prologue - un insecte

Warning. Partendo questa storia da una già esistente, mi sembra giusto non riepilogare nei minimi dettagli il racconto che dovresti avere in mente (è pur sempre una fanfiction), quello cioè del video che inserirò nel terzo capitolo [A Shadow Falls], ma solo indicare di volta in volta la scena a cui mi riferisco a favore sia di chi non conosce la situazione che di chi ha magari bisogno di una rinfrescata.

[Grazie 'Gamer's Little Playground' e RajmanGamingHD. Meritate una medaglia al valor civile.]

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Sette anni fa.

«Guarda! Guarda!»
Abel era corso verso il suo migliore amico con le mani chiuse e le braccia distese davanti a sé.
«Che c'è?»
L'umore di Charlie Nash era costantemente basso in quel periodo: aveva innumerevoli pensieri in testa. L'ingenua felicità del giovane era ciò che riusciva ancora a farlo sorridere.
Si era voltato nella sua direzione e l'aveva guardato avvicinarsi disconnettendosi per un poco dal resto del mondo. Accostando le mani ai loro volti, Abel aveva svelato il suo piccolo tesoro.
«Quest'insetto sembra un gioiello, luccica ed è colorato. Secondo te sa volare? Se avesse le ruote sarebbe proprio come un'automobile!»
Charlie era scoppiato a ridere e aveva accarezzato la nuca del suo amico con dolcezza.
«Si chiama coccinella, Abel, e si dice che porti fortuna quando ha sette puntini neri sulla schiena» gli aveva spiegato. L'amnesia lo rendeva come un grande bambino: ignorava tantissime cose, si esaltava a scoprirle per la prima volta e ogni sorriso appagava immancabilmente il suo istruttore - ed amico - di qualsiasi fatica avesse dovuto affrontare per ottenerlo. Charlie l'aveva salvato poco tempo prima da una base Shadaloo e tutto ciò che sembrava sapere era quanto aveva potuto vedere là sotto. Sapeva leggere alla perfezione, parlava fluentemente due lingue con un lessico tutt'altro che povero; ma era completamente estraneo alle cose della natura (motivo per cui cercavano di stare all'aperto il più possibile, quasi seguendo l'elioterapia), non distingueva una malattia da un'altra (era appena guarito da bronchite e febbre e li aveva definiti entrambi 'vomito') e non conosceva alcun prodotto gastronomico, come se non avesse mai mangiato prima.
La lista di cose a lui "nuove" si allungava a dismisura nella mente del suo attuale maestro, Charlie Nash, primo tenente dell'USAF e persona generalmente fredda e distaccata: sembrava radicalmente cambiato sin dal suo primo incontro con quel ragazzo. Era rimasto notevolmente colpito dalla sua situazione e positivamente impressionato dalla sua gentilezza e riservatezza, così dedicava gran parte del suo tempo libero a lui in attesa che la sua situazione migliorasse. Non lo trovava infantile o disabile; era convinto che risiedesse una saggezza sotto quello strato grossolano, perché a volte ne intravedeva dei raggi. Ma era consapevole che l'amnesia non fosse il suo unico problema.

Un periodo molto lungo passato nei laboratori della Shadaloo l'aveva reso forte da una parte e debole dall'altra; non era assolutamente abituato a mangiare e la mancanza di qualsiasi sostanza gli dessero là sotto provocava sovente delle crisi in lui, non tanto d'astinenza quanto di vera e propria carenza. Era un uomo forte, ma senza preavviso lo prendevano incredibili capogiri e s'accasciava a terra, o accusava dolori assurdi, o subiva strane metamorfosi durante le quali gli occhi si coloravano interamente di grigio: in quei momenti la sua coscienza finiva eclissata da qualche parte e attaccava chiunque gli capitasse a tiro con ferocia bestiale.
Quando stava bene però, come in quel momento, era una persona adorabile. Aveva avidità di scoprire nuove cose; assimilava in fretta ed esibiva le sue conoscenze alla prima occasione.

Il tenente Nash non avrebbe mai dimenticato la prima volta che aveva visto la luna in sua esclusiva compagnia, una sola settimana prima: l'aveva osservata per lunghi minuti e aveva timidamente allungato una mano per cercare di accarezzarla - tentativo più che giustificato data la sua altezza di centonovantotto centimetri, grazie alla quale stendendo semplicemente il braccio giungeva fino al soffitto della maggior parte dei locali presenti nella base. A Nash era servito un momento per cercare il modo giusto di spiegargli cosa fosse quella specie di lampadina senza implicare una lunghissima lezione sullo spazio e sui corpi celesti: e lui aveva approfittato di quel silenzio per scioccarlo con un semplice pensiero, espresso a mezza voce nel timore di sbagliarsi. «Quindi è là che vive la luce? Non posso biasimarla di volersi allontanare dalla Terra. Ma se ogni mattina ritorna, neanche lassù c'è serenità.»

Nei momenti difficili o tristi di ogni giorno, era per lui normale ripensare a quella scena o ad altri momenti di analoga dolcezza e sentirsi subito meglio; ma in quel momento non l'aveva sfiorato il pensiero, perché la sola presenza di Abel era in grado di portarlo aux anges. Sentiva che il senso della sua vita poteva risiedere anche in quegli attimi di calma: aveva sempre pensato che l'azione e il pericolo fossero la unica fonte possibile di sostentamento per la sua anima, ma ora trovava un sentimento simile alla completezza nella semplice compagnia di quel ragazzo. Iniziava - finalmente - a comprendere il bisogno di tutti i suoi conoscenti di farsi una vita diversa dal lavoro, di cercare qualcuno per la quotidianità nella famiglia o negli amici fuori dall'armata; adesso la consapevolezza amara di essersi precluso questa possibilità regnava nel suo animo e lo rendeva profondamente triste. Non gli era sembrata una gran rinuncia quella che aveva fatto, di sacrificare 'tutto' per la carriera. Almeno fino ad ora... Sì, perché avrebbe voluto abbandonare tutto il resto per stare a fissare tutto il giorno gli occhi di Abel, a perdersi in essi per trovare un sentimento che non aveva mai conosciuto prima.
Solo che... Non era possibile.
Sarebbe stato pericoloso per entrambi. E in più non voleva arrendersi a questa emozione, che per quanto profonda, non gli sembrava valere tutti gli anni di fatiche dedicate all'esercito.
Su questo tipo di pensieri, comunque, si focalizzava solo di notte, quando era fisicamente lontano da lui. Perché nei momenti che passavano assieme la sua mente si svuotava, il suo cuore si apriva per accogliere ogni sensazione che quel giovane gli trasmetteva: come questo giorno particolare.

Avevano contato insieme i puntini della coccinella come infanti, accorgendosi con disappunto che erano soltanto sei.
«C'eravamo quasi» aveva commentato il più giovane, facendo sì che l'insettino salisse sull'avambraccio dell'altro. «La fortuna non è proprio il mio campo» aveva concluso con una punta di rammarico, prima di aggiungere: «A parte conoscerti, non mi è ancora successo qualcosa di positivo.»
«Se per questo, neanche a me. Ultimamente poi, peggio che mai.»
Charlie aveva sentito crearsi un groppo in fondo alla gola mentre parlava. Doveva sbrigarsi a dare la brutta notizia ad Abel: lui era un tenente, non un soldato qualsiasi, e dopo il congedo di qualche settimana che aveva ottenuto lo aspettavano mesi di missioni senza interruzioni o quasi, ovvero la solitudine che aveva scelto di vivere entrando nell'esercito. Questo significava in primo luogo che le loro strade, a brevissimo, si sarebbero divise - a tempo indeterminato. E in secondo luogo, che era momento per Abel di farsi curare sul serio, in modo da fermare le crisi, combattere l'amnesia e costruirsi una vita normale.
Sono cose complesse da spiegare, però, al proprio migliore amico. Soprattutto perché era sicuro che il loro non sarebbe stato un addio indolore.

«Perché? Ti annoi? O sono le chiamate?» Aveva chiesto il ragazzo, alludendo alle decine di squilli che partivano dalla radiolina e dal cellulare del soldato, continuamente interpellato da superiori e sottoposti per il minimo dubbio.
«Non solo questo.» Si era mosso di scatto, spaventando la coccinella che era volata via; osservandola allontanarsi aveva cercato le parole giuste da rivolgere all'amico. «La tua memoria continua a sfumare, Abel. Non hai battuto la testa, il tuo è stato un vero e proprio lavaggio del cervello; è per questo che sono in pensiero. Insomma, non esiste ancora un rimedio allo psycho power. E come farai quando io...»
Si erano guardati in silenzio, per un attimo, poi il giovane aveva completato la sua frase.
«... Tornerai in campo?»
Charlie aveva annuito e si era sentito un pochino meglio. Pure nella specie di mondo ovattato che conosceva il ragazzo, quindi, la precarietà della loro situazione gli era giunta in modo corretto.
«Esatto. Io ho sempre vissuto solo e non posso permettermi altrimenti. Vedo la disperazione dei miei colleghi che hanno una famiglia... Impedisce loro di impegnarsi davvero nel lavoro. Per me è troppo tardi, tuttavia, per tornare indietro. Non ho nemmeno una casa, capisci?»
Abel era rimasto senza parole. Il concetto di 'famiglia' era stato uno dei più contorti che avesse imparato fino a quel momento: famiglia è il padre, la madre e i fratelli, ma è anche la fidanzata o la moglie, ovvero persone con le quali non esiste legame di sangue. Gli sfuggiva il collegamento con l'attuale discorso, tuttavia. Che intendesse dire che non aveva dei genitori o una moglie e dei figli alle cui cure e compagnia affidarlo?
«Guarda che io sono autosufficiente, cioè se sono sopravvissuto là sotto allora dovrei riuscire a farcela anche quassù. O al massimo mi farò ricoverare in clinica come suggeriscono tutti.»
«Lo so benissimo. Sei letteralmente la persona più forte che io conosca e non avrai mai bisogno di una clinica, o più generalmente di cure.»
Il ragazzo aveva torto il naso, prima di obiettare.
«Ma non sono proprio cure quelle che tu mi dai ogni giorno?»
Ecco un'altra cosa che manca ad Abel, aveva pensato il suo amico: la capacità di fare giri di parole. Era spesso diretto in modo bruciante. E a questo non c'era possibilità di abituarsi.
«Queste mie attenzioni sono un capriccio - potresti farne a meno in ogni momento. Che tu lo voglia o no, anzi, dovrai rinunciarvi presto. Volere è molto diverso da potere, penso tu sappia già che ciò che si vuole spesso non si può, e quel che non si vuole... Non si può evitare.»
«Io voglio rimanere con te e non posso.»
Charlie aveva sospirato piano. Sì, aveva decisamente capito.
«E questo perché la mia vita è sempre stata occupata soltanto dal lavoro. I miei amici sono colleghi, la mia casa è letteralmente il mio ufficio. Così ho raggiunto la mia posizione. Il punto è che, non te lo nascondo, vorrei tanto vivere con te. Ma non ho la possibilità di costruire qualcosa fuori dal campo. Ogni mio giorno potrebbe essere l'ultimo, mi spiego?»
Abel lo stava osservando con una mano sulla fronte per non essere accecato dal sole e pure con il viso contratto nello sforzo di non chiudere gli occhi si percepiva la confusione che lo dominava. Ciò che aveva capito era che la 'famiglia' che aveva in mente quando l'aveva nominata non era una già esistente; gli stava negando la possibilità di diventare loro due una 'famiglia', vivendo insieme come aveva in seguito spiegato. Possibilità alla quale non aveva mai pensato, in effetti, ma che non sarebbe stata affatto male.
«Se il lavoro è tutto per te, allora potrei lavorare nel tuo squadrone.»
Nash aveva scosso il capo.
«Non è impossibile. Forse saresti anche adatto, sai. Ma io vorrei che tu... Che non seguissi il mio esempio. Non vale la pena di vivere come me, né tanto meno con me. Io desidero ardentemente che tu ti curi per poter vivere una vita, ecco, ordinaria.»
«L'hai detto tu prima che non esiste una cura. Non sono mica malato.» Il giovane aveva incrociato le braccia e assunto un portamento vagamente offeso; non aveva ancora provato l'ebbrezza di essere sicuro di qualcosa, ma nessuna delle possibili interpretazioni del discorso di Charlie somigliava all'ultima frase che aveva pronunciato.
«Non intendevo... Uffa, non fare così.» Charlie aveva appoggiato una mano sulla sua spalla. «Desidero solo finire quel che ho cominciato. Liberarti del tutto dalla Shadaloo e portarti via dal mondo che mi ha risucchiato, finché sei in tempo»
«No.» Abel aveva gonfiato il petto, sottolineando ogni singolo millimetro dei suoi due metri d'altezza. «Non sono mai stato in tempo. Potrei elencarti i motivi che mi escludono dalla possibilità di una vita normale qui, su due piedi. Ma ne potrebbe bastare uno per convincerti.»
«Allora dovrai arrangiarti con ciò che hai, okay?» Gli aveva chiesto tutto d'un fiato, ignorando quell'ultima allusione che non aveva bisogno di approfondimento per essere compresa. «Ma le nostre strade sono destinate a dividersi. Questo è ciò che mi premeva rendere chiaro.»
«Sì... Già.» Gli occhi di entrambi si erano abbassati fino a terra.
«A meno che la fortuna ci guardi, e sopravviveremo fino al nostro prossimo incontro.»
Charlie Nash era arrossito fino alla punta dei capelli per la frase che aveva deciso di aggiungere.

«Allora quando troverò una coccinella con sette punti ti aspetterò. Mi sforzerò di non dimenticare queste settimane e soprattutto di non dimenticare questa promessa. E tu... Vedi di arrivare vivo da me.»
«Sì...» Gli aveva concesso, scoppiando a ridere per la strana richiesta.

Proprio in quel momento la coccinella di Abel, o forse un'altra, gli era passata volando vicino al capo, aveva fatto una piroetta e poi si era diretta verso il disco solare, svanendo nella sua luce.

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