une ombre

[Rimando al minuto 1:24:14 del video, nonché gif che ho messo sotto.]


«Nash? Huh?»
Abel ha guardato il pavimento, abbandonando nuovamente le braccia alla forza di gravità.
Non si sentiva più lo stesso. Sentiva ogni fibra del corpo molle come gelatina, ma soprattutto aveva la mente vuota. Di nuovo. Una distesa di bianco immacolato, fatta eccezione per gli occhi di Charlie Nash, dai quali il suo sguardo non si era mai davvero distaccato dal drammatico momento in cui i loro volti si erano trovati a pochi millimetri di distanza.
«A-aspetta» ha provato a mormorare, muovendosi di scatto verso l'uomo che già s'allontanava, riuscendo soltanto a cadere a terra come un sacchetto mezzo vuoto. Ha cercato di reprimere le lacrime, senza riuscirci e sobbalzando anche un poco nella furia del pianto che l'ha travolto.
Ma lui era un uomo forte, ormai! Non era fisico da femminuccia, il suo! Com'era possibile che a uno come lui potesse venire ancora da piangere??
'In effetti non l'ho scelto io questo corpo... Non mi è mai piaciuto lottare.'
«Ehi, tutto bene?»
Udendo quella domanda, espressa da una voce maschile che non era quella di Nash, ha sfiorato una crisi respiratoria. Ha battuto un pugno a terra - con gran frastuono - ed ha balbettato qualcosa che voleva essere un 'no'.
Sopra di lui, Guile e Chun-Li si sono scambiati un'occhiata che lasciava intendere la loro perplessità. Che aveva quel ragazzo, generalmente tanto solare e gentile? Cosa era accaduto che fosse sfuggito a chiunque altro là presente, cosa l'affliggeva?

Sono dovuti accorrere in tre.

Abel ha continuato a singhiozzare convulsamente finché non ha perso i sensi e per alzarlo da terra - da dove si rifiutava di essere spostato - ci sono volute sei braccia.

Dopo qualche ora alla Kanzuki Estate la sua salute è peggiorata: gli sono comparse strane macchie su tutto il corpo e ha iniziato ad ansimare invece che respirare normalmente. È stato quindi portato in ospedale e là è rimasto senza riprendere conoscenza per un giorno intero. Oltre alle fratture che s'era fatto combattendo contro Zangief, riaperte nello scontro con Guile e Charlie, aveva sviluppato dei problemi che neanche il primario ha saputo definire. La sua resistenza fisica sembrava diminuire di momento in momento, impedendo ai graffi di rimarginarsi e alle ossa di stabilizzarsi; le macchie inoltre si sono allargate, occupando ben presto ogni centimetro della sua pelle rendendola innaturalmente bianca. Questo ha molto spaventato i medici, che hanno preso la decisione di isolarlo da ogni contatto e lo visitavano sporadicamente con le mascherine e i guanti fino al gomito. Hanno notato che sembrava non avvertire dolore; non rispondeva ad alcuno stimolo, e una volta sveglio ha dimostrato di essere completamente assente sul presente. Non rispondeva alle domande, rimaneva in silenzio per ore e poi borbottava senza interruzione in francese - lingua che nessuno parlava né tra i dipendenti né tra i visitatori - per altrettanto tempo. I suoi occhi non si chiudevano mai, rimanevano fissi nel nulla a volte spostandosi come riscoprendo nuovi particolari della dimensione che stavano sondando: sembrava posseduto.
«Ma che gli prende?!» Ha mormorato Chun-li, osservandolo dalla finestra della cameretta in cui era stato rinchiuso.
«Non lo so, ma quasi sicuramente non è contagioso. I dottori non si rassegnano all'idea che sia stato il dolore a ridurlo così.» Guile soffriva davvero per la mancata assistenza che stava dando a quel suo ormai caro amico. Non gli davano il permesso di metter piede nella camera, ma era sicuro che tutto quel che gli serviva per migliorare fosse proprio della compagnia...
«Sentite, non trovo utilità nello starmene qui a guardarlo delirare. Io me ne vado. Se succede qualcosa non esitate a farmelo sapere, però.» A parlare così è stata Karin Kanzuki, la terza ed ultima spettatrice della triste scena, nonché accompagnatrice di Chun-Li.
«Allora sarà meglio che vada anch'io» ha mormorato, infatti, quest'ultima. «Ci vediamo presto, Guile»
«A presto, ragazze.» Nel rispondere, l'uomo non ha spostato di un millimetro lo sguardo dal ricoverato, o meglio dalla porzione della sua testa che spuntava dalle lenzuola immacolate.
È rimasto fisso così per dei minuti dopo la loro dipartita, interrogandosi su quale potesse essere la causa della lenta e continua degenerazione dell'amico e soprattutto sul legame che essa poteva avere con i colpi che lui stesso gli aveva inflitto durante il loro scontro.
Ha rivisto quei momenti in una mezza dozzina di flash. Sapeva bene che non era Abel che aveva combattuto con tanta violenza; che si trattava dello psycho power che lo soggiogava; ma in effetti era il suo corpo che aveva colpito e il dolore che gli aveva inflitto si stava ripercuotendo ora proprio su di lui, su Abel cosciente o Abel incosciente, lo stesso che aveva curato insieme a Charlie una volta scesi dall'elicottero.
Chissà cosa stava mormorando, tutto solo in quell'inferno candido che era la sua quarantena.
Ecco, erano proprio questi i pensieri che dominavano la mente del Maggiore Guile, quando lo sguardo del ferito è tornato finalmente alla giusta dimensione e ha potuto scorgerlo oltre il vetro. Ricordava: aveva ricordato tutto, dall'inizio fino a quel momento; non sapeva di aver mormorato in francese tutto quanto, come a raccontarselo da solo, ma era perfettamente consapevole del cambiamento avvenuto in lui. Charlie Nash l'aveva liberato e gli aveva restituito, molto probabilmente senza neppure sperarlo, tutti i ricordi che poteva avere. Non provava gioia per questo, però, perché il suo passato era molto più triste di quanto potesse immaginare.
Tutto iniziava da un liquido verde, nel quale era immerso sin sopra la testa. Sentiva tutti i muscoli molli, perché non aveva mai poggiato i piedi a terra e non aveva ancora fatto il primo respiro; ma la coscienza c'era già, in una forma forse elementare ma assolutamente presente. Gli sovvenivano poi infinite schermate di computer, pixel colorati, luci trasmittenti e poi grafici di ogni tipo sul suo stato di salute. Da tutto questo aveva potuto capire che non era un uomo, quale si era sempre reputato - lui era un clone, una specie di androide senza componenti elettroniche. Bison aveva, in effetti, iniziato a usarle appena dopo la sua creazione: per questo lui era sempre stato considerato un esperimento inutile, un totale fallimento sin dall'inizio. Come soggiogare un uomo in carne ed ossa, come sopraffare la sua volontà, come silenziare i suoi bisogni, i suoi sentimenti? Impossibile.
Avevano progettato cose terribili per lui; in un primo momento avevano ritenuto opportuno sopprimerlo e basta e subito dopo avevano pensato che si poteva, e conveniva, modificarlo a posteriori innestando dispositivi sopra e sotto la pelle mentre il cuore già batteva. Ricordava di aver sentito decine di studiosi parlare di tali progetti oltre il vetro della sua cella e il panico che lo aveva preso all'udire le notizie.
Ricordava, finalmente, di essersi ribellato. Di aver scelto un ottimo momento per scoppiare d'ira e fuggire fin quasi all'esterno del laboratorio proprio quando Charlie Nash e il suo esercito avevano programmato di attaccarlo.
Alla fine tutto ciò che il tenente Nash aveva ottenuto dalla missione era stato lui, Abel: un pupazzo morente, che a causa di un dardo aveva perso le forze e la labile memoria. Lo aveva salvato, curato e poi lasciato presso un amico, credendolo un prigioniero e non una creazione.
Questo era il pezzo di storia che gli mancava. Questo era il suo vero passato, questo era il motivo per il quale ora non riusciva a recuperare le forze: senza psycho power non poteva esistere nessun Abel, che era un impasto di quella orrida essenza e di carne.
Non c'era speranza per lui, ha capito in un attimo, appena ha ripreso conoscenza. E per questo si è alzato scompostamente e si è diretto alla porta, sotto lo sguardo esterrefatto di un viso noto: se lui non poteva più essere salvato, era finalmente il momento di ricambiare il favore a Charlie Nash.

'Ho bisogno di Rashid'

«Abel? C'era bisogno di sfondare la porta..?!»
Come rendendosi conto all'improvviso delle sue azioni, il giovane si è voltato esterrefatto verso il pezzo di metallo e vetro che pendeva dalle cerniere rotte e oltre verso le flebo che s'erano rovesciate a terra nel momento in cui si era alzato dal letto con i fili ancora attaccati alle braccia.
«Oupsie. Non me n'ero accorto»
«Lascia stare...» Guile ha avvertito un forte desiderio di nascondere il viso tra le mani - la reazione più comune a qualunque azione il suo amico avesse intrapreso da quando si conoscevano - ma ha scelto di resistere e di non mostrarsi duro con lui in questo contesto. «Tu eri in quarantena, dovresti aspettare una visita dal medico prima di lasciare la struttura» ha provato a spiegargli, osservando preoccupato come il suo equilibrio sembrasse precario e quanta fatica gli costasse ogni respiro.
«Visita?» Abel ha assunto un'aria severa. «Non ho bisogno di alcuna cura, Guile. Ho ricordato ogni cosa, io sono ormai sano. Solo che... Questo implica... Sì, insomma, sto per scomparire.»
Il maggiore ha strabuzzato gli occhi e gli si è avvicinato per sospingerlo indietro, al suo letto.
«Non sto scherzando, lasciami stare! Vorrei spiegarti tutto, ma non ho tempo. Non ho più tempo. Ora devo rintracciare Rashid.»
Si sono guardati con molta intensità.
«Vuoi dire che... Ricordare...»
«Un Abel che ricorda non ha senso di esistere» si è risolto a spiegare. «La libertà dallo psycho power mi sta annullando come fa il sole con le nuvole d'estate. Se è questo che stavi per dire, hai ragione. Ora indicami dove sono i miei vestiti...» Gli ha chiesto, strizzando gli occhi per guardarsi intorno, attraverso l'ondeggiare della sua testa e la luce bianchissima di quella camera. A malincuore, Guile l'ha accompagnato all'armadio e l'ha aiutato a vestirsi.
«Quindi è la fine»
«Già. Nessun buon primario potrebbe diagnosticare la causa della mia debolezza, né esiste un modo per tornare indietro.» Si è zittito per dei momenti. «Grazie di tutto, amico mio. Chissà se ci incontreremo ancora.»

Non hanno più spiccicato parola fino all'uscita dalla struttura, sazi delle urla di qualsiasi dipendente che intimava loro di ritornare subito in camera e di 'non mettere a rischio tutti quanti'.
«Allora arrivederci, Abel.»
«Au revoir, mon ami. Se mi sarà possibile, ti sarò sempre vicino.»

Guile l'ha osservato allontanarsi. Forse era solo un'impressione, ma sembrava proprio più debole di prima; era convinto che ora non sarebbe riuscito a sfondare nessuna porta, da solo. Lo ha avvolto l'alone del terrore; per vincerlo ha cercato di focalizzarsi su altri pensieri.
Ha realizzato che non avrebbe mai voluto perdere anche lui. Era lieto soltanto che l'avesse presa con filosofia - lo invidiava, un poco, e già si preparava ai mille incubi che era certo sarebbero succeduti a questa scena.

Da parte sua, il giovane si era dimostrato infinitamente più tranquillo di quanto non fosse realmente. Appena svoltato l'angolo, ha sfogato l'ansia repressa rischiando di far cadere a terra il telefono nel semplice tentativo di estrarlo. Ha poi composto il numero di Rashid, suo conoscente e collega prima che amico. Gli ha chiesto molto direttamente dove, a suo avviso, avrebbe potuto trovare Charlie Nash (domanda che gli avrebbe fatto molto tempo prima se solo avesse avuto idea del loro collegamento) e dopo una decina di minuti di persuasione («Non voglio fargli male!» «Mi conosce!» «Devo solo parlargli!» «No, no, non dirgli nulla di me!!!») è riuscito a farsi indicare l'ubicazione di una grotta, sul fondo di un burrone, nel cuore dell'Africa.

Inutile specificare che ci si è recato subito, impiegando per arrivarci solo un giorno e mezzo e un terzo dei suoi risparmi. Il costo maggiore che ha dovuto versare sono state le forze; ne ha perse parecchie, forse troppe, arrivando a prendere le sembianze di un malato terminale. Guance scavate, occhi infossati nelle orbite. Fisico esile. Pelle e capelli sbiaditi, come se qualcuno l'avesse dimenticato per anni dentro un armadio, in fondo alla cantina... Per non parlare dello strascichio che era costretto a compiere ad ogni passo, della curva triste delle spalle, dello sguardo afflitto. Neanche riconoscendo il luogo descritto da Rashid con tanta cura ha potuto sentirsi sollevato, forse per il sole che gli percuoteva con forza la pelle nuda o forse per la tempesta di parole che gli infestava il capo.
Non sapeva se sperare di incontrarlo davvero o se preferire una fine silenziosa e segreta, così vicino alla sua ultima meta.
Una coccinella rossa come il sangue lo ha superato in quel momento, passando a pochi centimetri dal suo orecchio destro e andando nella stessa direzione del suo sguardo. Abel ha sospirato. No, aveva grandi parole da rivolgere a quell'amico mancato, a quel tesoro perduto. Era persuaso della giustizia del gesto e anche della sua necessità: Nash aveva il diritto di sapere. E c'erano cose che solo lui poteva dirgli, ormai.

Erano soltanto dei momenti che stava perlustrando il fondo di quello strapiombo quando ha udito dei passi. In effetti non aveva ancora trovato l'ingresso ad alcuna grotta, ed era molto probabile che l'ex militare si trovasse proprio là...

Si è nascosto in un angolino tra la parete rocciosa dello strapiombo, delle giganti pietre e qualche ramo di un arbusto spelacchiato. Ha ricominciato ad ansimare, un po' per l'affaticamento del suo fisico, ma soprattutto per l'ansia di incontrare nuovamente Charlie Nash.
L'ha visto superare la sua postazione, proprio lui, con quel suo portamento austero e regale, con quel corpo spaventoso ed affascinante al contempo. Non si era minimamente accorto della sua presenza, anzi passeggiava tranquillamente, col naso all'insù, osservando chissà che tra le nuvole e le nude rocce del luogo. Sembrava quasi star cercando dei ricordi, o meglio trovando e vivendo dei momenti di un lontano passato. Era ben chiaro che questo posto significava qualcosa per lui anche prima di spiare il suo comportamento; ma ora comprendeva appieno che si trattava dell'emblema della sua stessa vita. Quando si è girato nella sua direzione ha potuto osservare l'espressione vagamente sognante e serena che aveva stampata in volto ed ha sentito nuovamente pulsare le lacrime alla base degli occhi. Era così vivo, quell'uomo, pur nella sua situazione. Era un essere di carne e d'ossa molto più di quanto lui non fosse mai stato, il che era davvero un paradosso. Il suo cuore pulsava sotto la pelle e faceva circolare il sangue in ogni angolo del corpo alimentando anche la mente, che è quanto caratterizza un vero umano. Mente che funzionava alla perfezione, in ragionamenti, comportamenti, memorie e tutto il resto, al contrario di come aveva 'funzionato' quella di Abel.
Ha cercato di distrarsi guardando Nash allontanarsi, ancora completamente immerso nei suoi pensieri, ma è durato poco. Non riusciva ad osservare la sua beatitudine senza realizzare che lui non ne faceva parte. Ora che la sua fine era così vicina, gli era stata data la soluzione della sua esistenza. Ed era così desolante che non poteva che essere grato al destino che gliel'aveva nascosta fino a quel momento: lui non aveva potuto ricordare il passato perché non ne aveva uno!

Ha avuto un capogiro per la cattiva emozione e per non capitolare a terra si è aggrappato ad un sasso, facendolo tremare e causando la dipartita di una minuscola valanga di sassolini e polvere.
«Chi c'è!?»
Quel piccolo rumore ha riportato alla realtà in un attimo l'ex militare, che urlando tale domanda ha fatto sobbalzare il debole osservatore, ridonandogli un po' di vigore.
Quel tono di voce era così duro e freddo, agli antipodi dell'espressione che aveva in faccia poco prima, da far tornare in mente ad Abel che non si trattava più del Charlie Nash del quale aveva recuperato i ricordi; era un assassino, ormai, un soldato della Società Segreta e i ricordi lieti erano piccoli momenti di fuga dalla crudeltà della sua situazione.
«Vieni fuori! So che ci sei, affrontami!!»
Sempre con quella violenza nella voce, Nash si è guardato attorno, sull'attenti. Le sue labbra erano ora strette, probabilmente si stava mordendo una guancia; aveva le sopracciglia corrugate e negli occhi c'era solo uno sguardo vuoto che dava l'impressione che avesse relegato la sua anima ad un angolino remoto, il disco D:, e che non potesse temporaneamente subirne la minima influenza. Aveva proprio l'aspetto di una terribile macchina da guerra.
Ed ora cosa poteva fare? Lui era venuto in primo luogo per parlargli. E se avessero combattuto... In quelle condizioni, ha riflettuto, sarebbe bastato un pugno per fargli perdere conoscenza e non sarebbe mai più riuscito a compiere il suo proposito. Gli restavano poche ore, forse minuti di vita...
L'ha osservato con vero terrore avvicinarsi al suo nascondiglio e guardarsi attorno come se si fosse accostato per puro caso. Non è riuscito a reprimere la respirazione pesante, da malato, che si trovava a dover praticare e per i suoi rantoli, Nash l'ha riconosciuto e localizzato.
«A-Abel? Sei tu? Vieni fuori!» Gli ha ordinato gridando, osservando con occhi vuoti la direzione effettivamente corretta dove lui si trovava. Fortuna che quell'angolo sembrava pullulare di possibili nascondigli e vie di fuga. «Che ci fai qui? Cosa vuoi?»
«Perché l'hai fatto?» Ha domandato a sua volta, non trovando risposta migliore nell'affanno del momento e decidendo di non mostrarsi alla sua furia perché probabilmente non avrebbe potuto avere un dialogo.
«Loro hanno salvato me e io l'ho fatto con te.» Nel pronunciare questa frase sul suo viso si sono fatte strada delle rughe di deliziosa espressione, come se l'insicurezza fosse l'unica arma di cui disponesse per liberarsi del lato 'militare' del suo animo.
«Salvato?» Abel ha pronunciato questa parola con forte scetticismo, portando il viso verso la parete di roccia, a rifiutarla sdegnosamente.
«Hai ragione.» Le spalle di Nash si sono leggermente rilassate, come se stesse abbassando la guardia e tornando ancora umano. «Non hanno salvato proprio nulla, portandomi di nuovo qui. Sono diventato una pura macchina contro la mia volontà. Hanno modellato la mia rabbia come un corpo 'nuovo', hanno prolungato un dolore che mi impedisce di essere più di quel che sono condannato ad essere... Morto» Ha pronunciato quest'ultima parola come un conato e sgonfiato il petto, a dimostrare la fragilità che era sempre costretto a nascondere.
«Almeno sei qui, Nash. N-non...»
«Io non sono qui. Tu stai parlando con un'ombra, e non con me! Non capisco perché tu mi abbia raggiunto quaggiù!»
Spaventato da questa reazione irosa, ma convinto delle sue idee, il più giovane ha stretto i pugni.
«Un'ombra, eh? Un'ombra con delle emozioni? E dei ricordi?» Di nuovo quel tono scettico. «E io cosa dovrei dire? Ho ricominciato a ricordare solo ora, a ricordare il nulla della mia esistenza e il motivo per il quale non posso essere come voi!»
Soltanto a questo punto si è accorto di una presenza alle sue spalle. Si è voltato di scatto trovandosi naso a naso con un esterrefatto Charlie Nash, che da soldato dell'USAF era diventato suddito della Società Segreta e forse solo ora stava tornando ad essere semplicemente libero.
«Che ti è successo?» Ha sussurrato, squadrando quel suo corpo ormai tutto ossa e sottile pelle.
«Io non ce l'ho nemmeno, un'ombra. Ecco quello che sono, Nash, io non sono nulla» ha spiegato, molto diretto. «Non esistevo e forse non l'ho mai fatto per davvero. Sono sempre stato... Un'emanazione dello psycho power, una stregoneria tecnologica, uno schifoso clone. Senza psycho power non esisto. Ecco la verità.» Estremamente incredulo, l'americano ha mosso il capo all'indietro. «Questo è il mio destino. Quando Bison svanirà anche tutti quelli come me lo faranno. E s-sono venuto a mostrarti... Il tuo potere. Tu puoi sconfiggere quel bastardo, so che lo sapevi già. Ma voglio che insieme a ciò, tu tenga bene in mente... Che esisti.»
Durante questo sofferto discorso, la voce di Abel si è andata assottigliando fin quasi a scomparire. Ormai a stento si scorgeva qualcosa di ciò che era stato: era a pieno titolo un fantasma. Che ironia.
«Ora capisco come si è sentito Guile. Io... Mi spiace tanto, amico mio. Non avrei mai immaginato di far accadere... Questo.»
«Al contrario. Sono molto sollevato, Nash. Ero un pezzetto di male alla ricerca del bene, e questo è il meglio che possa fare. Scomparire.» Ha preso un respiro, come se nell'aria aleggiasse tutto il coraggio che quel discorso gli stava togliendo. «Continua tu la mia ricerca. Non arrenderti...»
Il militare ha strabuzzato gli occhi. Forse questo era chiedergli troppo. Come poteva non rendersene conto? Ha espresso i suoi dubbi con una punta di rudezza. «E come posso farlo? Se non obbedisco agli illuminati, svanirò prima di poter completare il mio compito, di nuovo..!»
Gli occhi azzurri di Abel, ormai l'unica cosa che sembrava ancora viva in quella specie di ologramma che gli rimaneva da abitare, sono diventati lucidi.
«Non puoi svanire, Charlie. Ricordatelo... La tua anima... Esisterà... Sempre»
Come privo di forze, il giovane ha perso l'equilibrio e portato avanti un braccio in un gesto automatico. Ma prima che la sua mano raggiungesse il corpo del suo amico, si è dissolta in una lingua di fumo violetto, sospinta da uno strano vento a circondarlo.
«No... No, no, Abel!»
Appena il mulinello si è dissolto, del ragazzo non rimaneva più nulla.
Soltanto un tintinnio ha fatto sì che lo shock non sovraccaricasse il debole cuore del sopravvissuto.

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