CAP. VII Loop infernale

Tre anni dopo (PRESENTE)

Lentamente, riprendo i sensi. Mi sento come se fossi stata schiacciata come una nocciolina — per quanto mi facciano male gli arti ancora intorpiditi — e la testa mi pulsa prepotentemente ed è pesante come piombo.
Provo a massaggiarmi le tempie, ma qualcosa me lo impedisce.

No! Sono legata! No... realizzo, sgomenta.

Con uno sforzo immane, cerco di aprire gli occhi, ma ciò che vedo è solo il buio più fitto che possa esistere. Il tessuto di questa benda sugli occhi è talmente spesso, da non riuscire a intravedere nemmeno delle lievi ombre a pochi centimetri di distanza.
Lo sconforto più profondo grava sul mio cuore, ormai.

È la fine, per me.

Decido, comunque, di farmi forza e coraggio e di affidarmi a tutti i miei sensi e parti del corpo libere, al fine di poter fare congetture sul luogo in cui mi trovo e — magari — identificarlo.

Sono sdraiata a pancia in giù, con le mani legate dietro la schiena da spesse e lunghe corde che mi segano i polsi e le caviglie, e — con estrema lentezza e cautela — sfioro la superficie su cui mi trovo, con la guancia che vi ci è appoggiata sopra.

È liscia, fredda e dura come il marmo... e queste cosa sono? Sembrano delle incanalature lungo i lati. Mattonelle! Ok, dunque non credo sia una caverna, una cantina o roba simile. Ma dove si trova questo posto?

Terrificanti ricordi del passato mi provocano dei gelidi brividi lungo la schiena, ma mi impongo di ignorarli e di proseguire con il mio intento.
Annuso l'aria, per cercare di captare un qualunque tipo di odore che possa rivelarmisi utile in qualche modo.

Disinfettante! Ecco cos'era quest'odore da ospedale... ma certo! O, comunque, qualcosa del genere, credo.

Distendo un po' le gambe e le muovo a destra e a sinistra, fin dove le corde mi consentono di separarle l'una dall'altra e di muoverle, naturalmente.

Ah! Merda! gemo di dolore dentro di me.

Urto goffamente una specie di tubo liscio, freddo e duro come l'acciaio, e un tintinnio metallico mi fa dedurre che sia un tavolino, uno sgabello o — comunque — un oggetto su cui vi è poggiato qualcosa che tintinna...

Delle chiavi, forse? Che diavolo è questo posto? Accidenti a questa benda e a queste corde che mi tengono legata chissà a quale parete o soffitto, stavolta! penso, frustrata e impaurita.

Sono così concentrata a ispezionare l'ambiente circostante, ché non mi accorgo nemmeno di non essere sola. Lo realizzo solo quando l'uomo che mi ha rapita mi sbeffeggia, con un tono roco e perturbante: «Finalmente ti sei svegliata, gattina! È passata meno di un'ora, ma cominciavo a sentirmi solo e annoiato, qui. Dormito bene?»

Scatto su come una molla e — con fatica — mi inginocchio, così da darmi maggior sostegno ed equilibrio.
Mi fischiano un po' le orecchie, tremo come una foglia e una miriade di domande mi riempiono la mente, al punto di sussurrare, flebilmente: «Chi... chi sei? Dove siamo? E perché?»

Ha detto "meno di un'ora". Dunque, non dovremmo esser andati molto lontani, giusto? Chissà se quest'aggeggio col GPS funzioni, davvero, così bene?!

«Ma senti come miagola, già appena sveglia! Gattina curiosa, tu fai troppe domande. Mmh, vediamo... e se ti facessi un indovinello? Se risponderai bene, ti darò un premio. Che dici?» mi risponde e punzecchia.

So perfettamente che non mi sta chiedendo davvero il mio parere al riguardo, che vuole solo giocare come il gatto col topo e che non ha buone intenzioni (altrimenti perché tutto questo?), ma — al momento — farei qualunque cosa, pur di tenerlo impegnato solo a parlare e nient'altro.

«Va... va bene! Giochiamo allora» balbetto, inquieta e con un groppo alla gola.

Ride, prima di riprender parola: «Oh, sì! Sì! Lo sapevo che ti piaceva giocare. Allora... come mi chiamo? No, no, aspetta! Questa non va bene come domanda. Che posso chiederti, ora?»

Oh, cielo! È pazzo o cosa? Si fa domande e si risponde pure da solo. Mi vedo male...

«Proviamo con questa: cosa ha urtato il tuo bel piedino poco fa?» mi domanda, sghignazzando sommessamente.

E che ne so?! Pensa Safiria, pensa...

Azzardo una risposta evasiva, ma piuttosto affidabile: «Ehm... una specie di tubo liscio, freddo e duro come l'acciaio, che fa da sostegno a qualcos'altro?»
Il cuore mi martella all'impazzata quando lo sento avvicinarsi e accovacciarsi accanto a me, alitandomi sul collo.

«Brava, gattina! Ma mi hai dato una risposta incompleta e con tono interrogativo. Non va bene. Riproviamo con un'altra domanda e, stavolta, bada a usare il tono giusto!» mi minaccia piano.

Oh, povera me!

«Cosa potrebbe sorreggere, secondo te?»

Ora che mi è così vicino, riesco a sentire meglio la sua voce e a percepire la sua aura oscura. La gola mi si è seccata per l'ansia e per la paura.

Quella voce... no, non può essere. Devo calmarmi! È solo un emulatore di quello psicopatico e io sono troppo spaventata per pensare lucidamente, al momento!

Sono pietrificata dal terrore che i miei dubbi e le mie paranoie diventino certezze, ma trovo la forza e il coraggio di rispondere: «Delle chiavi?» mi sfugge in modo incerto.

Merda!

Passano giusto un paio di secondi e, poi, un forte schiaffo mi colpisce improvvisamente la guancia, con una tale violenza, da farmi perdere l'equilibrio e cadere su di un fianco, a corto di fiato e col labbro spaccato.

«No! E smettila di fare domande! Basta! Questo gioco non mi piace più! Adesso le domande le faccio a modo mio» sbraita, alzandosi.

Oh, cielo! Che intenzioni ha?

Provo maldestramente a rimediare e a intrattenerlo ancora con una civile conversazione: «Mi dispiace, davvero... non lo faccio più. Per fav-. Ah!» Non riesco nemmeno a terminare la frase. Il bastardo mi ha conficcato la lama di un coltello nel polpaccio, non troppo in profondità, ma abbastanza da crearvici un bruciante e doloroso taglio.

Maledetto! Che male!

Trattengo faticosamente le lacrime e, intanto, mi richiede, con tono ancor più furioso di prima: «Allora, gattina: cos'è?»

Ancora sofferente e sanguinante per il taglio, gli rispondo, remissiva: «Un coltello!»
Sobbalzo di terrore, quando la sua mano mi sfiora la guancia ancora dolente.

«Brava, la mia gattina bella... visto? Non era difficile!» mi bisbiglia, con quella sua voce roca, perversa, accarezzandomi la guancia — come se nulla fosse — e facendo scorrere la punta di quella lama affilata lungo tutto il mio corpo tremante e dolorante. «Ci sono così tante belle e interessanti cosucce da poter fare insieme... ma sei troppo vestita! Che dici, giochiamo a chi resta più vestito?» e — come un fulmine — usa quello stesso coltello per strapparmi più facilmente la maglia e la gonna che indosso, per poi immobilizzarmi con forza e col suo peso al pavimento e prendere possesso di ogni singola parte di me.

«No! Lasciami! Lasciami! Bastardo, no!» quasi rimango senza voce per mie urla assordanti, ma — in una simile situazione di totale svantaggio per me — sono impotente e frustrata.

Inutile resistere. Inutile cercare di divincolarmi dalla sua morsa d'acciaio, di piangere o di gridare aiuto. Stavolta nessuno mi sentirà e io sono totalmente indifesa e immobilizzata. Impossibile poter anche solo pensare di riuscire a sfuggire e salvarmi dal mio assalitore!

Sento il mio corpo, la mia anima e il mio cuore sgretolarsi man mano e, piangendo come da tempo immemore non ero più in grado di fare, soccombo alla sua brutalità e prego di risvegliarmi da quest'orribile incubo...

Non toccarmi, stammi lontano! Non può essere vero, no... non di nuovo. Ti prego... fallo smettere! è l'unica cosa che riesco a pensare, tra i singhiozzi, prima di morire dentro.

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