Capitolo 8
Aleksander dormì poco quella notte. Si rigirò nel letto, dormendo per una manciata di minuti alla volta prima di svegliarsi, agitato per qualcosa che non sapeva definire. Era l’addestramento? Le aspettative che non poteva soddisfare? La luce che filtrava dalla finestra? Quel letto, così diverso dalle brandine dove era abituato a dormire nel Primo Esercito? Non avrebbe saputo dirlo.
Poteva risolvere la questione della luce, ma non aveva voglia di alzarsi dal letto. Lo fece solo quando sentì qualcuno bussare alla porta.
Si districò dalle coperte che aveva attorno al corpo e andò ad aprire, dopo essersi infilato una vestaglia lilla: era una cameriera, con tra le braccia una serie di indumenti sormontati da un paio di stivali.
Li mise sul tavolo dove aveva mangiato la sera prima e se ne andò, troppo rapida perché Aleksander potesse dire qualcosa. Dopo che la porta si fu chiusa, il ragazzo osservò gli indumenti, riconoscendo tra essi la kefka, poi decise di andare in bagno.
Si sciacquò la faccia e cercò di dare una forma ai capelli con un pettine che trovò in un cassetto. Osservò la vasca, desideroso di farsi un bagno, ma decise di farla quando era certo di avere tempo a sufficienza, così si lavò i denti e tornò nella camera, meno trasandato di prima.
A quel punto decise di vestirsi con ciò che la cameriera gli aveva consegnato. Lasciò da parte la kefka e si tolse la vestaglia, indossando dei pantaloni della sua taglia stranamente comodi e una camicia larga della sua giusta misura. Indossò gli stivali neri, che gli calzavano a pennello, poi respirò profondamente e dispiegò la kefka per indossarla.
Aveva immaginato fosse pesante, ma non lo era affatto. Era leggera, lunga fino alle caviglie, e sembrava adatta a muoversi in qualunque modo. Utile nei combattimenti, immaginava.
Le maniche erano leggermente più lunghe delle sue braccia, osservò. Osservò anche i ricami sui polsini, neri come richiesto dall’Evocaluce, e realizzò che la sua kefka era leggermente più chiara delle altre così da vederli.
Non osò vedere come stava allo specchio. La sua testa sarebbe stata fuori posto in tutto quello sfarzo.
Poi la porta si aprì e Genya entrò, cercandolo con lo sguardo. Appena lo vide lo osservò e disse: «Oh, bene, ti sei già preparato! Devo dire che l’idea di farti la kefka più chiara è stata ottima, così si nota un pochino meno quanto sei pallido. Andiamo?»
Lui annuì, seguendola fuori di lì. Mentre camminava si sentì sempre meno a suo agio con quei vestiti addosso, ma dimenticò tutto quando raggiunsero la sala della cupola. Era enorme, con un tavolo centrale a quattro lati dove sedersi a mangiare: guardandola bene Aleksander si convinse di essere stato lì il giorno prima, prima di andare al Gran palazzo, ma non ricordava quella tavolata e non era totalmente sicuro fosse lo stesso luogo.
Nessuno andò ad accoglierlo stavolta, ma tutti i Grisha là dentro si concentrarono su di lui. Sprofondò nella kefka, desiderando subito di tornare in camera.
«Quello è il tuo posto. Torno a prenderti quando hai finito.» disse Genya indicando un posto vuoto tra due evocatrici. Aleksander annuì e avanzò, fingendo una sicurezza totalmente assente.
Era più che certo avrebbe mangiato da solo e in silenzio, così rimase sorpreso quando una delle due ragazze gli rivolse la parola appena si fu accomodato.
«Benvenuto al Piccolo Palazzo!» esclamò con un sorriso che Aleksander non capì se era sincero o forzato. «Ieri non c’è stato tempo per le presentazioni. Io sono Marie e lei è Nadia.»
«Ah… piacere.» rispose lui guardando prima una e poi l’altra, girando la testa di centottanta gradi.
«Ieri è stato grandioso come hai richiamato l’oscurità! Confesso che mi ha fatto anche un po’ paura, ma mi sentivo più eccitata.» disse Nadia osservando i ricami della sua kefka con uno sguardo elettrizzato.
«Com’è evocare le ombre?» chiese Marie interessata.
«Davvero vieni da Keramzin?» aggiunse Nadia.
«Sei sempre stato così pallido?»
«Come mai non sei venuto qua prima?»
La sequenza di domande Aleksander le ascoltò solo per metà. La sorpresa e il sollievo di parlare con qualcuno erano stati sostituiti da inadeguatezza e da un malessere che aveva già provato con Ivan e che provava in generale. Sarebbe dovuto essere già apparso da tempo.
Perse l’appetito del tutto. Le due smisero presto di porre domande, forse vedendo che si era rabbuiato, così Marie disse: «Comunque la cosa non ti stupirà, ma Sergei è ancora nero che sei stato assegnato al nostro lato di tavolo. Come se un Evocatore dovesse stare con i Corporalki!»
I Corporalki, osservò Aleksander tornando coi piedi per terra, erano seduti davanti a loro, molti dei quali gli lanciavano occhiate un po’ di rabbia, un po’ di curiosità. Gli altri due lati della tavola quadrata erano vuoti.
«Qua alla tua sinistra siede l’Evocaluce e i suoi Grisha. Di fronte invece stanno i Fabrikator, ma credo non li vedrai spesso.» aggiunse Nadia. «Stanno quasi tutto il tempo nei laboratori.»
«Comunque dovresti mangiare qualcosa, sembri un po’...»
Aleksander completò per lei la frase. «Sembro morto di fame o, in alternativa, uno scheletro.»
«Beh, sì. Mi sa però che oggi vedrai anche Baghra, quindi fidati se ti dico che è meglio se mangi qualcosa.»
Da come lo aveva detto, sembrava piuttosto fosse meglio non mangiare nulla. Guardando finalmente cosa c’era da mangiare, Aleksander vide che erano aringhe. Aringhe, segale e del tè, null’altro.
Ne mangiò qualcuna, senza provare eccessivo ribrezzo. Alle alici ci era abituato.
Appena finì, gli altri evocatori iniziarono a parlargli. Lui non era dell’umore di fare conversazione e non rispose a nessuna domanda né fece conversazione.
Fu Genya a salvarlo e portarlo via di lì. Appena furono lontani dai tavoli la Grisha disse: «Te l’avevo detto che ti saresti fatto amici.»
«Non mi piace l’attenzione che mi riservano.» confessò Aleksander.
«Pressanti?»
«Un po’.»
«Mi dispiace dirtelo, ma aspettano tutti che tu giustifichi il tuo arrivo con quasi dieci anni di ritardo.»
Il tono di Genya non fu accusatore nel dirlo. Aleksander abbassò lo sguardo, sentendosi comunque uno schifo.
«Non ci pensare, ora sei qui ed è questo che conta. E ora pensiamo a fare il tour dell’edificio, che dici?»
Lui annuì e la seguì lungo i corridoi. Il primo posto in cui andarono fu la biblioteca, tanto immensa che Aleksander rimase a bocca aperta. A Keramzin se lo sognava di avere così tanti libri da poter leggere.
«Probabilmente starai qua a studiare e recuperare tutta la teoria Grisha, quindi goditi lo spettacolo finché ancora non studi.» suggerì Genya, sorridente per la sua espressione stupita.
«Teoria Grisha?»
«Non farai solo allenamenti con Baghra e Botkin, sappilo.»
Aleksander si chiese se era un male, visto che prevedeva un disastro su tutta la linea. Poi aggrottò le sopracciglia e mentre uscivano dalla biblioteca chiese: «Chi è Botkin?»
«Lo scoprirai oggi pomeriggio.»
La seguì per una serie di corridoi che si sforzò di memorizzare e finirono in una zona buia del piccolo palazzo. Aleksander si guardò intorno, percependo un leggero odore metallico.
Arrivarono a un bivio e una porta si aprì alla sua destra. Vide due uomini dalla kefka rossa entrarvi e chiudersi la porta alle spalle, lanciando un’occhiata poco rassicurante ai due.
«Qui siamo nell’ala dei laboratori. Quella è la zona dove operano i Corporalki e credo sia meglio non vedere cosa c’è dietro quella porta. Di qua invece andiamo dai Fabrikator.»
Lo fece entrare. Quasi tutti i presenti, Grisha avvolti in abiti viola come quello che gli avevano dato portandolo lì, si girarono a guardarli, non tanto con curiosità ma con fastidio. Genya li ignorò e condusse Aleksander da una persona specifica, che non aveva alzato lo sguardo affatto.
«Buongiorno, David. Ti volevo presentare Aleksander.»
David alzò lo sguardo per un breve istante. Genya, scontenta della reazione, aggiunse: «L’Evocatenebre.»
«Benvenuto a palazzo.» mugugnò lui prima di tornare a qualunque cosa stesse facendo. Genya sospirò leggermente, sconfitta, e se ne andò. Aleksander la seguì, anche se guardandosi indietro si accorse che ora David li stava guardando.
Se era evidente l’interesse di Genya per lui, il corvino ebbe la sensazione l’interesse fosse ricambiato.
«Dunque,» disse Genya appena chiusero la porta, «Ora usciamo di qui. Iniziamo a dirigerci da Baghra, lei non approva i ritardatari.»
«Uhm, ora che ci penso, nella sala dove ho mangiato c’era una porta dorata. È dell’Evocaluce?»
«Sì, conduce alla stanza della guerra e ai suoi alloggi.»
Uscirono all’aperto. Il sole lasciò accecato Aleksander per un momento, durante il quale rivide la velasabbia e la Grisha morta.
«Tutto bene, Aleksander?»
Il ragazzo si riprese, sbattendo gli occhi velocemente e oscurandoli con una mano. Genya lo stava osservando, la testa leggermente inclinata.
«Scusami.» mormorò Aleksander raggiungendola.
«Quello che vedi là è il lago accanto al quale si allenano gli evocatori, all’interno di quei padiglioni. Gli evocatori avanzati, intendo, e fidati che non c’è scelta migliore di quello se un Inferno sbagliasse a dare fuoco a qualcosa.»
Quella frase per Aleksander parve confusa ma non glielo fece notare, anche lei pareva sovrappensiero.
Non raggiunsero gli altri Grisha: Genya lo condusse sulla soglia di una casa di sassi nella foresta che gli parve piuttosto inquietante.
«Lì abita Baghra, e lì farai lezione. Ora vai, siamo già in ritardo.»
Lui guardò l’entrata con un certo timore, poi si costrinse a raggiunsere la porta e ad entrare.
Il caldo lo investì con violenza, facendolo subito sudare. La kefka era calda e di certo quello non aiutava: non era neanche certo potesse tolgersela.
Era buio lì dentro e dopo la luce esterna ci mise qualche istante a recuperare la vista. Non riuscì a vedere più di un paio di sedie poste davanti a un camino che una voce disse, secca: «Sei in ritardo.»
Aleksander sobbalzò e si girò verso la fonte. All’inizio non vide nulla, poi un’ombra si staccò dalle altre e identificò una donna della quale non avrebbe mai saputo dire l’età, che pareva fisicamente giovane ma aveva un volto osseo simile al suo. Si appoggiava ad un bastone argentato che per qualche motivo gli parve piuttosto minaccioso.
«Avvicinati al fuoco, voglio vederti bene.»
Lui obbedì, sentendo che farla arrabbiare poteva non essere una buona idea.
La donna, Baghra, lo esaminò centimetro per centimetro, poi disse: «L’Evocatenebre, quindi. Mi hanno informato di cosa avrei visto, ma è anche peggio di quel che pensavo.»
Ad Aleksander venne voglia di morire a quella sola frase.
«Ti hanno esaminato da bambino?» chiese fissandolo.
«No.»
«Mi risulta che a Keramzin i bambini vengano esaminati sempre. Perché non avrebbero dovuto?»
Aleksander si rifiutò di rispondere. Baghra lo fissò e lui non capì se lo stava esaminando o se stava decidendo di odiarlo e rendergli la vita un inferno.
«Immagino risponderai all’Evocaluce a queste domande. Cerco di tenere basse le aspettative perché sento che altrimenti le deluderesti completamente.»
La mano, ossuta e inquietante, gli afferrò il polso. «Vediamo comunque cosa sei in grado di fare.»
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