29. Il vaso di Pandora

"... Pronto?"

Calò un silenzio giustificato solo in parte, forse scatenato dal suo stesso tono di voce - stridulo e biascicato, tipica controindicazione provocata da una nottata fatta d'eccessi, a chi gli eccessi dovrebbe poterli guardare solo col binocolo.

Lór ne approfittò per gettare un'occhiata alla sveglia, non prima di essersi scollata le palpebre con una veloce stropicciata. Si guardò i polpastrelli macchiati di nero e trattenne uno sbuffo: erano da poco passate le undici e la domenica mattina era ufficialmente iniziata nel peggiore dei modi.

"Mamma?" cantilenò una seconda volta e la donna all'altro capo del telefono sbuffò per lei.

"Sono le undici e tu sei ancora a letto".

"Non hai prove".

"Che hai mangiato a colazione?"

"Ahm... niente?"

Anaïs tossì di proposito. "Non sai mentire, proprio come tuo padre".

"Viva la genetica, allora" le rispose di rimando la più piccola, tirandosi a sedere e scalciando via il piumone lilla. Certi tragici resoconti famigliari, da appena sveglia, riuscivano a spazientirla con una facilità disarmante. "A cosa devo questa telefonata fuori programma?"

La vulcanologa balbettò qualcosa d'incomprensibile - probabilmente un insulto che terminava con quella grandissima di tua madre.

"Sappi che sono qui a Reykjavík. Da tua nonna. E mi ha detto che non l'hai avvisata".

Lóreley si sfregò la manica del pigiama sugli zigomi, nel vano tentativo di alleviare il prurito che glieli martoriava. Stavolta mi aspetta una bella e meritatissima pubblica esecuzione. Anzi, due.

"L'ho dimenticato".

"Come sempre" ci tenne a rettificare l'interlocutrice, mortalmente stizzita e offesa, mentre masticava una galletta di riso - Lór lo riconobbe dal crocchio insipido che si propagò nell'altoparlante. Nonna Danielle applicava il suo regime di terrore alimentare a qualunque essere vivente osasse varcare la soglia del suo antro. E quella grandissima quarantaseienne di sua figlia non era un'eccezione.

"Ti ho chiamata per avvisarti che alle tre passo a prenderti in università" aggiunse infine, deglutendo.

Sull'uscio della camera apparve Ber, una bustina bianca che le penzolava dalla bocca e due contenitori d'asporto, impilati l'uno sopra l'altro, stretti nella mano destra. Tra fianco e braccio sinistro, invece, reggeva la sacca della lavanderia, mezza aperta. Prima che potesse mugugnare un sos, Lóreley si schiacciò l'indice macchiato sulle labbra. L'amica roteò gli occhi, afferrando la gravità della situazione, e attese. In bilico.

"Ah, d'accordo. Cosa dobbiamo fare?"

"Alcuni giri. Ti porto dal parrucchiere, facciamo un salto dall'estetista e ti trascino da Wool Gallery Vík í Mýrdal. Non voglio sentire nessuna obiezione da parte tua, non le accetto".

"Ma-"

"Ah-ah!" la zittì Anaïs. Lór se la figurò nella testa con gli occhi sbarrati e la mano già sollevata a mezz'aria, in posizione fai quello che ti dico io sennò le prendi. "Ho detto niente obiezioni. Non ti vedo da settembre e vorrei passare con te un sereno pomeriggio, uno di quei pomeriggi madre-figlia che detesti con tutto il cuore. Sai di non avere scampo, no?" e diede un altro morso alla galletta. "L'Hekluskógar c'è la prossima settimana, quindi oggi sarai alla mia mercé. Tu as compris?"

"Message reçu".

"Vi ses senere (1)" le rispose vivacemente la donna, consapevole di aver vinto su tutti i fronti. Quando Anaïs sapeva di avere la vittoria in pugno la sua indole da capricciosa pro usciva fieramente allo scoperto, soprattutto se il nome della perdente con cui aveva rivaleggiato iniziava per L e finiva con -óreley Dubois.

"Jeg hader dig (2)" borbottò invece Lóreley, riattaccando.

Bergljót ancora sbavava sul sacchettino quando le domandò: "Ma quante lingue parli?" - che suonò tipo ma quamte liunghe pali?

Lóreley abbandonò il tepore del letto per correre in suo soccorso. "Il francese, l'islandese e l'inglese. In danese so solo le parolacce e gli insulti, la mamma non ha mai voluto che lo imparassi" le disse in un sospiro, afferrando l'involucro bianco.

Ber poggiò i due bicchieri ormai tiepidi sulla sua scrivania e lasciò cadere la sacca coi vestiti. "E perché?"

"Perché" Lór si grattò una guancia, un po' a disagio, e s'infilò le pantofole. "Perché non vuole che io abbia dei legami con le sue origini. Non chiedermi il motivo, non lo so, non me l'ha mai detto".

"Beh, io so qualcosa di spagnolo".

"Spagnolo?"

"Sì, ho origini spagnole da parte di madre. Era nativa di Madrid, per l'esattezza" si confessò Ber in una risata, all'apparenza forzata. "Insomma, una che si chiama Mercedes Loretta Vega non è proprio di queste parti. Però non ho mai imparato la lingua, cioè, non ho avuto tempo per farlo. Mia sorella invece lo parla benissimo".

Lóreley non riuscì a tenere a bada la curiosità. "E ci sei mai stata a Madrid?"

"Una paio di volte, forse tre. Ero molto piccola, non lo ricordo bene. Credo di aver conosciuto anche i miei nonni materni, ma non ho loro notizie da tantissimo tempo" Ber le diede le spalle e cominciò a rassettare un cumulo di appunti sulla macroeconomia. I suoi gesti trasudavano una valanga di nervosismo. "Penso che sia meglio così. Sarebbe inutile andare a trovarli".

"Non mi sembra una cattiva idea..."

Un paio di foglii le scivolarono di mano, finendo a terra sopra un cumulo di vestiti. Fogli scarabocchiati e incasinati, come incasinata era l'espressione che adesso le incupiva il volto. Lór non riuscì a comprendere la natura di quel cambiamento repentino, non subito. Poi la guardò con occhi diversi, occhi da amica, e le emozioni che adesso vestivano Ber assunsero la giusta nitidezza, i contorni che avrebbero dovuto avere: riuscì a scorgere un pizzico di rabbia, una spolverata di tristezza mista a uno stupore anomalo, come se il suo incoraggiamento fosse stato una rivelazione tanto ovvia quanto errata.

"So per certo che amerei Madrid, che amerei i miei nonni e il caldo, che amerei tutto. Ma non posso. Non posso perché... perché loro non sanno ancora che lei non c'è più".

Bergljót si voltò e alzando le spalle si lasciò sfuggire un sorriso. Uno di quelli sbagliati, sbagliatissimi.

"Molto probabilmente non lo sapranno mai. Moriranno abbracciati all'idea che la loro Mercedes ha deciso di tagliare i ponti per motivi che neanche ti sto a spiegare. Credo che vada bene così: non voglio che soffrano come ho sofferto io, è un peso che sono disposta a sopportare".

I legami, quelli veri, insidi nell'anima, fatti di odio e amore, non li recidi con un vaffanculo solamente. No, continui a cercarli. Con insistenza, con senso di colpa, involontariamente e con peccato.

I legami, di qualsivoglia natura essi siano, non li estirpi da un giorno all'altro coi guanti da giardiniere e sradicandoli come se fossero erbaccia, Lóreley ci aveva disquisito su appena dieci ore prima. Quando c'è di mezzo un vincolo così forte, di natura sia fisica che spirituale, si pone davanti a tutto non quel che fa comodo al diretto interessato, ma alla controparte, a chi c'è ad attendere alla fine del cordone condiviso. Per Bergljót erano i suoi nonni, per lei un'altra serie di fattori che manco il cosmo sarebbe stato capace di nominare.

Non poteva fargliene una colpa, assolutamente, e nemmeno rimproverarla. Sarebbe stato sciocco, oltre che un controsenso. Quindi le rifilò lo stesso sorriso, ingoiando una pallottola di emozioni che avrebbe fatto meglio a tenere per sé, e Ber ne sembrò grata.

La vide accatastare un'altra pila di carta sotto una montagna di evidenziatori e successivamente le indicò il sacchetto. Lóreley sbirciò il contenuto e l'odore del croissant che le riempì le narici le causò un capogiro.

"Quello è mio" la consolò Ber. "La tua fantastica colazione è scivolata di sotto".

Lóreley annuì sollevata nel percepire la plastica fra le dita: plumcake del distributore, la colazione dei campioni - e delle sfigate.

"Se non lo avessi capito, questo è un pegno di pace, sorella. Cioè, è per chiederti scusa. Ieri è stato un sabato sera un po'... un po'".

"Non me la bevo, non ti darò più ascolto in ogni caso".

"Non sei la prima a dirmelo" ridacchiò Ber. Ora che la osservava meglio, la pelle della sua maledetta faccia scintillava sotto i raggi del quasi mezzodì e di occhiaie sotto le palpebre non c'era la minima traccia. Era tutta un tiro e fresca come un fiorellino di campo appena colto, perfettamente temprata dagli ettolitri di alcool ingurgitati negli anni. Mica lei che stava togliendo ulteriore dignità ai panda e puzzava di sudore dalla testa ai piedi.

"Però, dai: devi ammettere che ci siamo divertite!"

"Agh..." la bionda mordicchiò il plumcake per guadagnare tempo. Divertente era un eufemismo bello e buono. "Diciamo che sarebbe stato meglio evitare".

"Per essere stata la tua prima sbornia, insomma..."

Lór inarcò un sopracciglio. "Ti ho perso tra la folla, sono andata nel panico, ho rovesciato un gin-tonic addosso a una dreadlock fattissima e successivamente sono collassata sull'uscio del bagno più indecente del Nord Europa mentre Gaël Elíasson, parole sue, aveva l'uccello in mano" sbottò, riprendendo fiato. "Ho tralasciato qualcosa? Ah, sì: gli ho tirato un calcio in faccia perché ha aperto il vaso di Pandora e per punirmi mi ha pure fatto da baby-sitter, offrendomi delle patatine per smaltire l'ubriacatura".

"... Per vaso di Pandora intendi le tue mutandine imbarazzanti?"

"Comode, sono comode, non imbarazzanti".

"No, sono un cazzotto in un occhio, una purga a sorpresa, un attacco di mal di mare durante un viaggio in nave di sei ore".

"Non capisci un cazzo".

"Avanti, almeno comprale a tinta unita!"

"Sarebbero noiose".

Bergljót si allacciò le braccia al petto. "Sono orribili".

"Tanto non mi farai cambiare idea. E..." Lór si sedette a terra, affranta. "In verità una cosuccia l'ho tralasciata".

"E sarebbe?"

Lór mangiucchiò un secondo pezzettino di merendina. D'improvviso, lo stomaco aveva ricominciato a pulsarle a più non posso.

"Prima che io ti dica la stronzata abnorme che ho fatto, rispondi a questa domanda: perché non mi hai mai detto di conoscerlo in modo così diretto? Sai di chi sto parlando".

Ber spolverò via le briciole dai jeans. "Che vuoi dire?"

"Avete parlato come se vi conosceste da anni".

"Perché è così, semplice".

"Mi correggo, allora: avete litigato come farebbero dei vecchi amici".

"Lór, fondamentalmente lo siamo stati tutti, da bambini soprattutto. Tuttavia col tempo sono cambiate parecchie cose perché ognuno di noi è cambiato. La Cerchia ci accomuna, questo è vero... ma gli obiettivi no" le rispose in tutta calma, addentando una bella porzione di croissant. "Ora voglio sapere la tua stronzata" parlò a bocca piena.

"Ecco... ho detto a Gaël quella cosa".

Ber, che la guardava di sottecchi, si passò la palla di dolce da una guancia all'altra, smettendo di masticare. "Quella cosa... cosa?" farfugliò.

Lóreley si portò le mani sulla faccia, accartocciando e premendo sullo zigomo l'involucro di plastica, fino a graffiarsi volontariamente. L'ultimo morso di plumcake le cadde sulle gambe. "Quella cosa! Nel senso che... gli ho detto della premonizione".

Proprio in quel momento, Bergljót aveva tentato di ingoiare la poltiglia zuccherata: mai era stato commesso errore più grande nella storia del genere umano. E imbarazzante.

Tossì fino alle lacrime, ma non si arrese. "Si può sapere che ti è passato per la testa?!"

"Ero ubriaca!"

"Non è una scusante!"

"... Non ero in me!"

Bergljót gettò la spugna quasi subito, ricordando della sua favolosa idea del rito d'iniziazione. Allora imbustò il croissant mangiucchiato, accavallò le gambe, poi le scavallò l'attimo dopo, recuperò cartine e tabacco Lucky Strike dal chiodo e cominciò a rollare.

Lór sentiva il battito del cuore riecheggiarle in gola. "Quanto è grave la situazione?" domandò e spalancò a forbice l'indice e il medio di entrambe le mani per spiare l'espressione di Bergljót.

"All'effettivo, dici? Sei fortunata: non lo è particolarmente. Ma, c'è sempre un ma di mezzo" la mora leccò la cartina e sputacchiò poi un po' di zucchero. "Non parlarne più con nessuno, okay? Per favore".

"È-..."

"Gaël non è pericoloso. Non gliene frega un cazzo di me, di te, delle tue mutandine oscene, della Cerchia, di niente e di nessun abitante sulla faccia del globo" Ber la fissò dritto negli occhi, lasciando che fossero le iridi a convincerla al suo posto. "Ciò nonostante ti consiglio di mantenere le giuste distanze: è letale, non pericoloso, tutto quello che gli vortica intorno" le rivelò senza mezze misure. "Spero di essere stata chiara".

"C'è qualche stinco di santo qui che gode di una reputazione abbastanza normale? Così, tanto per sapere".

"Non ho tempo e non ho voglia di stilare una lista a riguardo".

Le mani sudaticce le ricaddero sulle gambe. "Grazie per l'aiuto" la voce di Lóreley risultò un fastidioso borbottio. "Però non mi è sembrato particolarmente convinto. Forse non gli importa per davvero, il che è un punto a mio favore".

"Tipico di lui. Non mi meraviglio a pensare che abbia già cestinato la faccenda".

Entrambe tacquero e Ber si avvicinò alla finestra per fumare. Non gliela raccontava giusta.

"Quanto sai di lui?"

"Abbastanza" le rispose, sbuffando una nuvoletta grigia dalle narici. "Ma non troppo".

"Conosci il suo dono?"

Bergljót corrugò la fronte, colta in fallo. Sembrava avesse visto un fantasma. "Cosa ti fa pensare che ne abbia uno?"

Lóreley sfarfallò le ciglia un paio di volte per aiutarsi a elaborare quanto sentito. Non se la sarebbe mai aspettata una domanda così emblematica a una sua domanda, il che non fece altro che generarle nella testa il solito bordello di ipotesi. La prima, nonché la più ovvia, era che il pupillo della famiglia Elías non possedeva gjöf alcuno e che il senso d'oppressione provato in ospedale fosse stato generato dalla poca voglia di trovarsi lì. La seconda, invece, era totalmente l'opposto della precedente e poco credibile... in parte.

"Mi stai dicendo che non ha un gjöf?"

"Non che si sappia, almeno" mugugnò Ber, gli occhi che correvano da una parte all'altra del campus oltre il vetro. "Da quel che so la sua famiglia l'ha sempre negato, anche ai Decanti ufficiali. A quanto pare l'unica a possederne uno è sua sorella" e tirò una corposa boccata. "Ti ha dato un'impressione diversa?"

Lór stette in silenzio. Contò fino a dieci e tornò a respirare solo quando capì di poter rispondere.

"No" sussurrò infine, distogliendo lo sguardo dalle spire di fumo che appesantirono l'aria. "Ha un carattere un po' particolare, forse mi mette a disagio stargli vicino a causa della premonizione".

O forse anche lui ha qualcosa da nascondere.

✖ Nel prossimo capitolo, "Di rispettabili conoscenze":

Il colpo di grazia, lo stesso che era stato capace di farle vacillare nuovamente la sanità mentale, lo aveva però subìto nei camerini del Wool Gallery. La prima mezz'ora fatta di no, troppo scollato e questo t'ingrossa i fianchi le aveva sventolato in faccia l'ovvietà più scontata di tutte... accettare Bo', accettare la sua dote, accettare di poter sentire la morte come se fosse viva erano zucchero se comparati all'eterna insoddisfazione che aveva di se stessa.
Adesso rinchiusa in una gabbia dorata e con un mostruoso specchio a parete a troneggiare sulla sua figura, Lór si osservò come mai aveva fatto prima. E si sentì piccola, minuscola, insignificante, anche coi capelli sistemati a dovere e con addosso la sgradevole sensazione di unto in posti dove pensava fosse impossibile esserlo.

✖ Note

(1) Vi ses senere: "Ci vediamo dopo"
(2) Jeg hader dig: "Ti odio"

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