19. Rispettare ciò che è morto
"È stato terrificante. Trovarmi lì, intendo. Vedere Edith stramazzare a terra è stato orribile e quelle urla non le dimenticherò mai. Sembrava che qualcuno la stesse accoltellando e... dio, come si graffiava... nel farlo si è pure spezzata le unghie, mi creda. In quegli attimi mi sono sentita impotente, volevo con tutto il cuore che smettesse di ferirsi, ma non sono riuscita a muovere un muscolo. Avrei tanto voluto piangere, eppure..." la paziente sigillò i pugni, gli occhi e il cuore pur di non ricordare. "... Eppure sono rimasta a guardare, come tutti".
Audrine rilassò finalmente le gambe, tenute accavallate fino a quel momento, e il successivo dolore che le infiammò le cosce fasciate dalla flanella le donò un sollievo inaspettato. Ogni centimetro del suo corpo era un agglomerato di tensione e tremolii, tipici segnali scatenati da un'abbondante dose di adrenalina a spasso per i muscoli. Era visibilmente allibita, nauseata e spaventata, tant'è che fu lei, stavolta, a cercare l'orologio nel disperato tentativo di appigliarsi al concreto: erano a malapena trascorsi trentacinque minuti dall'inizio della seduta e l'orrore grigio racchiuso in quel racconto non accennava a diminuire, anzi... il vero picco riguardante Paskúm era ancora molto lontano.
Lóreley, dal canto suo, si lisciò le pieghe della gonna azzurra con i palmi sudaticci e proseguì. Aveva ancora gli occhi chiusi. "Però... però l'avrei ammazzata io se il patto non fosse andato a buon fine. Ho preso in considerazione questa alternativa e un po' mi vergogno a dirlo. È stato un pensiero istintivo e meschino, ne sono consapevole, ma non volevo che continuasse a soffrire per causa mia".
"Causa... tua?"
"Ho risposto io all'indovinello e Radice ha preso i miei, di capelli. Quando siamo tornati ho pensato che si fosse astenuto dal nostro patto, forse perché rimasto insoddisfatto del suo premio... fortuna ha invece voluto che bastasse un solo capello".
Audrine si schiarì la gola con un grugnito. "Radice ne ha però chiesta una ciocca, non uno soltanto" replicò.
"Il punto è che a lui, di me, bastava solo quello" Lór tornò a guardarla. "Radice era già di per sé vincolato a un altro patto, fatto da un terzo di cui ne ignoravo l'esistenza. Quel capello avrebbe siglato la richiesta fatta da quest'ultimo".
"Non credo di capire..."
"I patti vanno avanti e indietro, non sono mai a senso unico, parola di Radice. Il mio capello faceva parte di una richiesta arretrata, lasciata in sospeso perché, beh... avanzata circa centoventuno anni prima. Qualcuno aveva barattato con l'Auditore un altro oggetto affinché lui potesse portargli il capello, come pattuito".
"Quindi... è stato un gesto premeditato".
"Un'intera situazione, non un gesto".
Audrine sospinse la montatura rossa con l'indice, schiacciandola sulla fine del naso pronunciato. "Vediamo se ho capito" cominciò, gesticolando. "Nel milleottocentonovanta circa, Radice stringe un accordo con un mortale, ma le modalità di pagamento non sono chiare. C'è di mezzo un capello, un tuo capello, e una volta avvenuta la prima parte dello scambio l'Auditore attende centoventuno anni prima di suggellare il precedente patto... tramite la richiesta per liberare Edith dalla maledizione. Corretto?"
Lór annuì. "Esatto".
"Beh, è..."
"Impossibile, dice?"
Audrine inspirò forte. "Sì".
"E perché?"
"Non regge, insomma... come poteva, il partecipante primigenio, sapere con certezza quali sarebbero stati gli avvenimenti futuri? Come poteva immaginare che un giorno ci saresti stata tu nel Litlaus? E perché proprio il capello?" la dottoressa prese ad accarezzarsi il mento lucido di sudore. "Potrebbero essercene di spiegazioni plausibili, tuttavia... tuttavia lo trovo improbabile".
"È più complicato di così. Sappia solamente che il partecipante primigenio, come l'ha chiamato lei, aveva tutte le carte in regola per predire il futuro e arrivare a me. Ecco".
"Predire il futuro?" Audrine si sporse un poco, la voce più alta di un'ottava. "Come te?"
"Sì. Il primo stipulante aveva già visto, studiato e premeditato ogni cosa. E, in un certo senso, era legato su un piano materiale e astrale alla sottoscritta".
Audrine spalancò gli occhi. "Che sia...? Ma...!"
"Un passo alla volta, Audrine" un sorriso sbieco apparve sulla bocca di Lóreley. La perspicacia di quella donna aveva dell'incredibile. "Prima di arrivare al sodo e raccontarle del nostro legame c'è ancora tanto da spiegarle... ad esempio il come è nato e il perché è sopravvissuto. E l'assicuro che sarà una cosa da pazzi".
Lór continuò a tenere gli occhi bassi, uno scialle blu calato sulle spalle e una tisana alle erbe stretta nella mano sinistra. Il vapore sprigionato dalla bevanda saliva e si contorceva in spirali cocenti, grigie, e le carezzava le gote accese dalla febbre. Sentiva caldo, sentiva freddo, sentiva l'irreale strisciarle sotto la pelle assieme ai dubbi. Semplicemente sentiva di non sentirsi, ancora, come era accaduto durante la permanenza indesiderata –oppure no?– nel Litlaus.
La ceramica era pregna di un calore confortevole, umano e materiale, ma poteva giurarsi di non averlo avvertito a primo impatto: era andato via e successivamente tornato; c'era stato, sì, ma non del tutto. Quando aveva afferrato la tazza offertole da Ber, una quindicina di minuti prima, lei l'aveva presa e basta, senza preoccuparsi di rimanere scottata, come suggerito dall'amica. Per un paio di secondi l'aveva stretta forte, ma forte forte, fino a ferirsi i polpastrelli in un atto consapevole e irrispettoso nei confronti del proprio corpo.
Quel dolore, però, per quanto idiota ed effimero fosse stato, l'aveva aiutata a tornare lucida; perché se c'era un posto a cui apparteneva, quello era il mondo a colori a cui era abituata, non una landa desolata e monocromatica... forse. Perché di tutte le certezze più sbagliate, senza senso apparente e folli, una spiccava sulle altre che più facevano paura: Edith era salva e un minimo di merito doveva pur avercelo. Certo, aveva contrattato con una bestiaccia-albero, abitante di un limbo morto e messo a repentaglio la buona riuscita dell'esorcismo parlando a sproposito... ciò nondimeno era tornata al suo legittimo luogo di provenienza senza nessuna malformazione in bella vista o, peggio, arto mancante.
Radice, di lei, si era fatto bastare un capello, uno solo. Aveva giocato bene le sue carte fino all'ultimo e come un avido collezionista aveva ottenuto ciò che sembrava desiderare da un'intera esistenza: il capello biondo di un'eretica. Eretica? Sì, eretica. Avrebbe potuto appiopparle altre nomine che più le si addicevano, come ad esempio comune mortale, imbucata, scema oppure cagasotto – invece l'aveva proprio chiamata in quel modo. E non contento l'aveva pure sfottuta con un microscopico inchino, quasi avesse avuto l'onore di trovarsi davanti all'eretica per eccellenza, quella di cui si era sempre parlato e che aspettava di incontrare. Tuttavia di una cosa non era convinta al cento per cento: tralasciate le prese in giro, le considerazioni finali di Radice l'avevano confusa ancor di più. Che peso avrebbero mai potuto avere due anime assieme? E quella di una? A conti fatti, cosa aveva voluto dire?
Intanto che si interrogava sul dilemma della sua vita, Ber fece il suo ingresso nel salotto in penombra, mentre scartava una gomma alla cannella. Gíta, seduta sulla poltrona scamosciata rivolta verso l'uscio, tornò in piedi. Non fiatò nemmeno quando Ber poggiò al centro del tavolino di vetro una boccetta, sigillata con un tappo di semplice sughero e il cui contenuto pulsava regolarmente, emulando la ritmicità di un battito cardiaco.
Qualsiasi sputo d'inferno fosse sigillato lì dentro, era vivo e incolore, non c'erano dubbi.
Gíta si avvicinò al camino in punta di piedi, voltandosi e premendo la schiena contro il marmo che lo circondava. "Allora?"
"Ci avevi visto bene: è una maledizione da contatto e incubata. Si chiama svangur" Bergljót ciancicò una bolla rosa, sventolando un diario rilegato in cuoio. Sul fronte era inciso il nome Fanndís. "Più nello specifico si tratta di un maleficio parassita a regola d'arte. Ai tempi della scissione tra la Cerchia d'Islanda e quella danese era molto in voga: può essere introdotta in mille modi diversi, l'importante è che abbia una cavità d'accesso sicura. Solitamente veniva inserita durante i riti orgiastici, insomma... lì di buchi scoperti ce ne sono tanti" scrollò le spalle, schifata. "Manovrare la sanguisuga è semplice: una volta depositato nell'organismo ospite, il parassita si annida nella zona indicata dall'ideatore, che nel caso di Edith è stata la spalla. Lì attende istruzioni. La si può sbloccare a distanza tramite un semplice rito e subito dopo comincia a riprodursi, fino a far impazzire la vittima dal dolore. Solitamente il maledetto finiva per suicidarsi, il che non destava sospetti".
Gíta assottigliò gli occhi. "Per quanto riguarda la creazione, invece?"
"È qui che le cose si fanno più interessanti: lo svangur non viene creato poiché è già parte dell'ecosistema del Litlaus. Gli appunti di Fanndís sono un po' vaghi sulla sua origine in quanto, effettivamente, le documentazioni sul dillà si sono interrotte da un po' per tu-sai-cosa, ma di speculazioni se ne potrebbero fare a migliaia: forse è sempre esistito, forse è stato creato da qualche partecipante della Cerchia e poi introdotto nell'ecosistema, forse si è autogenerato a causa di un qualche squilibrio all'interno della realtà" Bergljót prese fiato e si picchiettò l'indice sul mento. "Oltretutto è facilissimo reperirlo e trasportarlo anche di qua: è pur sempre una sanguisuga. Il richiedente potrebbe benissimo farlo attecchire alla propria anima e trasmutarlo materialmente una volta fatto ritorno qui".
Lór fissò le ondine che increspavano la superficie della tisana, troppo impegnata a metabolizzare lo schifo provocato dalla spiegazione della sanguisuga-maleficio. Che fosse catalogabile come diversamente vivo oppure morto e sepolto, il Litlaus aveva le sue regole e il suo moto vitale da rispettare – il tutto inversamente proporzionale al loro mondo, e non c'era da stupirsi se ciò che l'abitava poteva risultare tanto strambo e mostruoso agli occhi di un essere mortale.
Ber rispettò il silenzio in cui si era rifugiata Gíta. Sapeva benissimo cosa le stava frullando nella testa. "L'estrazione sarebbe risultata comunque difficoltosa. Chiedere aiuto a un Auditore è stata la scelta più appetibile per i nostri ranghi".
"Ce n'erano di altre, per caso?"
Bergljót storse il muso. "La meno invasiva richiedeva un cadavere in buono stato, preferibilmente ancora caldo e lontano dal rigor mortis, o la carcassa di un animale nelle stesse condizioni. Giudica tu".
Lóreley ebbe un sussulto. "Un cadavere?" domandò, quasi balbettando.
"Uh-uh. Beh, bisogna pure appiccicarlo a un'esca provvisoria, no?"
Un'esca. Come si può parlare così di un cadavere? Di un essere umano?
"Oh".
"Non meravigliarti, Lór: tuttora non mi spiego perché tu sia qui, ma ti dirò con spietata schiettezza che quello a cui hai assistito non è un gioco, penso che tu l'abbia capito" intervenne Gíta, raccogliendo i capelli in una coda laterale, senza legarli. Sprizzava nervosismo da tutti i pori. "I morti non si istigano, non si ricattano né tormentano. Noi li consultiamo, questo è vero, ma vanno lasciati dove sono e ciò vale anche per gli svangur. Chiunque sia stato a fare questo a mia sorella, la pagherà cara, lo giuro qui davanti a voi. Perché ciò che è del Litlaus deve restare nel Litlaus, nessuno all'interno della Cerchia deve abusarne per capriccio. Sono le basi del nostro quieto vivere".
"Quieto vivere... ma fammi il favore".
"Ho per caso detto una stronzata, Bergljót?"
La mora si stropicciò gli occhi, ridendo nervosamente. "Devo proprio risponderti? Le faccende degli altri non vi sono mai interessate, per carità. Quando si tratta di voi, però... c'è da strapparsi i capelli e mettersi all'opera".
Bergljót afferrò la fiala, la infilò nella tasca posteriore dei jeans e si volatilizzò con una sigaretta poggiata sull'orecchio, il tutto senza smettere di sorridere con fare scocciato. Gíta non replicò quanto sentito, nonostante la sua faccia fosse diventata un tutt'uno col pallore del marmo alle sue spalle.
Solo allora Lóreley capì che, per quanto terrificante e sbagliato fosse il Litlaus, la realtà a cui sentiva di appartenere era pure peggio. Il motivo era di facile deduzione: Gíta aveva ragione... e in parte torto. Perché Ber, nella sua sfacciataggine, aveva velatamente accusato anche lei di un abuso di potere che pareva andare avanti da anni.
In un macello di opinioni così contrastanti tra loro, di chi si sarebbe potuta fidare se non di se stessa?
✖ Nel prossimo capitolo, "Un cielo pieno di stelle":
"Lo trovò bizzarro. Anche nel Litlaus la percezione del tatto era alterata dalla mancanza di materialità corporea, con la sostanziale differenza che durante il sonno non c'era un vero e proprio distaccamento dell'anima, come spiegatole da Gíta prima di andare a letto. Sotto molti altri punti di vista, invece, le due cose condividevano tre particolari aspetti: l'assenza di percezione sensoriale era la prima, la volontà di ritorno alla realtà pure, il ricordo del viaggio anche."
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