Capitolo 12 - Una notte pericolosa

Mi risvegliai, ero in infermeria.
"Riposati, cara." Disse dolcemente la signora Ross. Continuava a parlarmi con quell'insopportabile voce dolce che mi faceva tanto arrabbiare. Tentai di alzarmi dal lettino, ma un fitto dolore mi trafisse la gamba.
"Non alzarti, cara." Continuò con quel suo solito tono. Allora mi sdraiai di nuovo e cominciai a pensare. L'ombra del giorno precedente mi aveva attaccata, non sapevo cosa fosse né cosa volesse da me. Restare lì ferma era tanto frustrante quanto non sapere cosa stesse succedendo tutto attorno a me. Volevo solamente sapere tutto, volevo che la professoressa si fidasse di me, per un'altra volta soltanto. Ma fu proprio in quel momento che un dubbio mi assalì.
"E se fosse..." Non riuscii nemmeno a completare la domanda. Era così paradossale ed ovvio allo stesso tempo. Non poteva essere stata lei, sembrava volermi bene, eppure era ovvio. Ce l'aveva con me, non mi aveva creduto. Ma che senso aveva attaccarmi? Non avevo fatto nulla da poter giustificare un tale gesto. Sentivo un lieve e soffuso dolore alla testa che, quando provavo ad alzarmi, aumentava terribilmente fino a farmi venire la nausea. Non potevo ancora crederci, non ci riuscivo. Stare lì mi faceva sentire in prigione. Avrei voluto andare dalla Dahl e chiedere spiegazioni.
"Quando potrò uscire da qui?" Chiesi. Lei non rispose. Continuai a stare sdraiata con mille pensieri in testa, anche se dentro mi sentivo vuota. Era una sensazione strana, come se da quanti problemi avessi il mio cervello fosse evaso. Ma mi sentii ancora peggio quando capii di essere completamente sola, senza nessuno vicino, senza nessuno che mi dicesse che sarei stata meglio presto. Ho sempre dovuto fare tutto da sola, io, mai nessuno che mi aiutasse...
"Con questa, dovrebbe passarti prima..." Disse seccata, seppur con quel suo solito tono smielato, quando notò che avevo tentato di alzarmi per l'ennesima volta ma senza nessun successo. Quando finalmente il dolore mi passò, non avevo più voglia di andare lì fuori e parlare con gli altri, tantomeno con la professoressa che ancora non si era fatta viva. Restai in silenzio per tutto il tempo. Uscii lentamente senza fare alcun rumore, ancora rabbrividendo. Stavo proprio male... Mi sentivo tradita, indifesa... sola. I miei occhi, come di rito, si stavano riempiendo di lacrime, ma alla vista di Karl cercai subito di asciugarle, con l'effetto di arrossire solo di più. Ma era strano: nonostante volessi conoscerlo meglio, magari anche diventarci amica, non riuscivo a provare nulla. Era come se dentro di me ci fosse un vuoto strano, difficile da colmare tanto quanto da comprendere. Sapevo che mi sentivo così per via del fatto che ero stata tradita ancora un'altra volta, ma non capivo perché fosse così tanto importante per me da provocarmi un tale vuoto. Mi sentii un paradosso umano: da un lato sapevo di volerlo conoscere perché era un ragazzo bello ed enigmatico, ma dall'altro ero completamente vuota, come se la mia presenza lì fosse solamente una comparsa, sentivo come se non avessi più senso.
"Aurora." Mi chiamò lui. Non risposi, ma dentro di me capivo che qualcosa stava cambiando.
"Che ci fai nel corridoio a quest'ora?" Chiese freddo.
"Che ore sono?" Capii che chiedendolo senza dare spiegazioni mi dava l'aria di una non poi così tanto normale. "Sono stata in infermeria stanotte e..."
"Sì, so tutto." Disse con quel suo tono ghiacciato. 'Girano veloci le voci qui, eh?' Pensai tra me e me. "Comunque sono le 6:00." Perché doveva parlare con quel tono dannatamente attraente? Finalmente stavo cominciando a dimenticare. I miei pensieri erano ormai concentrati su quella brevissima conversazione.
"Beh, allora... Ci vediamo..." Tentai di tagliare corto. Non volevo lasciarlo, ma non avevo il coraggio di continuare.
"Non ti va di venire con me al giardino botanico?" Chiese lui, ancora con quel suo tono. Annuii lievemente e lo seguii. Sentii il mio volto in fiamme, le mani sudate ed il cuore che batteva a mille. 'Non può piacerti lui! È un idiota!' Pensavo tra me e me, cercando di convincermi che non era il ragazzo che cercavo. Ci sedemmo su una panchina, uno di fianco all'altra, a guardare l'alba insieme. Le prime luci rosee, gialle ed arancioni del giorno si fondevano con quelle lievemente violacee e bluastre della notte. Il panorama era bellissimo: un fiume attraversava la radura lontana, mentre gli uccelli cinguettavano. Non c'era altro rumore. Cercavo di respirare profondamente per non far vedere il mio battito accelerato, ma con scarso successo. Come potevo, solo un secondo prima, aver pensato di non avere senso? Restammo così per circa cinque minuti, senza dirci nulla.
"Se ora vuoi scusarmi..." Si alzò ed andò via. Lasciata lì da sola, senza motivo, mi sentii ancora più fragile di prima. Ritornai in camera cercando di non far rumore e mi sedetti sul letto. Cominciai a fissare il vuoto nella speranza di riempire quello che c'era dentro di me. Senza accorgermene, gli occhi mi si riempirono di lacrime. 'Ma perché devo soffrire in questo modo? Non è più facile mandarla a quel paese?' No, no che non era facile. Anzi era difficile, molto difficile, perché ogni volta che mi faceva stare bene, mi faceva sentire protetta e forte per davvero. C'era qualcosa in lei... qualcosa di strano: ogni volta che le stavo vicino, non avevo la sensazione di avere un'imbecille di una professoressa accanto, ma come una figura che mi avrebbe protetta sempre. Rimasi sommersa nei miei pensieri, fino a che Florie non si svegliò. Non mi fece domande come mi aspettavo, ma fu ben più sorpresa di trovarmi sveglia. Ci recammo alla Mensa di buon'ora e finalmente avrei avuto una giornata da ragazza normale, forse. Le prime tre ore avrei avuto magia spaziale, cosa che mi infastidì, e non poco! Però continuai a convincermi che quella giornata sarebbe stata normale, come quella di qualunque altra studentessa. Mi avviai verso la classe di Magia Spaziale... Evitai di guardarla negli occhi tutto il tempo, avrei riservato il peggio di me per dopo. Le tre ore passarono molto lentamente, ma per fortuna ero riuscita ad allenarmi nonostante tutto il traffico del giorno prima, così non feci nulla che la potesse far lamentare di me. Sembrava che quel giorno ce l'avesse con me in modo particolare. Oppure erano solo le paranoie di una ragazza diciottenne appena aggredita? Mi chiedeva tutto, come se dubitasse della mia preparazione. Prima che potesse andare in un'altra classe le passai così vicino che ci sfiorammo con le mani.
"Come mai ieri sera non è venuta?" Chiesi pretendendo di non credere che fosse stata lei.
"Ero venuta a cercarti perché non sarei potuta venire, dato che ero stata trattenuta dalla professoressa di arte."
"Davvero?" Chiesi io fingendo stupore sarcastico.
"Sì, davvero." Rispose fredda lei. Non solo mi aveva fatto del male, ma pretendeva anche di sentirsi furba con me. Non ero poi così piccola, ormai... Non disse nient'altro, semplicemente mi scoccò un'occhiataccia e se ne andò lasciandomi lì da sola. Non capivo perché doveva essere così altalenante nel suo rapporto con me... Ritornai in camera, percepivo quella sensazione di panico, la sensazione di un'urgenza, quella di piangere. Non m'importava della lezione successiva, sarei arrivata un po' in ritardo. Poco m'importava in quel momento, l'unica cosa che dovevo fare era piangere. Mi abbandonai sul pavimento e feci ciò che ormai avevo fatto troppe volte. Piansi. Sembrava che volessi svuotarmi l'anima, come se piangendo fossi riuscita a liberarmi di tutte le mie sofferenze, come se piangendo fossi riuscita a liberarmi di me stessa una volta per tutte. Le tende erano già state chiuse dalla signora delle pulizie e la stanza era buia. Solo il mio pianto interrompeva quel cupo silenzio. Tutto attorno a me, sembrava che il mondo si fosse fermato. Del resto, cosa aveva importanza? Cosa sarebbe stato più importante in quel momento? Ma la cosa che mi chiedevo con più rabbia era: "Perché mi ostino a credere in lei?" Avrei voluto urlarlo, avrei voluto urlare al mondo intero la mia tristezza, ma neppure il più flebile suono usciva dalla mia bocca. Non riuscivo più a parlare, come se le mie corde vocali si fossero strappate. Notai solo dopo di essere in ritardo di un quarto d'ora per la lezione di arte. Cercai di asciugarmi il viso come meglio potevo e mi feci coraggio per andare a lezione.
"Non in questo stato..." Mi disse una vocina dentro di me, mentre mi guardavo allo specchio. Erano ormai le undici e venticinque ed il mio ritardo adesso era di venti minuti, quando finalmente riuscii ad uscire da quella camera. Corsi più veloce che potevo, tanto che la gelida aria autunnale nel cortile dell'accademia sembrava tagliarmi il viso. Florie era già alla lezione, così come le altre. Mi sedetti dietro Randy.
"Come mai questo ritardo?" Mi chiese gelida Florie.
"Nulla..." Le risposi vaga. Lei non volle altre spiegazioni. Una parte di me voleva dirle tutto, l'altra voleva tenere tutto dentro. Non capii molto durante quella lezione, l'unico mio pensiero era la professoressa. Ma quando mi stavo avviando verso la Mensa, vidi di nuovo Karl, con mille ragazze attorno. Lui faceva il duro e rispondeva a tutte male, ma nonostante si vedesse nel loro viso la delusione, continuavano a stargli dietro.
"Che stupide..." Mormorai. Una di quelle, era la ragazza del giorno prima, la riconobbi subito. E fu poco dopo che vidi la sua amica, quella magrissima, correrle dietro. Sorrisi. Nonostante dentro di me ci fosse gelosia, non potei fare a meno di sorridere a come Karl le respingeva tutte, una per una. Ma ad un certo punto arrivò Marisa e tutto si spense all'improvviso. Lei si avvicinò a lui con quel suo sguardo di superiorità e lui la guardò come affascinato, anche se non si scompose più di tanto. Lei con i suoi capelli mossi rossi, gli occhi verdi poco più chiari dei miei. Lui con quei suoi capelli lisci biondo oro ed i delicati riccioli che gli ricadevano sulla fronte coprendogli quegli occhi color ghiaccio. Era tremendamente perfetto. Ma ecco che Marisa gli dette un bacio. A quanto pareva, erano fidanzati. In quel momento mi sentii il cuore spezzato. Ma vidi in lontananza Alexandre. Si avvicinò a me.
"Aurora" Mi chiamò timidamente lui.
"Alexandre, come stai?"
"Tu, come stai? Che ti è successo?" Chiese agitato. Mi sembrò tutto così strano. Alexandre e Karl sembravano gli unici studenti a ricordare il fatto della sera prima. Nessuno mi aveva fatto domande, nessuno mi aveva chiesto come stessi, ma non credo fosse perché non volevano, era come se nessuno ricordasse.
"Ora sto meglio... Cioè non sto poi così bene, ma sicuramente meglio di stamattina..."
"Questa è la cosa più importante." Era davvero carino. Ci guardammo per un paio di secondi negli occhi senza dir nulla. Lui mi sorrise e io cercai di fare lo stesso. Per un attimo ero riuscita a dimenticare tutto, di nuovo. Proprio come accadde la mattina. Ma lui non se ne andò. Stemmo lì, a parlare del più e del meno. Lui era visibilmente imbarazzato, ma questo non faceva altro che renderlo più carino. Le luci di metà giornata illuminavano la Mensa, filtrando lievi dalle immense finestre alle pareti. Non sentivo più nulla, eravamo solo io e lui. Per un istante, mi fissò così intensamente negli occhi, che parve volermi leggere l'anima. Il mio cuore cominciò a battere sempre più velocemente.
"Aurora?" Mi chiamò Florie. "Andiamo a pranzare?" Mi chiese debolmente.
"Sì, andiamo... Ciao, Alexandre... spero ci rivedremo prima di giovedì!" Gli dissi allegra.
"Lo spero anch'io..." Confermò un po' sognante. Gli sorrisi. Mi sedetti al solito posto nel lungo tavolo ed aspettai trepidante la professoressa. Volevo tenerla d'occhio, solo così avrei capito se era davvero stata lei. Dentro di me, però, non mi sentivo più triste né provavo rancore: mi sentivo libera. Era così strano: cambiavo umore da un momento all'altro. Sorrisi senza alcun motivo. Mi venne spontaneo. Poi arrivò lei, era lì, a pochi passi da me che si avviava verso il tavolo dei professori. In parte, il rancore ritornò, senza sovrastare però la sensazione di libertà. La fissai per pochi secondi, poi lei si girò verso di me ed io subito distolsi lo sguardo. Mangiai in fretta il pranzo perché mi sentivo come un vuoto nello stomaco. Dopo aver finito, prendemmo il libro per la lezione di geografia e ci avviammo verso quella classe. Quell'incontro con Alexandre mi aveva lasciata sconvolta. Avevo come un buco nello stomaco. Forse non era solo per quello... Pensando alla professoressa, la rabbia dentro di me crebbe. Mi recai in camera mia e cominciai a studiare. Ma nella mia mente mille domande mi torturavano. 'Come mai nessuno ricorda?'... 'Perché Karl e Alexandre sono gli unici a ricordare?'... 'Mi posso fidare di lei?'... 'Alexandre è strano, proprio come Karl: chi mi piace?'... Queste ed altre domande mi ossessionarono per tutto il pomeriggio. Dopo la cena, non riuscii a dormire. Era come avere una morsa allo stomaco. Allora decisi che sarei andata nel bosco, perché non riuscivo a stare in quel posto che mi faceva stare tanto male. Nessuno in accademia poteva uscire, né noi né professori né nessun altro, se non che per situazioni gravi. Guardai l'orologio: l'una di notte. Mi affacciai dal balcone. Guardai giù. Nessuna luce illuminava il giardino. Era basso, così decisi di scavalcare la ringhiera. Ma fu proprio nell'istante in cui misi il piede su di essa che sentii un fruscio poco lontano. Il cuore cominciò a battermi. Allora mi sbrigai e misi anche l'altro piede sulla ringhiera e mi buttai. Non mi feci nulla, se non che qualche livido e qualche piccolo graffio. Fu allora che vidi che la professoressa di arte: era lì giù anche lei a poche centinaia di metri da me che si guardava intorno furtiva. Mi nascosi, ma lei mi vide. Pensai fosse la fine. Pensai che mi avrebbero espulsa. Si avvicinava sempre di più a me, io con il cuore in gola. Pensavo mi avrebbe rimproverata. Mi fissò negli occhi, non disse nulla, si poggiò un dito sulle sue labbra e mise l'altro indice sulle mie. Capii cosa volesse dire: lei non avrebbe detto nulla a patto che io non avessi detto nulla. Era il nostro segreto. Lei si allontanò ed io feci lo stesso. Mi inoltrai nel bosco. Meglio sarebbe stato se non fossi mai più riuscita a ritornare in quella maledetta accademia.

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