovviamente verso sua madre. "Per una volta mio fratello ha ragione: che schiattasse nel suo bel villino sulla Baia, quel figlio di puttana patentato. Sono anni che aspettiamo quel famosissimo finanziamento per le ricerche intensive attorno all'Hekla. E invece, guarda un po'... sparito nel nulla. Ancora. Nemmeno c'era al comitato stampa dell'Hekluskógar. Spero tanto che lo rimettano in galera per qualche altra stronzata oltreoceano".

Le labbra di Bjarni si ruppero in una smorfia. "Grazie per riporre così tanta fiducia in me, Anaïs. Come al solito" sibilò, tutto ricurvo sulla sua zuppa. Anche perché, se fosse tornato ritto con uno scatto, avrebbe potuto spaccare l'orologio a cucù con una testata: era così alto che il pendolo a forma di pigna gli spazzolava i capelli.

"Non è colpa mia se li hai presi tu tutti i geni repressi della nostra cazzo di famiglia".

Danielle batté ancora un colpo sulla superficie di legno per zittirla. A Lór parve di stare ad assistere a un litigio tra quattordicenni in piena crisi ormonale, mica una discussione civile tra due vulcanologi. Le riprese della nonna, oltretutto, accentuavano quella patetica realtà.

"Smettila, Anaïs!"

"No, diavolo, smettetela voi due! Ha trentacinque anni, non c'è bisogno che tu lo protegga sempre e comunque, mamma!"

"Smettetela tutti!" Lóreley gridò così forte da graffiarsi la gola. Tutta rossa in viso e con ancora il respiro bloccato nella trachea, scostò la sedia con un colpo d'anca e tornò in piedi. "A me non frega un cazzo di quel che ha fatto suo padre alla vostra equipe di idioti, mi ha solo offerto un passaggio per tornare a casa!"

"Lóreley..." mugugnò Anaïs, cambiando radicalmente espressione. "Datti una calmata, perché per oggi hai detto pure fin troppo" scandì infine col labbro inferiore che tremava a più non posso.

Gli istanti di esitazione crebbero, ma non la forza di reagire. Allora Lór, debole, incassò il colpo senza emettere un fiato -più per quieto vivere che per reale necessità- e per buoni quindici minuti l'unico rumore che confermò la presenza di vita all'interno della cucina fu quello del metallo contro la ceramica.

Finita la cena, degli Østergaard rimase solo il cognome. Danielle si chiuse in camera sua a sfogliare una rivista di bricolage, Lóreley si spalmò sul divano col cuscino premuto sulla testa, Bjarni e Anaïs sparirono entrambi fino a nuovo ordine. Tutti divisi, come da manuale.

La voglia di rimanere a vegetare tra le migliaia di pensieri negativi che le frullavano nella testa fu allettante, ma la sua vescica non sembrò essere della stessa idea. Perciò Lóreley, alla stessa maniera di un fantasma, sgattaiolò al piano di sopra in punta di piedi dopo una buona ora passata a lamentarsi sottovoce, evitando di soffermarsi a guardare le foto che li ritraeva tutti e quattro. Prima che potesse raggiungere il bagno, dei chiacchiericci appena accennati annientarono momentaneamente quell'urgenza: provenivano dalla vecchia cameretta di Bjarni, ora socchiusa. I fratelli stavano discutendo tra loro e... fumando.

"... Lo so, è sempre il solito discorso: sapevi anche tu che questo giorno sarebbe arrivato. Prima o poi, certo, non sei mai stata brava a pianificare niente, ma sapevi che sarebbe finita così".

"Il fatto è che arrivato troppo presto".

"No, Anaïs, non dire così. Sai anche tu di aver tardato troppo, non è più una bambina".

"Ma io l'ho sempre fatto per il suo bene, solo e soltanto per quello: non volevo che soffrisse come ho sofferto io per... papà. Non volevo che le mancasse qualcosa, qualcosa che è mancato a me... io voglio che sia felice di ciò che le ho dato".

"Non dire stronzate: l'hai fatto per te stessa e basta, per autoconvincerti di aver fatto la scelta giusta a lasciare che Marcel tornasse in Francia. Tu non sei Lóreley e Lóreley non è te, non puoi continuare a tenerla chiusa in guscio, Anaïs, avanti, ragiona. Non respira" Bjarni fece una breve pausa per aspirare dal drum mal rollato. "Così rischi di soffocarla, la stai già soffocando... ed è una fortuna che lei sia così cocciuta da non permetterti di farlo".

"Tu... non hai figli, tu non puoi..."

"E invece la capisco fin troppo bene. Ti stai comportando come Danielle si è comportata con noi fino a quando non abbiamo levato le tende. Non puoi proteggerla da tutto il male che c'è nel mondo, ficcatelo in testa. Arriverà il giorno che dovrà ferirsi per forza. Lì sarà peggio di così, e sai perché? Perché è probabile che tu non ci sarai accanto a lei, non quella volta. E la farai crollare per il dolore".

La donna ingoiò un singhiozzo. "Andare in Francia non le farà bene, me lo sento, Marcel è già con un piede nella fossa e..."

"Lasciala andare" la interruppe lui, infastidito. "Lasciala andare e basta, è un suo diritto".

"Ma io sono sua madre..."

"E lui suo padre. Basta così".

Lóreley, che era immersa nell'oscurità, si asciugò naso e guance senza fare rumore. Appena si fu rintanata in bagno si lasciò cadere sul water, gli occhi fissi sul pavimento che a tratti venivano offuscati da uno spesso velo di lacrime. Pianse per poco, però, pianse lo stretto indispensabile, il giusto da sbollentare la rabbia, il risentimento e la tristezza. Poi, difatti, arrivò il momento della riflessione, dell'impotenza e dell'ansia; un miscuglio di sentimenti e sensazioni che ritornavano a tormentarla proprio quando non sapeva più che fare. Infine sopraggiunse l'apatia, l'annichilimento spirituale che le aveva fatto perdere ogni percezione di ciò che era stata e sarebbe potuta diventare: un'artista, così l'aveva chiamata sua madre davanti a Bernhard...

Involontariamente prese ad accarezzarsi la fasciatura sbilenca, poi a pizzicarla un poco all'altezza del palmo, infine a strattonarla. Quest'ultima cedette con un pizzico più forte degli altri e solo allora decise di tirarla via una volte per tutte. La parte più esterna di garza era talmente sporca da essere inguardabile.

Mentre si sforzava di ricordare dove fosse la cassetta di primo soccorso della nonna, un fatto anomalo la impalò proprio nel centro del bagno color avorio. Rintronata da un'ondata di panico crescente, Lór dovette sedersi sul bordo vasca per non rischiare di finire a terra a causa di un capogiro di troppo: era come se qualcuno avesse intinto le proprie dita nell'inchiostro più nero e le avesse impiastricciato per intero il palmo, punti sutura compresi.

Come diavolo aveva fatto a macchiarsi la ferita? Chi l'aveva... toccata, sporcata? Dove? E quando? Perché, al cambio delle medicazioni, nessun glielo aveva fatto notare?

Strofinò la pelle, strofinò la carne fino a farsi male, ma le ditate continuarono a indugiare, ad esistere su di lei.

Deglutì a fatica, mentre nella mente prese a riecheggiarle un avvertimento simbolico... e un po' troppo vago e senza senso apparente.

Poi ci arrivò.

Litlaus. Radice. Patto...

Mi ha toccata.
Qualcosa mi ha toccata.

... Spettro senza...

Secondo punto: non guardare nessuno e non toccare nulla, a meno che tu non voglia portarti a casa uno spirito ed esserne tormentata - e io non so esorcizzarli, sappilo.

... Testa.

"Ah... merda".

... Continua

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