10. Di post-it gialli e rosa
La vivace campagna di Saint-Médard, bella come non mai in primavera, vestiva adesso le sfumature del lutto.
Il grigiore sprigionato dal maltempo aveva sciolto ogni traccia di colore all'interno dello studio. Audrine fissava con insistenza il registratore ancora acceso, a corto di parole quanto di speculazioni, e la luce lattiginosa che inondava la stanza aveva reso la pelle di Lór più chiara di quanto già non lo fosse. Sembrava una bambola di porcellana, tanto che si ritrovò a guardarle il petto un attimo più tardi, giusto per assicurarsi che stesse respirando. Che fosse viva, concreta e tangibile, e non una sorta di allucinazione o materializzazione dell'impossibile. Perché dalle ultime strofe di quel racconto inverosimilmente accurato e distorto, qualcosa di agghiacciante era infine trapelato.
L'atteggiamento della sua paziente era cambiato, oltretutto, e su questo non c'erano dubbi. I timori della ragazza che le si erano palesati a inizio seduta non c'erano più, lasciando spazio a un comportamento poco antropico e spaventosamente analitico. A lei spettava di diritto quel ruolo, non a una ventiduenne a cui, perlomeno, erano stati diagnosticati una depressione latente e un disturbo legato alla sindrome dell'abbandono.
Ora e in apparenza Lóreley non era più Lóreley; la postura dritta e lo sguardo affilato, tipico di una persona sicura di sé e delle sue convinzioni, ne erano testimoni diretti. Pareva che avesse rimosso in maniera definitiva quel freno emotivo che, stando alle vicende di Paskúm accadute meno di un anno e mezzo prima, aveva adottato come bloccante per non soffrire più. Il fattore scatenante di quel repentino cambiamento non era però chiaro ad Audrine. Appena varcata la soglia dell'ufficio, Lór si era comportata alla sua solita maniera, non sbilanciandosi più del dovuto e mostrando la tipica insicurezza a cui aveva fatto l'abitudine. Con l'infittirsi della storia, invece, qualcosa era mutato. E questo non riguardava soltanto il lato caratteriale, altroché.
"Non ha domande da fare a riguardo?"
"Ci sto pensando".
"Sembra perplessa" ammise Lór, accavallando poi le gambe.
"Certo che lo sono".
"Non capisco il perché".
La dottoressa si scostò le ciocche brune con due dita, rimaste incollate alla fronte sudaticcia. Sentiva caldo, nonostante il temporale che infuriava all'esterno avesse raggiunto il culmine della sua violenza. "Mi hai parlato di stregoneria con una facilità disarmante, è normale che i conti comincino a non tornarmi" si confidò.
"Io non l'ho mai definita stregoneria".
"Quello è il suo ramo di appartenenza".
"Ne è davvero così sicura?"
Audrine fece per aprire bocca, le parole che frenetiche si rincorrevano sulla sua lingua, e l'unico suono che le varcò le labbra fu una sorta di lamento stridulo.
S'irrigidì. Riuscire a parafrasare i suoi pensieri fu una sfida senza precedenti, ragion per cui optò per un silenzio a breve termine, sorretta nella carne dall'imbarazzo e da spaventose vampate di calore. Perché sentir parlare di maledizioni spiritualmente ed eticamente poco coerenti con la realtà che la circondava non era cosa di tutti giorni. E che l'imputata in questione, la famosa Edith casa-e-chiesa, fosse stata una vittima consapevole di questo.
L'ennesima lama di vento s'infranse contro la finestra arcuata, facendone vibrare i vetri umidi di pioggia.
"Posso capirla, comunque. Lei che è incastrata nel pericoloso paradosso della normalità non potrebbe comunque arrivarci. Non lo dico mica per sminuirla, mi è sembrata una tipa a posto sin dalle prime sedute" convenne Lóreley senza peli sulla lingua, correndo in suo soccorso. Voleva giustificarsi a ogni costo, o giustificare l'incomprensione di Audrine verso quel che era diventata. "Quindi non si sforzi di capire, lo dico per il suo bene. Ha detto di voler ascoltare, giusto? Lei è brava in questo. Lo faccia. Lo faccia e basta".
Audrine chiuse gli occhi, mentre l'ombra di una nuova consapevolezza le calava addosso, sull'anima. Senza rendersene conto aveva oltrepassato la linea di confine che frazionava la professionalità dalla sua smania di sapere. Due essenze diametralmente opposte tra loro, distanti quel giusto da negarle un'empatia diretta coi suoi pazienti, anche i più stretti e abituali.
"Siamo giunte a una condizione, allora. Tu parli, io ascolto. Non male, non male. In fondo è questo il ruolo che più mi si addice".
"L'avevo dato per scontato fin da subito, Audrine. Se sono qui, lo devo solamente al mio senso del dovere. E al desiderio di non voler tacere più".
"Nessuno ti ha mai obbligata a tacere, Lóreley".
"Oh, invece devo contraddirla nuovamente: certo che sono stata costretta a farlo. La sua reazione alla storia di Edith è un esempio lampante. Insomma, è da pazzi anche solo pensarlo, no? Però posso dirle che è vero, sta a lei crederci o meno. Che motivo avrei di mentire? E non parlo solo di questo, ma anche di lui".
"Sarebbe sbagliato chiederti quanto sia reale per te e perché, a questo punto".
"Perché dovrebbe?" domandò a sua volta la paziente, umettandosi le labbra. "Lei non ha alcun bisogno di capire, deve solo ascoltare. Quanto vero o meno sia Bodvár, o di come io abbia salvato Gaël poco le deve importare. Quel che scriverà nella mia cartella clinica, poi, non sarà affar mio. Io sono già scesa a patti con me stessa... ma ho da sciogliere questo nodo al dito prima di andare via. L'ho giurato e i giuramenti sono più difficili da rompere a dispetto di una promessa fatta a cuor leggero".
Audrine schiuse le palpebre, riprendendo quel poco di colore sulle guance concessole dall'anemia. "A chi l'hai giurato?"
"A mio padre".
"Lui quanto ne sa?"
"Forse poco, forse troppo, o molto probabilmente niente. È difficile dire una verità simile a chi ami. Non voglio che soffra".
"Soffra per cosa, in particolare?"
"Per la mia condizione. Ma al momento è un particolare insignificante: ho cose più importanti da raccontarle".
"Concordo sul tuo cambio di programma".
Nel mezzo del biancore che le smussava i tratti duri del viso, un sorriso inaspettato si palesò sulla bocca Lóreley. L'orologio segnò le tre e mezzo e un tuono vicino le coprì la voce.
"Già. Il tempo stringe".
14 ottobre 2011
"Salve, signora Østergaard, qui è Lóreley Dubois che parla, la figlia che di tanto in tanto dimentica di avere. Cosa posso fare per lei?"
Dall'altro capo del telefono, attutito da un'imprecazione che tanto sapeva di quando torni a Selfoss ti faccio un culo così, Anaïs si lasciò sfuggire uno sbuffo. "Smettila di fare la stronza, sai che quando sono all'Hekla non posso chiamarti".
"Ah-ah, certo" Lóreley roteò gli occhi, cerchiati da due mezzelune nere, e crollò sul letto sfatto. "Hai ragione, hai ragione, scusa. E com'è che adesso c'è campo? L'utopica politica d'Islanda ha provveduto anche a questo?"
"No. Ho appena messo piede in casa, quindi ho ben pensato di sentire la figlia che mi ha quasi sventrata con i suoi tre chili e che ogni tanto dimentico di avere".
"Che schifo".
"C'era tanto sangue e l'ostetrica ha dovuto tirarti fuori con le pinze, figurati".
"Mi correggo: sei tu a far schifo, mamma".
"Modera il linguaggio, signorina. Di ceffoni non te ne ho dati abbastanza, a quanto pare".
"Concordo. Notizie dal fronte?"
"Tutto tace per il momento. E poi mi hanno affiancata un'equipe di coglioni, tra cui spicca senza dubbio tuo zio. Per non parlare di quel suo amico di bevute... l'omaccione barbuto, il tipo che mi ha fatto la corte alla festa di Ófeigur un paio d'anni fa... come diavolo di chiama..." un tonfo interruppe il monologo esperienziale di Anaïs: doveva aver lanciato il borsone per calmare i bollenti spiriti. "... Va beh, comunque sia: stare chiusa in un container con sei imbecilli non è il massimo".
"Allora si può sapere perché hai accettato?"
"Ricordi dell'Hekluskógar?"
"Ahm... no".
"Come al solito, è già tanto se ricordi di dividere i bianchi dai colorati".
Lór batté un pugno sul materasso pur di non mandarla a quel paese. I granelli di sabbia rimasti incagliati tra le lenzuola le graffiarono la pelle, vincolandola al ricordo di Gaël. Erano trascorsi tre giorni dalla disavventura in spiaggia e di cambiare le coperte proprio non se ne parlava: a malapena aveva avuto il tempo di metabolizzare quella catastrofe preannunciata, figuriamoci il resto. Una cosa era però certa... quella doccia tanto agognata, prima di morire sul letto la notte dell'undici, avrebbe pure potuto farla.
Lór rotolò a pancia in sotto, mentre il prurito le divorava a mozzichi e bocconi ogni centimetro di pelle. "Grazie per la dritta esistenziale, mamma. Potresti gentilmente ricordarmi cos'è il Hekluskógar?" mugugnò.
"È il progetto di rimboschimento dell'area attorno all'Hekla su cui stiamo lavorando. La poca attività vulcanica degli ultimi undici anni ci fa sperare in meglio. Sai che succede se questa cosa va in porto?"
"Illuminami".
"Riuscirò finalmente a farmi una posizione! Verrà avviata una raccolta fondi, rilascerò dei comunicati stampa, andrò in TV... dai, la TV!"
"Quindi sarai famosa" commentò, strusciando il palmo contro il muro per liberarsi dal pizzicore.
Anaïs titubò, colta in fallo. "Beh... nel mio ambito, diciamo. Ma voglio continuare a pensare positivo! Fra circa tre settimane sapremo con certezza il responso. O la va, o la spacca".
Nel suo piccolo, Lóreley sorrise incrociando le dita. "Forte. Sono contenta per te, mamma".
"Ovvio che lo sei: io non ti ho mai delusa, figlia mia. Ci mancherebbe".
Quando ebbero finito di aggiornarsi e Lór riattaccò, il sorriso le morì sulle labbra assieme alla contentezza. Lasciò cascare il capo in avanti e immerse il volto nel cuscino per soffocare un lamento. Nella vita degli altri tutto sembrava filare per il verso giusto, senza incidenti di percorso o brusche deviazioni, tranne che nella sua.
L'euforia scaturita dalla resurrezione di Gaël –mista alla soddisfazione di essersi presa una rivincita contro la morte– si alternava a stati d'animo non proprio catartici e felici. C'erano momenti in cui sentiva esplodere dentro il bisogno di rassicurarsi, di dirsi che andava tutto bene e di non aver scombussolato alcuna legge regolatrice dell'andazzo cosmico o, peggio, manomesso lo scorrere del tempo stesso. Un attimo dopo tornava però vigile, armata dello spiccato senso da buon samaritano trasmessole da Marcel e si abbandonava alla finta quotidianità che si respirava alla Fær Øer, soddisfatta dell'operato, il suo operato.
Ma soddisfatta di cosa, poi? Aveva avuto modo di salvare il più detestabile, acido ed egocentrico pezzo di merda nato sul suolo islandese; l'ultima persona sulla faccia della terra che mai avrebbe voluto conoscere, odiare e... rianimare. Nessuno di reale, per giunta, le aveva puntato una pistola alla tempia per obbligarla a compiere l'infattibile. Nessuno di vivo, almeno, di carne, ossa e sentimento come lei. Semplicemente si era fatta trascinare dagli eventi, aveva dato adito alle sue paranoie e quella grottesca epopea era giunta al termine proprio sul lungomare di Reykjavik.
Già che si rimetteva in piedi, Lóreley si trascinò dietro la matassa di coperte, tirandole con non poca foga. Se le appallottolò tra le braccia nel mentre tornava davanti alla scrivania, il muro di fronte rimpinzato di post-it colorati, tutti e venti disposti in due file verticali. I fogliettini gialli riportavano in corsivo le sfighe di Ían, su quelli rosa confetto c'erano invece appuntate le predizioni che l'avevano condotta a Gaël. Gli spoiler poco graditi, le ferite premonitrici, la casualità in veste di spirito guida e il fottuto corvo a banchettare con la sua disperazione erano elementi speculari e ricorrenti in entrambe le vicende. Questo non poteva tuttavia dirsi del tempo di manifestazione degli eventi: la futura morte di Gaël l'aveva anticipata di quattro settimane, quella di Ían, per quel poco che ricordava, di una soltanto.
Facendo un breve calcolo statistico –e mettendo anche in conto che all'epoca dei fatti era poco più di una bambina– Ían sarebbe morto in ogni caso, date le circostanze poco fattibili. Allora perché mostrarglielo?
Lór lasciò cadere il malloppo di sabbia e cotone a terra. S'impicciò le mani tra i capelli e s'aggrappò con le unghie alla testa, tanto forte da farsi male. Se avesse predetto un'altra tragedia, come avrebbe dovuto reagire? E se nella migliore delle ipotesi avesse continuato a soccorrere estranei, fregandosene di chissà quali conseguenze, cosa sarebbe accaduto? Cosa le sarebbe successo?
Niente aveva un senso apparente e niente era sotto il suo controllo. E nella confusione momentanea il suo cervello si decise a partorire il pensiero più agghiacciante e nonsense della giornata.
Che ci fosse qualcuno o qualcosa a manipolarla da dietro le quinte.
✖ Nel prossimo capitolo, "Raggio di sole":
"Prima regola del manuale del buon rimorchiatore: evitare di nominare l'acerrima nemica della tua preda in un momento così intimo e demenziale. Mai tirare in ballo quella stronza di Johanna nelle vicinanze di Lóreley Dubois, a essere precisi, e il repentino cambio d'espressione di quest'ultima ne fu la prova. Tutto d'un tratto le tornarono magicamente alla mente, a suon di bidibi bodibi bu, le vicende che l'avevano allontanata dall'idea di frequentare Werner. La sua scarsa dedizione ai ragazzi era la prima in assoluto, il driver-ricatto nelle mani dello scapolo del Samkaup la seconda, gli avvertimenti di Gíta la terza. E l'ultima, non meno importante delle precedenti, l'incomprensibile amicizia Werner/bionda-atomica."
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