37. Le preoccupazioni di una madre
6 novembre 2011
L'allenatore fischiò una volta sola, frattanto che gettava un'occhiata alle panchine alle sue spalle; le tre ragazze, ordinatamente disposte in fila e in costume blu, si tuffarono in acqua non appena udirono il segnale.
Lór pigiò la mina sulla carta e tentò a malincuore di tracciare una linea. La retta che ne uscì fuori era tutto fuorché dritta e liscia, una copia sputata dei precedenti tentativi, all'incirca una trentina in meno di cinque minuti. La mano fasciata le tremava da morire e la presa, nonostante avesse una medicazione leggera attorno al palmo, era ancora incerta.
Trattenne un sospiro di troppo e cominciò a sfregiarsi il labbro inferiore con gli incisivi. Girò e rigirò la B2 con l'indice e il medio, esitante, mentre contava mentalmente le bracciate delle tipe in acqua, più per non dare di matto che per altro. Quindi provò ancora, ma il risultato non cambiò.
Non aveva più disegnato dall'incidente al Samkaup per ovvie ragioni, tuttavia il taglio da sei punti era l'ultimo delle scusanti. Era come se la sua immaginazione fosse improvvisamente morta. Non aveva idee, non aveva stimoli, non riusciva più a far affidamento sull'esperienza e l'inventiva. Se provava a guardarsi dentro, più precisamente nella testa, non vedeva nulla. C'era solo il buio. E col buio dentro, semplicemente, cosa si può sperare di creare?
Niente.
Si portò i capelli grondi d'umidità agli angoli del viso e un sapore ferroso le impregnò la bocca, stomacandola. Perciò smise di mordicchiarsi le labbra, incarcerò l'album degli schizzi nella tracolla e a testa bassa abbandonò la piscina. Il coach la fissò con apprensione un'ultima volta prima di fischiare nuovamente.
Fuori, un freddo tipicamente invernale la investì in pieno. Dal cielo scendeva irregolare e opaco del nevischio, intrappolato dagli sbuffi di vento in piccolissimi turbini ghiacciati. Leggero e silenzioso, si posò sopra di lei durante la traversata che la condusse all'edificio principale dell'istituto.
A passo spedito raggiunse l'ufficio della rettrice senza nemmeno aver controllato che ore fossero, e quando ci fu davanti evitò di guardarsi attorno: da giorni non faceva altro che camminare con gli occhi perennemente incollati al pavimento. Anche perché non c'era stato il ben che minimo pretesto per sollevarli e prestare attenzione a qualcosa o a qualcuno di sua conoscenza; ergo: dalla patetica scomparsa di Richard, sembravano un po' morti tutti quanti.
Edith, dopo essersi scusata per quel minuscolo e spiacevolissimo inconveniente che aveva messo a repentaglio la sua vita senza che lei ne fosse stata a conoscenza, se n'era andata su due piedi, in lacrime, e con un sorriso tanto innaturale e consapevole da averle messo i brividi addosso. Nel senso: la più grande delle Bersisdóttir aveva ben pensato di abbandonare la capitale, più nello specifico di darsela a gambe levate e fuggire via dall'Islanda. Lór l'aveva sentito civettare durante la pausa pranzo da due presunte compagne del suo stesso corso di marketing. A quel punto le era pure passata la fame e per una quindicina di minuti aveva fissato la zuppa di salmone con sguardo perso, intanto che il mondo attorno a lei continuava a vorticare, avanzare, vivere.
Due giorni prima l'aveva trattata con superficialità e distacco, adesso non poteva fare a meno che pensarci e ripensarci senza trovare pace.
Che buffa, l'empatia.
Sospirò.
No, non è empatia: è senso di colpa. Oppure ribrezzo.
Quella che mezzo secondo prima aveva avuto il coraggio di etichettare come patetica scomparsa, altro non era che la fine di un'epopea a tutti gli effetti. Un incidente che aveva messo ai ferri corti tutti quanti, Lóreley compresa. Non ci aveva dormito tutta la notte per cercare di comprenderne il perché, ma con le prime luci dell'alba ci era arrivata: tutti loro avevano preso sotto gamba una situazione che aveva completamente distrutto l'opinione pubblica. Richard aveva dato di matto perché sì, Edith aveva lasciato intendere, in modo palese e privo di ogni rimorso vagamente umano, di essere stata a conoscenza delle depravazioni del suo stesso padre fino a quel momento; Ber, Gíta, Werner e Björn si erano dati alla macchia, Gaël pure – e non c'era da meravigliarsi. Dulcis in fundo, aveva persino contratto un debito di proporzioni cosmiche nei confronti della persona che più aveva odiato alla Fær Øer... la stessa che, adesso, usciva pestando i piedi dall'ufficio della Benóný.
Lóreley infilò le dita nella sciarpa, altezza collo, e tirò per allentarla: all'improvviso sentì caldo. Involontariamente si spostò verso destra, la sua destra, e sperò con tutta se stessa di passare inosservata mentre si nascondeva tra i due scaffali dedicati alla gazzetta dell'istituto. Ordinatamente e senza preavviso, quattro riviste finirono a terra.
Johanna, che scema non era, si affacciò subito dopo col sopracciglio sollevato. Era impeccabile, come al solito. L'unico difetto visibile era il paio di occhiaie violacee, goffamente coperto da uno spesso stato di correttore. Sembrava un panda-biondo-incazzato.
"Le sedie sono dall'altra parte del corridoio, Dubois" scandì lentamente.
Lóreley alzò le spalle. "Lo so".
La curvatura del sopracciglio si accentuò, le mezzelune sotto gli occhi anche.
"Devi parlare con la rettrice?"
"Ahm... sì".
"Adesso è libera".
Gli occhi di Lóreley guizzarono prima a destra, poi a sinistra: Johanna aveva questo strano potere di farla sentire stupida. E sciatta. E strana. Tutte cose che, date le circostanze, stava dimostrando di essere. Chi avrebbe mai pensato di nascondersi tra due librerie pur di evitare un incontro spiacevole? Se avesse avuto lo spazio di manovra necessario per sollevare una mano, Lóreley lo avrebbe fatto senza rimuginarci troppo... finendo per risultare pure un'idiota con qualche rotella fuori posto.
"Grazie per... l'informazione".
"Non c'è di che".
Lór sgusciò fuori dal nascondiglio di fortuna mentre Johanna risistemava le gazzette sugli scaffali. Con passo meccanico si avviò verso l'ufficio, distante da lei più di quanto avesse voluto, ma la voce della biondissima la bloccò prima che potesse avvinghiare le dita al pomello.
"Dille che non ricordi niente".
"Come, scusa?"
L'espressione scocciata sul volto di Johanna si accentuò. "Hai capito benissimo, non farmelo ripete" sillabò, come se si trovasse davanti a un alieno. Poi alzò i tacchi e se ne andò inveendo contro una povera matricola che aveva cominciato a squadrarla con curiosità.
L'esitazione la rammollì, ma per fortuna durò pochissimo: Lór entrò nell'ufficio con le mani ficcate nelle tasche del parka e la sciarpa sotto braccio. L'aria era pregna dell'aroma di mentolo e quello che sembrava essere incenso – insomma, un vero schifo. Davanti a lei, invece, sedeva composta la rettrice in persona, quella che aveva avuto il potere di metterla in imbarazzo il giorno del suo arrivo in quell'università privata del cavolo.
Ora che aveva l'occasione di poter chiacchierare a tu per tu con lei, si rese conto che era così piccina da sparire nella sedia girevole su cui era accomodata. Se non ci fosse stata quell'enorme scrivania di legno a dividerle, Lór avrebbe sicuramente sbirciato di sotto: chissà se i piedi della signorotta arrivavano quanto meno a sfiorare il parquet.
La rettrice sollevò gli occhi dal cumulo di carte che aveva sparso sotto il naso aquilino. Sorrise e un velo di rughe le increspò gli angoli della bocca. Le sue iridi erano talmente chiare da sembrare due ghiaccioli.
"Lóreley Dubois?" domandò, più per cortesia che per reale necessità. "Prego, accomodati pure".
Lór fece quanto le era stato detto. L'impellente urgenza di tenere la testa bassa continuò a pressarla anche quando fu seduta: il dille che non ricordi niente si ripresentò nella sua testa a intervalli regolari, a mo' di eco. Tuttavia non demorse.
"Ho avuto modo di visionare la comunicazione della signora Østergaard solo questa mattina. Mi duole dirti quanto io sia dispiaciuta" la Benóný impastò le mani nel tumulto di fotocopie agguantandone una corposa fila, e fluidamente le batté sulla superficie di legno per sistemarle. Dopodiché le infilò in una cartella grigia. "Ma sono d'accordo. L'incidente al Black Pearl Apartament deve averla scioccata e non poco, è normale che voglia tenerti... sott'occhio, date le circostanze. Perciò non dovrai preoccuparti di nulla, Lóreley, sentiti pure libera di prendere un breve stop dalle lezioni. Mi auguro che tu possa tornare più grintosa che mai. La professoressa Stewart è del mio stesso parere".
"Ah... certamente, signora Hólmsdót-"
"Chiamami pure Benóný. Non sono un'amante delle troppe formalità".
Lóreley deglutì a vuoto, sistemandosi meglio sulla poltroncina coi braccioli e lo schienale di legno scuro. Guardandosi di sfuggita le nocche capì di non essere a suo agio: stringeva in maniera convulsa entrambi i pugni, quello medicato più del sinistro. Senza volerlo, il ricordo della pancia di Ber tappezzata di lividi tornò a far capolino tra i suoi pensieri.
"A tal proposito... come ti senti?"
"Io?"
Il sorriso sul volto della rettrice si allargò. "Certo, chi altri sennò".
"Io sto..." Lór si costrinse a sopprimere un risolino nervoso. "Io sto benone, è mia madre che si preoccupa un po' troppo per me. Insomma, da quando sono qui non ci siamo poi viste molto, lei è sempre fuori a causa del suo lavoro. Non eravamo mai state separate per così tanto tempo, perciò capisco un pochino le sue preoccupazioni".
"La distanza rende le madri più protettive di quanto già non lo siano" sospirò la Benóný e stancamente si sistemò lo chignon tenuto fermo da un enorme spillo. Sulla punta vi era una perla bianca, richiamo al collier sistemato sotto il colletto della camicia antracite. "Se fossi stata in lei avrei fatto la stessa cosa. Essere madre comporta un sacco di responsabilità... essere figli implica il rispettarle".
Lór non riuscì a nascondere la sua perplessità. "Certo" balbettò, la bocca infinitamente asciutta e l'ennesima risatina isterica incastrata tra i denti. Che stramaledettissimo il diavolo le stava succedendo? "Ovvio, ha pienamente ragione. Per questo penso che starle vicino, in un momento del genere, sia fondamentale".
"Sì, gioverà ad entrambe, questo è più che sicuro. A tal proposito, c'è una cosa che vorrei chiederti, Lóreley Dubois..." e la rettrice fece una brevissima pausa. In seguito portò entrambe le mani sulla scrivania, intrecciandole saldamente l'una all'altra. I suoi occhi si erano nel frattempo ridotti in due fessure gelide. "Parlando telefonicamente con la signora Østergaard, per quanto riguarda le vicende del Black Pearl, ho acconsentito di buon cuore a lasciarti fuori da qualsiasi indagine, nonostante tu sia un'importante testimone oculare. In fondo la cosa ha toccato anche me: era presente pure mia nipote Johanna... alla fatalità che ci ha portato via un altro valido studente. Sto parlando di Richard Olvasson" constatò. "Ma se tu ricordassi qualcosa, anche il più insignificante dei particolari, sarebbe una grande cosa. Perciò ti chiedo, con estrema confidenza e cautela, di parlarmene".
Dille che non ricordi niente.
Dille che non ricordi niente.
Dille che non ricordi niente.
Lóreley trattenne il fiato e contò fino a dieci. Inspirò.
"Mi dispiace, ma non ricordo nulla. So soltanto di aver incrociato Edith Bersisdóttir al secondo piano dell'hotel, poi ho perso i sensi. Un malore improvviso, mi hanno detto. Proprio questo preoccupa mia madre: nel periodo di stop dalle lezioni vorrebbe che facessi dei controlli" esalò, gesticolando un po' per aiutarsi a parlare.
La rettrice parve bersela quasi subito. Lóreley, d'altro canto, continuò a rimanere sull'altolà. Sentiva il sudore colarle ovunque, perfino sulle chiappe.
"Sì, immagino. Beh, ti ringrazio comunque per l'onestà... lo apprezzo molto" cinguettò d'improvviso l'altra. Il gelo che le aveva incupito lo sguardo si era come dissolto nel nulla. "Sei una studentessa valida, Lóreley. Spero di non perderti. E questa chiacchierata rimarrà un segreto tra me e te, sappilo. D'accordo?"
"D'accordo".
Quando si chiuse la porta dell'ufficio alle spalle, Lóreley era pallida come un cencio e sudata da fare schifo. A rigor di logica, Johanna era andata oltre le sue aspettative, salvandole il culo per ben due volte.
Ma soprattutto...
Perché, parlando con la Benóný, si era sentita di nuovo scoperta?
✖ Nel prossimo capitolo, "Zenzero e limone":
A volte aveva la sensazione di esserci capitata per sbaglio, in quel presente. E, croce sul cuore, poteva considerarsi un errore a tutti gli effetti: la sua dote non era nelle corde dei vivi. Sentiva di star vivendo perché qualcuno che aveva giocato a fare Dio col mondo lo aveva voluto, e non si era di certo trattato dei suoi genitori. Barando di proposito durante una partita a carte contro il volere cosmico, quest'ultimo aveva chiamato in causa anche lei. Ma perché?
"Lór?"
"Umh?"
"Non sto dicendo che non ti voglio bene".
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