13. "Oh"
18 ottobre 2011
Oh.
Oh fu l'unica interiezione enfatica che le riecheggiò nella testa. Un oh spontaneo e bizzarro, che non sapeva però di niente. Insipido, quindi, come la tisana rilassante che aveva cominciato a farle su e giù per lo stomaco da qualche minuto, il lasso di tempo necessario a processare il perché. Oppure il come, il quando e più nello specifico il cosa.
Che cosa, ad esempio, l'aveva spinta ad appuntare sui post-it le peripezie di Gaël e Ían e a scegliere di imboscarli dietro la cartina del campus? Il bisogno di avere tutto a portata di mano sarebbe potuta risultare la pensata perfetta per accontentare la sua fissa per l'ordine... ciò nonostante non era stato quello il caso. Pertanto il cosa si tramutava in caso. E proprio il caso le aveva infine messo i bastoni tra le ruote, suggerendole di appiccicare l'occulta-prove con dell'UHU Patafix, perché lo scotch rovina l'intonaco e non ti azzardare ad appendere i poster con quello che sennò le prendi, parole di sua madre.
Sì, la colpa ricadeva inevitabilmente sul Patafix, senz'altro, complici le irragionevoli fobie scaricatole addosso da Anaïs.
Ber non pareva della stessa idea, anzi. Il suo quesito esistenziale necessitava di una risposta, che si fosse trattata di una grande stronzata oppure dell'ultima verità dettale da Lóreley Dubois; la verità su ciò che era veramente e su quanto si fosse penata a tal punto da mettere in discussione la sua sanità mentale. Ma cosa faceva più male, adesso? Il sapere di sapere troppo oppure il sapere e non poter dire nulla?
Lóreley sfarfallò le ciglia bionde uno, due, tre volte, infastidita dal velo di lacrime che le stava offuscando la vista. Non seppe spiegarsi il motivo di quel riflesso incondizionato, il pianto era per lei una bomba ad orologeria da detonare nei momenti di solitudine. C'era sempre stato una sorta di tabù –orgoglio– a tenere le distanze tra lei e gli scoppi emotivi plateali, eppure se avesse ceduto quello sarebbe stato il secondo a cui Ber aveva l'onore di assistere. Allora prese un respiro profondo per far sì di non implodere, mentre slacciava con un gesto secco la sciarpa gialla, il naso già rosso a causa del pianto trattenuto a stento. Se non avesse parlato ora avrebbe fatto meglio a tacere per il resto della sua vita.
L'escamotage perfetto non tardò ad arrivare. "Come la vedi una cioccolata calda?" domandò Lór, la voce ormai stridula.
"Quanto è assurdo quel che mi stai per dire?"
"Abbastanza assurdo da richiedere una bella botta di zuccheri".
Bergljót si ficcò le mani nel chiodo, acconsentendo con un cenno del capo. "Fammi strada".
Il frenetico viavai di persone la stava nauseando, l'aroma dolce sprigionato dalla cioccolata calda... manco a dirlo. L'ansia di poter finalmente vuotare il sacco, poi, peggio di andar di notte: Lór inghiottì la centesima palla di saliva e bile intanto che tentava di formulare frasi di senso compiuto che non fossero giuro che non sono pazza e ti prego credimi – insomma, un must tipico di un telefilm trash, più nello specifico della serie tv-spazzatura che parlava della sua vita. Peccato però per la regia scadente e la sceneggiatura da quattro soldi.
Nel frattempo Ber attendeva con le mani intrecciate sul tavolo della mensa, le sopracciglia aggrottate e la bocca storta, impegnatissima a corteggiare con gli occhi la cioccolata immacolata di Lór. Sulla faccia portava i segni della sbronza settimanale e qualche rutto al retrogusto di gin ancora le risaliva la gola. Come diavolo facesse a scassarsi col bere ogni domenica notte era un mistero senza precedenti.
"Quindi la mangi?"
Lóreley fissò la tazza fumante, spostando poi l'attenzione sull'altra già vuota. Sospirante gliela spinse fin sotto il naso, stando attenta a non rovesciarla. La fame alcolica doveva essere una brutta bestia.
"Allora?" fece subito dopo Bergljót, con la bocca già piena e l'aria soddisfatta. "Non parli?"
"A dire il vero non so da dove iniziare. Sai, non è cosa di tutti i giorni quel che sto per dirti".
"Ti giuro che non farò interventi che potrebbero metterti a disagio".
"Sono seria, Ber".
La mora fece spallucce. "Anche io".
"Non mi crederesti" grugnì Lór.
"Provaci. Parlamene e basta, smettila di girarci intorno".
L'apparente distanza fisica tra le due venne colmata da un'orda di chiacchiericci irritanti, odore di sudore e vita. Esatto, vita: per alcuni attimi ci fu soltanto questo a legarle sul piano materiale, il loro piano di appartenenza, lo stesso che le omologava agli studenti che popolavano la mensa e Lóreley non seppe se gioirne o meno.
Ber aveva proprio un carattere di merda, lei pure, e altre cento persone all'interno dello stabile erano come le suddette. Niente di visibile le rendeva diverse per natura da qualsiasi altro essere umano, ma entrambe sapevano che non era così e questo la disturbava: Ber non era Ber, non era quel che dava a vedere ogni santissimo giorno e di conferme a riguardo ne aveva già avute, sin dal loro primo incontro. Le sue parole fuori posto da ubriaca, l'interesse che ora dimostrava a dispetto della sua dote, i discorsi sui power player della capitale e la nomina continua della condizione...
... Ma, accidenti, cosa le stava passando per la testa? Perché le sedeva davanti con la bocca impiastricciata di cioccolata e sulla faccia l'espressione di chi, a un primo acchito, avrebbe potuto rassicurarla con un dai che è normale vedere quel che vedi tu? Nessuno di sano le avrebbe mai detto niente di simile, ma Ber adesso le suscitava dentro l'opposto: era calma, fottutamente calma, ridicolmente calma in un contesto anomalo. Mentre in lei dilagava la malattia del pregiudizio, Bergljót si preoccupava di raschiare con i biscotti il fondo della tazza, niente più.
"Se ti dico perché ho scritto quei post-it" riprese Lóreley, abbassando di poco il tono di voce. Neanche lei aveva più voglia di ascoltarsi. "Mi parlerai della condizione?"
"Dipende" la risposta fu secca e lapidaria.
"E da cosa può dipendere?"
"Da cosa e quanto mi dirai".
Lóreley la guardò di sbieco. "Smettila di fare la misteriosa, sei irritante".
"E tu finiscila di... di..." Ber le agitò contro il cucchiaino come se stesse maneggiando un'arma bianca. "... Di essere così petulante. Dai tempo al tempo".
Lór incassò il colpo a mani basse, retrocedendo pur di non arrivare allo scontro. "D'accordo, d'accordo" fece, strofinandosi i palmi sul viso. "Se ti dicessi che..." deglutì. "Ho, come hai detto tu, predetto la morte di Gaël il mio primo giorno di università, cosa mi risponderesti?"
"Mh. Diciamo che, come dici tu, è inusuale. Cioè, è proprio roba da pazzi" commentò Ber, sarcastica fino al midollo. "Ma non credo che tu mi stia dicendo una cazzata, te lo si legge in faccia".
"Cosa?"
"Che hai paura".
"Sono terrorizzata" Lóreley fece una breve pausa e una scarica di pelle d'oca le drizzò i peli sulle braccia. "Io... io non so come sia successo e perché. So solo che qualcosa mi ha voluta lì, in quel preciso istante, perché dovevo esserci. Tutto era così confuso quando ho visto... poi ogni cosa ha avuto senso. Non riesco a controllarlo, non riesco a controllarmi, è successo e basta, come è già accaduto dodici anni fa".
"E con chi, per l'esattezza?"
"Lo hai letto: Ían, un mio compagno delle elementari. Lo avevo anche scordato, figurati. Mio padre dice che il mio cervello l'ha semplicemente cestinato a causa del trauma, ma non ne sono sicura".
Bergljót continuò a fissarla senza battere ciglio. "Quella volta in mensa, quando hai cominciato a sanguinare dal naso, c'entra anche quello?" domandò ancora.
"Sì. Sì, ho avuto lo stesso flash su Gaël".
"Ed è successo all'improvviso senza che tu lo volessi".
"Esatto" mormorò Lór, stringendosi nelle spalle per scacciare la sensazione di gelo che avvertiva sulla carne. "So che può sembrare una puttanata senza precedenti, sul serio, ma... non so. Non so come comportarmi se dovessi predire ancora, non so se sia tutto frutto della mia mente e non so perché devo farlo. Capisci che intendo? Non è normale, non sono normale. E..." riaprì gli occhi e li sollevò quasi con timore, incatenandoli al paio castano che la squadrava con insistenza. "... Nemmeno la tua reazione lo è".
Per la prima volta da quando l'aveva vista sollevarsi dal fondo dell'armadio col sorriso a trentadue denti, quel giorno di un mese e mezzo prima, Lór era riuscita a zittire Ber, rompendo il gioco.
Quella che aveva di fronte era il perfetto prototipo di ragazza dotata di un ego smisurato dato da una probabile infanzia infelice, che affronta ogni avversità a calci in petto e risposte calcolate al millimetro, e non la tipa che subisce e tentenna. Che trattiene e poi respinge, poiché spaventata da miriadi di conseguenze invisibili agli occhi altrui, ai normali, alla massa. Lo stesso ragionamento lo aveva applicato a Werner e Gíta, al club V, a Johanna, e alla valanga di pezzi di merda che stavano rendendo quell'anno di preparazione a Reykjavík un vero inferno. Ma a questo punto il quesito rimaneva uno e uno soltanto: perché Ber la stava fissando come se erroneamente, dopo quella confessione, fosse diventata a tutti gli effetti una di loro?
L'agognata risposta la colpì con la stessa ferocia di un cazzotto sullo sterno.
"Se ti dicessi che posso aiutarti e che non hai nulla che non va, tu cosa mi risponderesti?"
Lóreley strinse i pugni. "Che sono un tantino più spaventata di prima".
"E perché?"
"Perché vuol dire che tutto questo è reale".
"L'Islanda è un posto di merda, Lór" Ber sospirò. "Presto scoprirai il perché".
✖ Nel prossimo capitolo, "Fare parte di qualcosa":
"Johanna ti ha maledetta non una, ma ben due volte" intervenne Ber, la voce affilata come la lama di un coltello. "In luna piena, il ventisei settembre, e in luna nuova, il ventinove" puntualizzò. "Fattura penalizzante, per la precisione, ed è possibile solo tramite l'utilizzo di capelli, difatti ne ho trovati due, di sacchetti. In teoria dovresti essere già bella che allettata da alcuni giorni, se non settimane, eppure tu cammini ancora. Neanche io sono in grado di contrastare una maledizione simile, figuriamoci due... come hai fatto a svignartela? Cos'hai praticato?"
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