Capitolo 1: Tempesta
Ho fatto un sogno la notte scorsa...
Mi trovavo in una distesa di neve. Il vento gelido mi tagliava il viso, e mi faceva lacrimare gli occhi. Tutto attorno dei corvi volavano, emettendo un gracchiare terrorizzato, come se si aspettasero che qualcosa di terribile stesse per accadere.
Non riuscivo nemmeno a scorgere il cielo sopra di me, a causa delle fitte nubi nere cariche di tempesta. Saette e tuoni riempivano l'aria e fu allora che la terra tremò, spaccandosi e creando voragini enormi, dalle quali fuoriuscivano fuoco e lava. Non feci in tempo a muovermi, che sotto ai miei piedi si aprii una crepa delle dimensioni di un canyon, ed io caddi verso le fiamme, ed un inesorabile fine.
Ma alzando gli occhi, mentre cadevo, lo vidi: un arcobaleno si stagliava nel cielo illuminando la notte.
Mi svegliai subito, col fiatone e la fronte imperlata di sudore. Era molto presto, le sei del mattino per la precisione. Oh cavolo, non mi sono presentato!
Mi chiamo Mark Duncan. Ho diciannove anni, quasi venti. Abito con mio padre, da quando mia madre... non c'è più.
Mi alzai dal letto, cercando di fare meno rumore possibile. Mi vestii con degli abiti che avevo preparato la sera prima: un paio di jeans scoloriti, un po' strappati sulle ginocchia, e una camicia di flanella, che finii di abbottonare mentre uscivo di casa.
Il vento fresco della mattina mi svegliò del tutto. E il panorma mi mise di buonumore:
Il sole stava sorgendo oltre l'orizzonte, tingendo il cielo di sfumature arancioni. Abitare in una casa sulle montagne canadesi ha i suoi vantaggi.
Tornai in casa, per la colazione. Avevo davvero bisogno di un caffè. Quando arrivai in cucina mio padre, Cole, era gia sveglio e si era versato una tazza di caffè. Era seduto a tavola, sfogliando il giornale.
Mio padre è una bravissima persona. A differenza dei miei capelli corvini, lui li ha biondi. Ma in compenso il colore degli occhi è lo stesso: azzurro.
Alzò lo sguardo dal giornale sorridendomi -Hey, sei sveglio.- mi disse.
-Si, ero uscito a prendere un po' d'aria.- sorrisi, versandomi una tazza di caffè e sedendomi a tavola.
-Dormito bene?- mi chiese, sereno.
Alzai le spalle -Abbastanza, ho fatto uno strano sogno.- risposi.
-Racconta.- mi incitò.
Iniziai a parlargli del sogno, e man mano che proseguivo nel racconto sul volto di mio padre si dipinse un'espressione preoccupata.
Alla fine della storia, era pallido in volto... strano.
-Credo tu debba andare a scuola.- disse alzandosi, lasciando le chiavi del suo pick up sul tavolo, e dirigendosi verso l'unica stanza della casa a cui non mi era permesso l'accesso: il seminterrato.
Una volta avevo provato ad entrare, quand'ero molto più piccolo, e ricordo quanto si arrabbiò. Da quel giorno non mi ero più azzardato ad avvicinarmi a quella soglia.
Finii la "colazione", presi lo zaino, indossai il giaccone ed uscii.
Salito sul pick up, chiamai Erik, il mio migliore amico. Siamo amici fin dalle elementari. È un bravissimo ragazzo, sempre allegro, solare. Non si è mai cacciato nei guai in vita sua. O meglio, qualche volta si, ma solo per tirare fuori me dai casini.
-Hey Mark!- rispose, col suo solito tono divertito.
-Hey Erik!- risposi io -Sto partendo ora da casa, ti passo a predere?- gli chiesi.
-Nah, oggi non serve. Rachel ti ha anticipato, ci vediamo a scuola d'accordo?- disse.
Rachel è la nostra migliore amica. La conosciamo dal liceo, e da allora è diventata una parte integrante della nostra vita. È la migliore! Sempre dolce con tutti, molto determinata e a volte testarda, per certi versi.
-Bene allora, ci vediamo laggiù.- chiusi la chiamata, e misi in moto diretto verso l'università di Edmonton.
Sono a metà del primo anno, ho appena iniziato il secondo semestre e sto studiando per diventare psicologo. Mi è sempre piaciuta l'idea di aiutare le persone, ma ho una specie di fobia per gli aghi e le cose affilate, quindi il medico era fuori discussione. Così ho pensato che ci sono altri modi per aiutare la gente, ovvero curando la loro mente.
Tornando a noi, arrivai a scuola, presi le mie cose ed entrai.
Ed appena entrato fui vittima di Sam McLean. Non vi ho parlato di lui vero?
Sam è un mio buon amico, non al livelli di Erik e Rachel ma so che mi posso fidare di lui. Non so perché, ma prova un senso di rivalità verso di me. Cosa che è in contrasto con il suo atteggiamento calmo e riflessivo.
Tende molto a riflettere prima di agire, pensa a un piano A, un piano B, fino alla Z se serve. E, cosa che mi fa un po' rosicare, ha un discreto successo con le ragazze. Saranno i capelli castani, o gli occhi verdi, non lo so.
-Che si dice Duncan?- mi si affiancò, dandomi una pacca sulla spalla.
-Ti vedo di buon umore oggi, McLean.- risposi.
-Allora, hai intenzione di dare qualche esame questo semestre?- mi punzecchiò.
-Ti ricordo, che il semestre scorso ne ho dati più te!- risposi a tono.
Funziona così tra di noi: ci punzecchiamo, ci sfidiamo, ma alla fine finiamo per aiutarci.
La mattinata passò in maniera molto tranquilla, normale routine universitaria.
A pranzo mi incontrai con Erik e Rachel, nella caffetteria dell'università.
-Ciao amico.- diedi il cinque a Erik, che rispose al saluto sorridendo -Hey fratello!- disse. Salutai poi Rachel, con un rapido bacio sulla guancia.
-Hey!- mi salutò lei, anche lei stampando un bacio sulla mia guancia.
Mi avvicinai al suo orecchio per sussurrarle -Allora, ci hai provato anche stamattina?- ridacchiai. La vidi prima avvampare, e poi colpirmi al petto con uno schiaffo. Sapeva benissimo di cosa parlavo: del suo innamoramento per Erik. Praticamente chiunque ci conosce, sa dei sentimenti che Rachel prova per il mio amico. L'unico abbastanza ottuso da non notarlo, è proprio lui.
-Ho fatto un sogno assurdo ieri sera!- esordii a metà del nostro pasto. Avevamo ordinato e ci eravamo seduti a pranzare. E tra un'argomento e l'altro, mi era venuto in mente di parlarne con i miei amici. Magari mi aiutavano a trovarci un senso.
Ma anche loro, dopo averglielo raccontato, erano più confusi di me.
-Ti sei drogato prima di andare a dormire, si?- mi chiese Erik, guardandomi come se fossi pazzo.
-Mark, non tutti i sogni hanno un'interpretazione.- aggiunse Rachel.
-No questo è diverso Rach, me lo sento: c'è qualcosa dietro!- dissi, convito.
Ma siccome i miei amici sono più testardi di me, scossi le spalle, rassegnato, decidendo di dare per buona la loro ipotesi.
Magari avevano ragione.
La giornata passò rapida, tra una lezione e l'altra. Mi piacevano molto le materie che studiavo lì, per questo mi sembra quasi incredibile quello che sarebbe successo di lì a pochi giorni.
Tornato a casa, trovai mio padre al telefono. Stava discutendo animatamente con qualcuno.
-NO! Non se ne parla! Sai benissimo cosa comporta sapere!- quasi urlava.
Attirai la sua attenzione, salutandolo con la mano. Quando mi vide, quasi sbiancò.
-James, ti richiamo io.- disse, chiudendo la telefonata.
-Era lo zio James?- chiesi.
James, è il fratello di mio padre. Tempo fa veniva molto spesso a casa nostra, anche solo per salutare. Ma da quando mamma è morta, ha smesso di venire. Anche le chiamate sono diminuite. Avevo provato chiedere a papà di che fine avesse fatto, ma lui aveva cambiato discorso. Quindi il fatto che avesse chiamato oggi, era quasi un evento.
-Si, dovevamo parlare di- si bloccò, come se fosse sul punto di rivelare qualcosa, ma poi aggiunse -Affari importanti.- salvandosi all'ultimo.
Annuì, accettando quella risposta mio malgrado -Vogliamo mangiare?- dissi, dirigendomi verso la cucina.
A metà della cena, composta da una pizza surgelata ciascuno, mio padre prese la parola. Era molto serio, e la voce quasi gli tremava. Sembrava non essere un'argomento facile per lui.
-Mark, c'è una cosa di cui ti voglio parlare.- disse.
-Dimmi pure, ti ascolto.- dissi. Volevo davvero sapere che cosa gli era preso oggi. Era da quella mattina che era strano, e ora volevo sapere perché. Aprì la bocca, per iniziare a parlare, ma proprio in quel momento la casa venne scossa. Le pareti tremarono, così come il soffitto. Il lampadario della sala da pranzo iniziò ad oscillare, e le porte delle credenze si aprirono. Alcuni bicchieri e piatti cadderò, infrangendosi in mielle pezzi.
Mio padre si alzò, scuro in voltò, mormorando -Pensavo di avere più tempo.-
Mi guardò, e per poco non morii di terrore. Il suo sguardo era diverso, colmo di rabbia.
Si alzò diretto verso l'esterno, ed io lo seguii.
-Mark, chiudi la porta a chiave. E non uscire.- disse.
-Che sta succedendo papà?- chiesi preoccupato.
-Vieni fuori!- urlò qualcuno dall'esterno. Era una voce profonda, roca e sibilante, dal tono rabbioso.
-So che ci sei, Thorsson!- urlò di nuovo.
Di chi diavolo stava parlando?!
Mio padre aprii la porta, cercando di chiuderla alle sue spalle per lasciarmi dentro casa. Beh, io la pensavo diversamente. Prima che potesse farlo, uscii affiancando mio padre.
E lo vidi. Un uomo alto, pallido e magro. I capelli neri e grigi, lunghi, erano raccolti in dread fini, annodati tra loro a formare una coda.
Era vestito con un completo nero, indossato su una camicia nera, adornata da una cravatta in pelle di serpente.
Teneva gli occhi verdi chiaro fissi su di noi.
-Ti immaginavo più alto, ma sei definitivamente quello che cercavo.- disse, accarezzandosi il mento e guardando mio padre dall'alto in basso.
-Chiunque lei stia cercando, non è qui.- fu la risposta calma e seria di mio padre.
-Lo sai benissimo cosa voglio.- disse quasi sottovoce. -Sei l'ultimo della tua stirpe. Abbiamo già dato la caccia agli ultimi. Ora- estrasse un coltello -Tocca a te.- La lama brillava alla luce del sole.
L'uomo mi guardò fisso -Vedo che il bottino sarà doppio oggi.- ridacchiò. Puntò il coltello verso mio padre -Prima faccio fuori te.- disse, poi lo puntò verso di me -Poi mi libero di tuo figlio.-
Inditreggiai, spaventato. Le gambe mi tremavano.
-E infine mi prendo la tua eredità!- rise a squarciagola.
Tutt'intorno a noi, dei corvi si alzarono in volo, gracchiando.
Mio padre guardò il cielo notturno, e dopo aver mormorato sottovoce un "mi dispiace", tese la mano verso la casa.
Il cielo, terso fino ad allora, si annuvolò di nubi nere. Un rombo di tuono si diffuse tutto attorno, e una scarica di saette squarciarono il cielo. E fu allora che da casa nostra, creando un buco nel tetto, volò nella mano di mio padre un martello avvolto da scariche elettriche.
Non aveva una forma normale: era un pentagono, schiacciato sulla sommità, inciso di vari simboli e disegni. Il manico, corto, adatto ad essere impugnato con una mano, era ricoperto di un laccio di cuoio. Le scariche elettriche scaturivano dalla sommità del martello, lo percorrevano e si disperdevano una volta arrivate alla mano di mio padre.
Lo sconosciuto deglutì. Nei suoi occhi vidi passare prima lo sgomento e poi la paura.
Ma poco dopo sul suo viso si dipinse un espressione arrogante e spavalda.
-Allora non mi sbagliavo.- ridacchio, con quella voce sibilante.
Fu allora che scattò. Non riuscì a seguirlo con l'occhio, lo vidi solo quando venne fermato da mio padre.
Era arrivato con la lama vicinissima al mio collo, ma mio padre era stato abbastanza rapido da afferrargli il braccio e bloccarlo.
E in un attimo, ruotando su stesso, lo colpì con il martello allo stomaco.
Un colpo simile avrebbe ucciso chiunque, ma lo sconosciuto si limitò ad indietreggiare e barcollare.
Ero pietrificato. Le gambe mi tremavano.
-Mark.- mio padre richiamò la mia attenzione.
Lo guardai, spaventato.
-Queste potrebbero essere le ultime parole che avrai da parte mia.- disse, mesto.
-Papà, cosa...- ebbi la forza di dire.
-Quando questo sarà finito, comunque vada, va nel seminterrato. Guarda in giro, cerca di comprendere. E una volta che ne sarai venuto a capo, va da tuo zio James. Lui saprà come aiutarti.- disse, tutto d'un fiato. Sembrava un discorso preparato, come se sapesse che tutto questo sarebbe successo.
Cercai di restare in piedi, ma le gambe cedettero. Caddi in ginocchio alle spalle di mio padre.
Lo sconosciuto non aspettava altro. Con dei movimenti rapidi e sinuosi si spostò alle mie spalle.
Con una risata sguaiata, alzò il braccio e fece calare la lama verso di me.
Non capì come, o perché, ma mio padre si frappose tra me e il coltello.
La lama gli oltrepassò il petto, sul lato sinistro. Mancare il cuore, sarebbe stato impossibile.
Il martello gli cadde dalla mano, a pochi centimetri da me.
-Questo è per la mia gente. Per tutte le vittime che quella cosa- guardò con disprezzo l'arma -ha mietuto. Questa è la nostra vendetta.- mosse la lama nella ferita, facendo urlare di dolore mio padre.
Nonostante la paura, la rabbia iniziò a scorrermi in corpo. E in un attimo di incoscienza, o forse in una scarica di adrenalina, mi lanciai sul martello.
Afferrai il manico, aspettandomi di dover imprimere una quantità smisurata di forza anche solo per muoverlo. Invece l'arma risultò anche troppo leggera nella mia mano. Lo alzai al cielo, sotto gli occhi stupiti di mio padre e dell'assassino, e prima che l'adrenalina lasciasse il mio corpo lo scagliai contro lo sconosciuto.
Non so se perché lo avessi preso di sorpresa o se per la forza del martello, ma lo scagliai via.
Il martello lo spinse con una forza disumana oltre lo steccato del nostro giardino e oltre la salita che portava a casa nostra. E non si fermò. Continuo ad avanzare, a velocità impressionante, superando la foresta e finendo sul crinale della montagna più vicina.
Mentre scompariva assieme al martello lo sentì gridare -Non finisce qui, maledetti assassini. Vi troverò di nuovo!-
Non me ne preoccupai allora, avevo altro a cui pensare.
Corsi da mio padre, accasciato sull'erba.
Gli presi la testa e gliela sollevai -Papà!- gridai nel panico.
-Mark...- biascicò, con un filo di voce.
Provai ad estrarre la lama, ma mi scottò la mano. Era come se fosse intrisa di una qualche sorta di sostanza abrasiva.
Mio padre tossì, sputando quello che sembrava sangue, nonostante il colore nero e il fumo che emanava.
-Mark...- disse ancora mio padre -fa... Come ti ho detto. Promettilo.-
Annuì, con le lacrime che mi rigavano il volto -Lo prometto.-
-Bene... Ti...- disse mio padre, spirando con un sorriso in volto.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top