In volo

Un bagliore accecante illumina a giorno il piccolo abitacolo flagellato dal temporale, poi un boato sovrasta il rumore del motore sotto sforzo e quello della pioggia, sospinta a raffiche dal vento, violento e incessante.

Brividi, di freddo e di paura. Imprecazioni incomprensibili del pilota, che armeggia affannato con la radio, priva di segnale, per poi riagganciare con rabbia il microfono sulla scarna consolle, accompagnando il gesto con un "Madre de Dios!"

Al fulmine successivo la mamma grida e mi prende la mano. Seduto davanti con Carlos, che non riesce a governare il piccolo Cessna, c'è papà. Si gira verso di noi, con occhi preoccupati.

"State tranquille, qui sono abituati a questi nubifragi."

L'espressione con cui ci guarda tradisce però i suoi reali timori. È pallido e ha gli angoli della bocca tirati, come se gli venisse da piangere. Se non dovesse rassicurare noi, magari lo farebbe. Questo è il pensiero che mi passa per la testa. Troppo maturo per i miei tredici anni, forse, come mi ripetono tutti.

Poi un altro lampo squarcia il cielo. Il tuono è quasi istantaneo. Significa che era molto vicino, l'ho imparato a scuola. Non promette bene.

Papà chiede a Carlos il motivo dei continui sobbalzi dell'aereo. Tutti ci rendiamo conto ora che il motore fa un rumore strano, mentre veniamo sospinti in alto e in basso da quella che è diventata una vera tempesta tropicale.

"Il vento, seňor. L'aereo non regge il vento... Siempre más fuerte."

Mentre pronuncia queste parole c'è un pauroso vuoto d'aria. Lo stomaco mi sale in gola mentre perdiamo quota. Io e la mamma strilliamo.

Ho paura di morire e mi accorgo di avere gli slip bagnati. Me la sono fatta sotto.

Quando l'aereo scende bruscamente, si sente il motore fare un rumore impazzito, come se non avesse più l'elica. Poi riparte un rombo costante e risaliamo un po'.

"Papà, mi sento male! Stiamo precipitando...?!"

Grido per farmi sentire, per sovrastare tutto il frastuono.

"Vuoti d'aria... Sono i vuoti d'aria, Linda. Stai tranquilla, Carlos sa cosa fare."

È come sentire il rumore del frullatore a immersione di casa, solo enorme. Quando la mamma sollevava il nostro oltre il livello dell'impasto, girava più velocemente. "Dipende dalla densità, che cambia tra il liquido e l'aria", mi spiegava. Avevo provato anche io a ripetere l'esperimento, ma quando l'ho alzato ho riempito la cucina di preparato per dolci. Non ho più voluto sapere nulla di motori.

Ora ho scoperto cosa significa in pratica vuoto d'aria: l'elica e le ali non hanno nulla a cui aggrapparsi e sembra che tutto sprofondi in una voragine.

Scivoliamo giù inesorabilmente, ancora più in basso e senza preavviso.
Questa volta grida anche papà, perché ci pieghiamo lateralmente, con un brusco scossone. Se non fossi legata con le cinture, volerei in braccio alla mamma, sul lato opposto. Anche per l'aereo è importante l'inclinazione, a quanto pare. La somiglianza col frullatore è più forte del previsto, ma l'immagine non mi diverte, questa volta.

Ancora una raffica violentissima. Il velivolo si sposta di lato, ha uno scuotimento e si sente uno scricchiolio della parete di fianco a me. Poi un nuovo fragore luminoso, con un intervallo sempre più ravvicinato fra lampo e tuono. Cade quasi addosso a noi.

"Aiuto mamma! Noo."

Nel nuovo sobbalzo mi vola di mano il telefono, che scivola sul fondo di plastica del vecchio abitacolo. È disattivato, ma lo avevo tenuto fuori dal bagaglio per fare le foto, quando siamo partiti. Rimbalza contro il tessuto dei sedili, sporchi e un po' sdruciti, e si ferma per terra a faccia in su, con il vetro spaccato. È come uno schiaffo. Capisco improvvisamente quanto sia grave la situazione e mi metto a piangere. 

Ora c'è una fortissima vibrazione in tutta la carlinga e non sembra un buon segno. Anche papà si guarda intorno preoccupato.

È ingegnere e stiamo andando a Manaus per conto dell'azienda per cui lavora. Mi ha spiegato lui tutte queste cose sugli aerei, mentre attendevamo che il pilota finisse di fare il pieno di benzina. Doveva essere un volo di poche ore sopra la foresta amazzonica, ma sta diventando l'incubo più lungo della mia vita.

Ancora un colpo, rumore di lamiere che si flettono sotto la spinta del vento. Un lampo, un boato, in sequenza rapida, senza il tempo di prendere un respiro. Un altro vuoto d'aria, più violento. Mi sento mancare.

"Dobbiamo atterrare, seňor. Atterraggio di emergencia", dice il pilota nel suo inglese stentato, mischiato con parole della sua lingua. È peruviano, di Tarapoto, ci ha raccontato nella prima parte del viaggio, quando tutto era tranquillo e non avrei mai pensato di poter provare una paura simile.

"Ma c'è solo foresta, ci schianteremo!"

"Il motore non risponde! Dobbiamo atterrare!"

"Mio Dio!", dice la mamma, mettendosi le mani fra i capelli.

Non è mai stata molto coraggiosa. Lei nemmeno ci voleva venire in Brasile. Ha insistito papà, per fare insieme un viaggio metà vacanza e metà lavoro. Ora non saprei dire in quale metà ci troviamo, ma sto zitta. Il mio umorismo non verrebbe apprezzato, in questo momento.

Fuori è quasi buio per le nuvole, anche se è solo pomeriggio. Vedo il viso bianco di papà nel chiarore dei lampi che illuminano l'orizzonte. Sta guardando fuori, dal suo lato, come fa anche il pilota dall'altra parte, per trovare un posto adatto. Indica a Carlos un punto in basso. Lui si sporge per vedere meglio, annuisce e gira la cloche verso destra. L'aereo si inclina, permettendo anche a me di guardare sotto, attraverso il piccolo finestrino posto troppo in alto per una ragazzina.

Foresta, nient'altro che foresta. Alberi ovunque, d'un verde che ho visto solo qui, in Brasile. Luminoso, acceso, un autentico smeraldo. Un bagliore si riflette nei fiumi che solcano la terra incontaminata di questa regione. Noto un profilo di collina, ricoperta di vegetazione, come tutto il resto.

Carlos si gira un momento e ci esorta a parole e gesti a fare qualcosa che non riusciamo a comprendere.

Interviene papà.

"Tenete la testa fra le braccia e piegatevi in avanti, contro il sedile di fronte a voi!"

Facciamo fatica a sentirlo. Alla fine, grazie ai suoi movimenti, capisco che dobbiamo metterci nella posizione più sicura in caso di urto.

Il rumore della pioggia adesso è infernale.
I tergicristalli faticano a tenere il parabrezza pulito. Non so cosa stiano realmente vedendo loro due, lì davanti.

"Prega, Linda. Prega anche tu, mi dice la mamma, lasciandomi la mano per assumere la posizione raccolta."

Do un'ultima occhiata fuori, mentre ci incliniamo paurosamente per completare la virata. Poi non vedo più la foresta. Ci siamo riallineati, per provare l'atterraggio. Chiudo gli occhi e seguo il consiglio della mamma.

Sento che Carlos e papà parlano ad alta voce con tono concitato, per sovrastare il rumore, ma non colgo bene le parole. Allora sbircio nella loro direzione. Carlos si fa un rapido segno della croce e bacia la medaglietta d'oro che porta al collo. Richiudo gli occhi maledicendo la mia curiosità.

Sentiamo un colpo, in basso. Io e la mamma gridiamo nello stesso momento. Poi capiamo. Sono i rumori delle fronde più alte che si spezzano contro il carrello. Siamo scesi molto e stiamo urtando i rami. Rallentiamo.

Non ho idea di dove il pilota voglia provare ad atterrare: durante la virata ho visto solo alberi e acqua. Rabbrividisco pensando ai coccodrilli, ai serpenti e ai piranhna. Ma perché ho letto tutte quelle cose sull'Amazzonia? Accidenti!

Ora non ho più tempo di pensare, i rumori contro la carlinga si moltiplicano. A un colpo più forte il vetro anteriore si infrange, con schegge che volano dentro l'abitacolo. Papà urla, mentre spruzzi di sangue sporcano il finestrino laterale. Deve essersi ferito. Lo chiamo piangendo, ma mi rimetto nella posizione di sicurezza, come mia madre, che sento ancora pregare ad alta voce. Tutto accade velocemente.

Infine lo schianto, tremendo, che spezza le ali, nell'urto con gli alberi, mentre la carlinga, aperta sul fianco come una scatola di sardine, scivola per un attimo, prima di arrestarsi bruscamente a terra. Non sento più niente.

Mi sveglio con un forte dolore all'addome. La cintura di sicurezza mi trattiene dallo scivolare in avanti. Siamo fermi. Piove ancora, ma sembra con minore violenza. Non so per quanto tempo io sia stata priva di coscienza. Probabilmente parecchio, perché fuori la luce è quasi scomparsa del tutto. Mi guardo intorno, provando a parlare. Faccio fatica. Mi fa male la mascella, il viso è tutto indolenzito, per la pressione contro lo schienale davanti a me.

Guardo verso la mamma. Sembra svenuta. La chiamo, sopportando il dolore alla bocca. Provo a farmi sentire anche da papà. Niente. Lui e Carlos sono riversi sulla consolle, trattenuti dalle cinture che cingono anche le loro spalle. C'è del sangue davanti al pilota. Troppo sangue. Mi allungo, per toccare il braccio di mia madre, che è abbandonato, un po' a penzoloni per la posizione che abbiamo entrambe, inclinate in avanti. È freddo, anche se dentro l'aereo c'è un caldo soffocante, umido. Si sente odore di benzina, di bruciato, di morte.

Per la prima volta questa parola si fa strada nella mia mente. Inizio a urlare con tutta la voce che ho in gola. Chiedo aiuto, piango, chiamo i miei genitori, prego e grido frasi senza senso. Nessuno mi risponde. Sono sola. In mezzo al nulla. Un nulla pieno di animali, piante, acqua. E corpi senza vita.

Slaccio la cintura di sicurezza, puntellandomi con un braccio contro il sedile del pilota, per non scivolare. Mi tengo in equilibrio, nonostante la pendenza, e muovo la mamma per una spalla. Le do anche un pizzicotto, senza suscitare in lei alcuna reazione. La guardo meglio. Ha una profonda ferita. Un pezzo di lamiera dell'aereo, urtando contro gli alberi durante l'atterraggio, è rientrato, squarciandole il fianco e restando conficcato dentro di lei, come il sostegno di un manichino.

Un rivolo di sangue, ora rappreso, è colato dalla sua bocca, sporcandole la sahariana beige con cui viaggiava. Mi trovo a fissare la macchia vermiglia, già coagulata. Trattengo a stento un conato di vomito, mentre un gemito di dolore mi serra la gola.

Trovo la forza di distogliere lo sguardo e di spostarmi in avanti, cercando di non scivolare sulla plastica bagnata. Muovo papà. Non può sentirmi. Nemmeno il pilota può farlo. Nell'impatto violento il muso dell'aereo è rimasto stritolato contro il terreno che ci ha fermato, accartocciando la carlinga. Loro sono rimasti schiacciati. Non so neanche come io sia potuta sopravvivere a un urto tanto violento.

Mi sento male. Ho bisogno di uscire da lì. Di respirare.

Guardo attraverso l'apertura sul fianco. Fuori c'è del fogliame basso. Sottobosco che riesce a svilupparsi anche se coperto da una fitta volta di alberi, i più grandi che abbia mai visto. Mi contorco per uscire dell'aereo, facendo attenzione a non ferirmi. Inciampo. Sto per cadere e mi raddrizzo di scatto. Il mondo inizia a girare intorno a me. Buio.

Mi riveglio sdraiata sull'erba umida. Ho fatto un sogno tremendo. Mi sento tutta dolorante e affamata, con la bocca impastata. Non so quanto ho dormito. Ho bisogno di bere e mangiare. Passo una mano sugli occhi per schiarirmi la vista e mi rendo conto che tutto il rosso che ho davanti non è un rimasuglio del sonno, ma il peggiore degli incubi. Il rottame dell'aereo su cui viaggiavo giace schiantato di fronte a me, e mi toglie ogni speranza che l'accaduto si cancelli dalla mia memoria, come il brutto ricordo di una immagine evanescente. Nuovo capogiro, nuova nausea. Buio.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top