Capitolo 5
Aleksander ricevette una propria cavalcatura il giorno successivo, il che fu un bene per la sua immensa voglia di restarsene solo e un male per tutto il suo corpo.
Il viaggio proseguì per qualche giorno, noioso e monotono, lungo una strada secondaria. L’Evocaluce non cavalcò con lui; era sempre da qualche parte lungo la colonna di cavalieri, e se da una parte era felice della cosa (ancora gli capitava di sognare l’uomo tagliato in due), dall’altra continuava a chiedersi se l’avesse offesa in qualche modo mentre cavalcavano insieme. Anche se non si erano mai rivolti la parola.
Infine decisero una sera di accamparsi. Aleksander lo prese come un dono dei Sankti, sia l’annuncio che il momento in cui poté effettivamente scendere dal cavallo. Ci era già andato tempo prima, ma mai per giorni interi senza quasi neanche fare pause.
Appena fu a terra cercò di togliersi di mezzo mentre gli altri soldati preparavano cibo e tende: trovò poco lontano un po’ di terreno coperto di erba e lì si stese, godendo della terra totalmente ferma che aveva sotto la schiena.
Un volto luminoso apparve sopra di lui. Per un momento credette di vedere la luna, poi identificò i lineamenti.
«Ti mancava avere terra solida sotto i piedi?» chiese l’Evocaluce osservandolo.
«Tantissimo.» fece lui.
«C’è un fiume qua vicino. Hai ancora del sangue addosso, forse è meglio se te lo sciacqui.»
Rialzarsi fu più difficile e arrancare fino al fiume lo fu altrettanto. Nonostante ciò, la gioia che sentì nel mettere le mani nell’acqua fredda e darsi una lavata al volto e un po’ ai capelli ripagò quegli sforzi. L’Evocaluce, accanto a lui, fece lo stesso, illuminando la radura con le mani.
Aleksander rimase a guardare le sue mani. Gli ricordavano ciò che era, ma allo stesso tempo non riuscì a non sentirsi assolutamente affascinato dalla vista.
La Grisha si girò a guardarlo e lui distolse lo sguardo, imbarazzato.
«Hai ancora del sangue sul volto.» disse lei indicando sul suo volto dove l’altro doveva pulirsi. Lui rimise le mani in acqua e cercò di togliersi qualunque residuo avesse ancora addosso. Istintivamente cercò di pulirsi il volto con la manica, ma si fermò ricordandosi che aveva addosso una kefka. Una kefka che non era nemmeno sua.
L’Evocaluce lo osservò in silenzio, poi gli lanciò un quadrato di stoffa bianco. Un fazzoletto.
«Grazie.» disse asciugandosi e ripulendosi. Un po’ gli dispiacque per il fazzoletto, ma sentirsi almeno il volto pulito era decisamente soddisfacente.
Tornare al campo fu più difficile, visto che Aleksander dovette alzarsi ancora. A tutte le lamentele rivolte a sé stesso che pronunciò, l’Evocaluce rispose con un sorriso divertito.
La sua tenda era la più interna ed era posta accanto a quella della Grisha. Fuori dalle entrate era stato acceso un fuoco e il ragazzo si buttò a scaldarsi le mani appena lo vide. L’Evocaluce si sedette su un tronco messo lì come panchina accanto a lui.
Per un po’ nessuno dei due parlò. Le guardie parevano essere tutte impegnate altrove, lasciando i due soli. Aleksander non sapeva come sentirsi se non intimidito.
«Immagino tu abbia un po’ di domande da porre.» fu la frase con cui la donna interruppe il silenzio.
Aleksander la guardò. Aveva un milione di domande da porre, in effetti, molte dettate dalle paranoie, molte dalla curiosità, molte dalla paura. Non aveva idea di da dove partire a porle, né se poteva effettivamente porle.
«Qualcuna.» disse infine.
«Dille. Credo che riempirsi la testa di paranoie sia più difficile se hai le risposte che desideri.» disse lei, catturando la sua attenzione. Solo Mal pareva aver realmente compreso le sue paranoie prima di quel momento e sentire qualcun altro parlarne lo sorprese.
«Tu mi odi?»
Lo schiaffo che si volle tirare dopo quelle tre parole gli avrebbe lasciato l’impronta delle dita su una guancia, ma la Grisha rispose senza neanche sorridere per schernirlo. «No, non ti odio. Dovrei odiarti?»
«Ivan mi odia. Non… non sono apparso prima.»
«E perché non sei apparso prima?»
Aleksander si morse il labbro. Non voleva rispondere, l’avrebbe sicuramente odiato se avesse saputo la verità.
Rispose con una domanda diversa: «Perché nella tenda… è successo?»
«Vuoi dire, perchè nella tenda sei riuscito ad evocare le ombre così facilmente?»
Ci fu una pausa, poi Aleksander disse con una certa difficoltà: «Ad evocare.»
«Hai mai sentito parlare di amplificatori?»
Aleksander scosse il capo.
«Potremmo definirli trofei. Sono oggetti rari che i Grisha si guadagnano e che permettono di amplificare il potere di un Grisha, purché già lo abbia. Io sono un amplificatore vivente e basta che qualcuno mi tocchi perché il suo potere aumenti. Quanto al perché abbia funzionato la mia idea… Mettiamola così, ho fatto una mossa crudele. Sapevo che dopo ciò che è successo nella Faglia di Luce, se avessi visto della luce intensa avresti cercato di oscurarla. Da solo non lo avresti fatto, ma con un amplificatore...»
La franchezza con cui disse tutto quello lasciò Aleksander con le sopracciglia inarcate e la bocca semi aperta. Si aspettava qualche bugia, ma non gli parve avesse mentito in alcun modo.
«Altre domande?»
«Cosa… cosa mi aspetta?»
«Un addestramento per imparare ad usare i tuoi poteri, un po’ di addestramento per saper combattere senza dover ricorrere ad essi, tante lezioni teoriche probabilmente noiose e interazioni sociali.»
«Con altri Grisha?»
«Sì. E se temi che non ti ritroverai, tieni conto che al Piccolo Palazzo non ci sono solo persone di Ravka. Vengono da ogni luogo, perché sanno che con me sono al sicuro.»
Aleksander ripensò ai Fjerdiani che avevano cercato di ucciderlo. Avevano parlato nella loro lingua: gli avevano dato del demonio quando avevano cercato di prenderlo? Davano del demonio o della strega ad ogni Grisha che vedevano?
«Non posso tornare indietro alla vita di prima?»
Aveva pronunciato quella domanda a mezza voce senza accorgersene, così rimase sorpreso quando l’Evocaluce lo osservò e chiese: «Ti fa così ribrezzo l’idea di essere un Grisha?»
Aleksander fissò il fuoco e mormorò: «Non è l’idea di essere Grisha a farmi ribrezzo.»
Si girò verso la donna. «A cosa serve tutto questo?»
«Voglio che la Faglia di Luce venga distrutta. Venne creato da un mio avo, l’Eretico Bianco, e con te ora il suo lavoro potrà finalmente essere dissipato.»
«Lo fai sembrare facile...»
«Non è facile. Non è per niente facile, soprattutto perché tutti vogliono ora che tu risolva subito questo problema e non vogliono darci il tempo che ci servirebbe davvero per prepararti. Ma non temere per questo, sono viva da abbastanza tempo da sapere che ci sono sempre delle scappatoie.»
Aleksander la osservò e commentò: «Da abbastanza tempo? Mica sarai così vecchia.»
L’Evocaluce rise, lasciandolo interdetto. Prima di quel momento solo Mal aveva riso alle sue parole.
«I Grisha sono longevi, caro Aleksander. Forse un giorno scoprirai quanto lo sono io.» disse alzandosi e ritirandosi nella tenda senza dire altro.
Attese solo un momento Aleksander prima di imitarla, e quando si stese sul giaciglio dormì come un sasso.
Ripresero il viaggio il giorno dopo e praticamente non si fermarono finché non raggiunsero Os Alta e le sue doppie mura. Nonostante Aleksander desiderasse scendere da quel cavallo più di ogni altra cosa, entrare in città catturò comunque la sua attenzione.
Ciò che vide quando entrarono non lo entusiasmò. La città sembrava spenta, disabitata, chiusa.
Poi iniziarono a salire verso la zona dove vivevano i ricchi e la città parve animarsi come avrebbe dovuto essere una capitale. Le case aumentavano in grandezza, alcune quasi difficili da abbracciare con un unico sguardo dalla strada, poi raggiunsero un canale attraversato da un ponte. Dall’altro lato c’erano i cancelli.
Li superarono entrambi, Aleksander che si guardava intorno stupito, poi il palazzo del re gli apparve davanti in tutta la sua gloria.
Era immenso, preceduto da giardini enormi. Aleksander non aveva mai visto niente del genere.
«Ti piace quel che vedi?» chiese una voce accanto a lui.
Si girò e guardò l’Evocaluce, che sorrideva divertita forse dalla sua espressione.
«Non avevo mai visto niente del genere.»
«Io ho visto di molto meglio.» ribatté lei. «Fortunatamente non è questa la nostra meta immediata.»
La loro meta immediata, posta dietro il palazzo reale, era il Piccolo Palazzo. Aleksander, guardandolo, lo trovò comunque più grande degli edifici che aveva visto per strada e semplicemente immenso, solo un po’ più piccolo rispetto all’edificio principale.
Fu davanti all’entrata che finalmente fecero fermare i cavalli. L’Evocaluce balzò giù con l’agilità di chi andava a cavallo spesso; Aleksander per poco non cadde con un piede incastrato nelle staffe, e si salvò solo perché la donna gli sbloccò il piede prima che accadesse.
Entrarono al Piccolo Palazzo. Vennero accolti da dei servi: con uno di essi parlò l’Evocaluce stessa, e fu lui ad andare da Aleksander.
«Se mi fa il piacere di seguirmi, la conduco alla sua camera.»
Quel modo di parlare lo fece sentire vecchio, comunque annuì, seguendolo un po’ malfermo sulle gambe.
La sua stanza nuova era in fondo a un corridoio, due piani sopra all’entrata. Dover fare le scale nel suo stato fu un massacro.
Nonostante i dolori e la stanchezza, rimase comunque stupito quando entrò nella sua nuova stanza. Era immensa, più grande del tendone dell’Evocaluce che aveva visto dopo il ritorno dalla Faglia, ed era tutta per sé.
«Le devo portare qualcosa da mangiare?»
Aleksander si voltò e scosse il capo. «No, nulla.»
Non aveva fame, ma se anche l’avesse avuta non gli avrebbe arrecato disturbo.
«D’accordo. La Signora mi ha riferito che è stato un viaggio stancante, quindi la lascio dormire. Si ricordi di chiudere la porta a chiave… Non si sa mai.»
Aleksander ripensò ai fjerdiani che li avevano attaccati e annuì. Appena l’uomo chiuse la porta, lui girò la chiave, poi si lasciò cadere sul letto, incredibilmente morbido, e dovette aspettare pochi minuti prima di cadere in un sonno stranamente profondo.
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