Estate 1944

Le notizie che arrivano non erano buone, o meglio facevano il loro lavoro. Le conseguenze di quello che facevamo ci colpivano come pugni nello stomaco, i morti che causavamo anche solo con la nostra presenza, ma non potevamo fermarci, non più. Quando arrivavano le notizie degli eccidi colpivano come un fulmine, sentivi il cielo che cadeva e la responsabilità che ti spingeva sulle spalle, ma non potevi fermarti, ma non ci si poteva fermare, il cielo cadeva e tu sprofondavi desideravi tornare alla vita di prima quando ancora la guerra non era altro che un eco lontano. Ma arrendersi avrebbe significato dare ragione a loro, nazifascisti, rendere tutte le morti vane, tutta la fatica fatta e tutto il dolore inutile. Avevamo rinunciato a tutto per una speranza e non potevamo certo cedere.

Anche se non eravamo noi i gruppi partigiani coinvolti avevamo iniziato a sentire il peso delle azioni, eravamo diventati più cauti, avevamo ridotto le incursioni in città, eravamo troppo lontani e troppo piccoli per ricevere un aiuto concreto dalle truppe Alleate, eravamo soli, ma eravamo sempre stati soli, il modo di combattere non cambiava molto, la solitudine era al nostro fianco da sempre.

Continuavamo a portare le persone verso il confine ed erano sempre di più, eravamo avidi di informazioni, di notizie, chiedevamo da dove venivano, come era la situazione, dove erano gli alleati, cosa facevano, dove erano i nazisti e i fascisti, cosa succedeva, ma le risposte erano sempre sintetiche e poco esaustive, quindi andavamo avanti di ipotesi, frasi dette a mezza voce e grazie alle poche notizie che arrivavano dagli altri gruppi.

Era caldo e afoso, le lucciole illuminavano la notte, desideravo che lui potesse vederle, ma lui non c'era e io stavo andando avanti a dimenticarlo.

Sotto il sole corsero lungo le ripidi per scendere in città, le armi e i proiettili mancavano sempre e i pochi che portavano le staffette non bastavano. Un nuovo carico di rifornimento, un nuovo attacco, io non avevo partecipato mi stavo ancora leccando le ferite dell'ultima incursione dove un proiettile mi aveva sfiorato una gamba superficialmente.

Tornarono la sera tardi e io ero già addormentato visto il turno di guardia che mi aspettava all'alba. Non li sentì non mi accorsi del movimento che crearono, delle voci che si alzarono e dei pugni che volarono, delle frasi sommesse in un italiano scadente, dei litigi. Quando mi svegliarono per il turno non c'era nessuna traccia.

«Enjolras. Come hai fatto a dormire con tutto il rumore che hanno fatto stanotte?» scossi la testa davanti a Elia e lui spiegò. «Sono tornati con alcuni rimpiazzi per i morti, peccato che siano crucchi.» sputò per terra «Crucchi dell'esercito, nazisti di merda, disertori, ma pur sempre di merda. Qui. come gli è venuto in mente non lo so. Preghiamo che non ci rubino le armi, se ci ammazzano ci fanno un favore. Devono ringraziare che Furore mi ha fermato o li avrei uccisi di botte.» si allontanò dopo un cenno di saluto continuando a insultare tutti coloro che gli capitavano a tiro.

Tedeschi appollaiati sulle montagne, come noi, come aquile, risi seriamente divertito, uno di quei colpi di scena che sembravano usciti da una favola, se per un secondo provai la speranza che lui fosse con loro, la rinchiusi immediatamente, se ero diventato bravo in qualcosa era non illudersi, però comunque avrei potuto chiedere se lo conoscevano se sapevano qualcosa di lui, se era morto o vivo. E ora che avevo la risposta a portata di mano non sapevo in cosa sperare, la sua morte e la consapevolezza che la guerra non lo avesse distrutto, o la sua vita e la speranza di poterci rivedere e magari leccarci insieme le rispettive ferite? Non lo sapevo.

Finito il turno finalmente potevo andare a vedere i tanto chiacchierati tedeschi. Stavano parlando con Furore, mi avvicinai, il rosso mi vide e mi fece un cenno di saluto che presi come un invito a partecipare.

«Ciao sono Enjolras. Voi dovete essere i fantomatici tedeschi.» sorrisi avvicinandomi da dietro e tesi la mano si voltarono e io sprofondai.

Vidi riflessa nei suoi occhi la mia stessa sorpresa, quegli occhi chiari che mi erano stati compagni per quelle lunghe notti, i capelli biondi erano quasi rasati, ma lo stesso neo sopra quelle labbra che tante volte si erano avvicinate al mio corpo. Volevo piangere e, per la prima volta dall'inizio di questa fantomatica guerra, sarebbero state lacrime di gioia. Lui sorrise e io avrei tanto voluto che le persone intorno a noi svanissero per potermi perdere tra le sue braccia. Ma le persone intorno a noi non svanirono e anche lui capì che non poteva tradirmi, mi strinse la mano e io volevo morire.

Sentì la risata di Furore che come sempre capiva ogni cosa dal più piccolo gesto. Gli sorrisi e annuì, lui scosse la testa divertito e offrì delle sigarette che accettarono. Non mi ricordo di cosa parlarono, ne io ne lui ascoltavamo ci guardavamo cercando di capire quanto eravamo cambiati, se i nostri sogni continuavano ad andare nella stessa direzione, cercavamo nei nostri occhi di capire quanto dolore avessimo nascosto, e lessi nei suoi occhi che non gli importava, che sarebbe stato pronto a salvarmi anche da me stesso, che qualunque cosa gli avessi detto lui sarebbe stato dalla mia parte, era quello che aveva scelto.

Il ragazzo seduto al suo fianco gli diede una gomitata alle costole facendo cenno verso Furore e anche io riportai lo sguardo sulla conversazione. I nomi di battaglia mancava lui, gli altri li avevo ignorati.

«Io sono...»si interruppe e mi guardò. «Grantaire.» sorrise verso di me, mi morsi la guancia per costringermi a restare fermo senza saltargli addosso. Visto che ero lì e non avevo da fare Furore mi costrinse a fare da cicerone portandogli in giro per il luogo. Lui si mise al mio fianco, richiesti i nomi di battaglia agli altri, erano quattro in tutto, mi scusai per quello che poteva essere successo la sera prima.

Lo condussi lontano dagli altri, in una zona dove andavo spesso per stare da solo, si vedeva la valle sottostante, mi sedetti sull'erba costringendolo a sedersi al mio fianco, eravamo soli. Con un braccio mi circondò in un mezzo abbracciò e io appoggiai la testa sulla sua spalla mentre gli tenevo la mano tra di noi. Si sentivano solo gli uccelli che da qualche parte cinguettavano, e noi eravamo lì a bearci della sola presenza dell'altro, senza che nessuno dei due ancora credesse alla presenza dell'altro, come se fosse solo un sogno, dove sarebbe bastata una parola per distruggere tutto, il suo profumo era ancora lì sepolto sotto strati di polvere e sudore, ma c'era e mi bastava. Tenevo la sua mano tra le mie come se potesse scomparire e non osavo guardarlo per scoprire che magari mi ero sbagliato e quello non era altro che un incubo, un altro incubo. Mi accorsi di piangere tra i sorrisi, la sua mano sul mio corpo che mi stringeva, tolsi la testa da lì e mi voltai a guardarlo, liberò la mano e la usò per asciugarmi le lacrime, quando anche lui aveva gli occhi bagnati, e alla fine cedetti, chiusi gli occhi, distrussi la distanza. Fu uno dei baci più belli che avessi mai dato e ricevuto. Era bagnato, entrambi stavamo piangendo, con una mano gli toccai i capelli, mentre lui mi spingeva ancora di più verso il suo corpo come se in un attimo avessimo voluto cancellare tutto quello che ci aveva diviso, tornare a quello che eravamo stati, ci sarebbe stato tempo per parlare, ridurre la distanza anche solo per pochi secondi, rubarci i respiri a vicenda. Alla fine risi, perché era ancora lì, perché era reale, perché era quello che ipocritamente avevo sognato da quando se ne era andato, e avevo capito che per lui era lo stesso. Lui si unì alla mia risata e portò una mia mano sul suo volto, io feci lo stesso, tastarci a vicenda sotto i vestiti per capire se fossimo vivi.

Non so quanto tempo passò, un'eternità forse, ma non mi importava, non in quel momento. Alla fine fu lui a rompere il silenzio, con quell'accento che odiavo e che ora tornavo ad amare.

«Enjolras e Grantaire sono di nuovo insieme.» sorrisi e lo bacia sulla fronte.

«Sì, di nuovo dalla stesso lato della barricata.» lo vidi incupirsi, gli presi la mano e la baciai. «Siamo insieme.» Nessuno di noi voleva parlare della guerra, io avevo ucciso gente come lui, li avevo odiati, desiderato la loro morte, desiderato che scomparissero dal mondo e lui aveva ucciso persone come me, non volevamo parlarne, parlarne avrebbe significato fare i conti con il perdono e l'odio dell'altro, non eravamo pronti, ma non saremmo mai stati pronti.

Quando iniziò a scendere il buio tornammo verso gli altri, avevamo passato la giornata così a guardarci, sorriderci, cullarci della sola presenza dell'altro senza dire nulla con poche frasi che servivano a ridere di qualche ricordo nostro, che veniva riportato alla luce. Gli altri erano già seduti intorno al fuoco, il solito gruppo che al momento andava ad allargarsi, Sam mi salutò con la mano quando mi vide sorrisi e mi sedetti con loro, Grantaire si sedette insieme ai suoi amici tedeschi.

«Allora quanti di noi avete ucciso prima di rendervi conto?» nessuno rispose, le parole di sfida caddero tra noi, loro abbassarono lo sguardo, il poco Italiano che parlavano era abbastanza per capire. Elia continuò «Allora? Facile cambiare sponda adesso che state perdendo la guerra.» Si alzò, sputò per terra «Crucchi di merda.» si avviò verso l'oscurità alla ricerca di un altro gruppo di persone con cui parlare prima di andare a letto.

Nessuno di noi prese le difese dei tedeschi, loro rimasero lì a fissare il vuoto, e lui con loro, nessuno cercò di spiegare Elia, cosa c'era da spiegare? Aveva ragione ovviamente. I nemici di ieri non diventano facilmente gli alleati di oggi e gli amici di domani.

«Però è vero perché adesso? Perché oggi?» lì guardai curioso, anche loro mi guardarono forse perché non si aspettavano che fossi io a chiederlo. Fu Atos a prendere la parola, bassino e tarchiato sembrava il più vecchio del gruppo.

«Vi abbiamo visti e ne abbiamo approfittato, non che fosse diverso oggi invece che domani, semplicemente abbiamo visto un'occasione.» Inciampava nelle parole in un italiano incerto, un accento strano nemmeno tedesco, forse slavo o polacco, liquidò la cosa con tale velocità, nessuno fece più domande sull'argomento. Tito prese a far girare un fiaschetta di vino e nessuno ci pensò più.

La notte c'eravamo ritrovati e sembrava impossibile poter passare la notte separati, mi lasciai cullare dal suono calmo del suo cuore, come facevo quelle notti lontane all'università, con le nostre mani intrecciate e il fiato dei suoi respiri sui capelli, nulla era cambiato. Tuttavia sapevamo entrambi che quella non era altro che una parentesi, sapeva che io avevo bisogno di sapere perché fosse lì, perché avesse scelto di disertare, e sapeva che avrei aspettato pazientemente che lui fosse pronto, come sapevo che avrebbe aspettato lui che io fossi pronto a raccontargli di quello che ero diventato. Nulla era cambiato, ma sapevamo entrambi che non era vero e che avremmo continuato a fare finta che nulla fosse successo, perché fare i conti con chi eravamo davvero faceva troppo male, a noi e all'altro.

Passarono i giorni in una immobilità irreale, piano piano la loro presenza venne accettata e intorno al fuoco davanti a un pezzo di pane scoprimmo che l'unico tedesco era Grantaire, gli altri tre erano Cecoslovacchi, ci raccontammo anche noi, solo vite di prima, Furore parlò di sua moglie e sua figlia, nessuno sapeva che fine avessero fatto, Sam era uno studente delle superiori quando si era unito a noi, io e Grantaire spiegammo come c'eravamo conosciuti all'università, dove nulla del nostro vero rapporto venne spiegato. Tito tirò fuori una chitarra da non si sa quale buco della terra, era scordata, mancava una corda e lui non sapeva suonare, ma ci ritrovammo a cantare comunque quelle canzoni d'osteria che fanno sembrare tutto più leggero. E io ridevo sentendo il suo sguardo su di me, e ridevo guardandolo mentre cercava di starci dietro con le parole, e lo amavo come non avevo mai amato nessuno.

La notte avevamo iniziato a raccontarci gli anni che avevamo vissuto separati, i compromessi che avevamo accettato e le lacrime che avevamo versato, ci stringevamo l'uno nel corpo dell'altro per cercare di tagliare fuori il mondo da noi. Non mi raccontò tutto in una volta, come non lo feci io, furono più notti intervallate da lacrime sommesse e sorrisi, ma sapevamo che prima di fare qualunque cosa, prima di pensare a un qualunque futuro insieme dovevamo rimparare ad accettare l'altro e a perdonarlo, avevamo avuto un rapporto dove nulla veniva nascosto e ora dovevamo riprenderlo.

«Ero stanco, ci avevo creduto, sai. Almeno per un po'.» eravamo seduti contro un albero ero appoggiato al suo busto tra le gambe e lui mi stringeva in un abbraccio. Rimasi immobile e non dissi nulla, guardavamo la vallata davanti a noi. «Come molti di noi gli avevo creduto, e si sarei stato disposto anche a nascondermi per sempre pur di vedere il disegno che vedeva lui, parlava di uguaglianza, di rispetto dei patti e poi era grazie a lui se io ero finito in quella università, grazie ai trattati di scambio.» mi abbandonai ancora di più su di lui e gli strinsi le braccia. «Ma tutto quello che diceva alla fine non erano altro che parole vuote, ho consegnato persone alla morte. Entravo in casa di gente che non avevo mai visto le prendevo, agli inizi mi inventavo delle scuse soprattutto per i bambini, ma poi smisi, sapevano dove andavano, o almeno ne avevano delle ipotesi. Li prendevo, li caricavo e poi non li avrei mai più visti, presumo li abbiano uccisi.» stava piangendo, ma non si mosse, questo genere di discorsi vanno finiti una volta iniziati o poi non si trova più il coraggio. «Ero stanco, sono stanco di tutte queste morti. Non c'è stato un motivo particolare per cui me ne sono andato, ero arrivato al punto per cui non sentivo più nulla, non ero più nulla, mi muovevo con un fucile in mano, sparavo senza rendermi conto verso chi. Poi, sai, forse un paio di settimane fa, ha fatto parte di un plotone di esecuzione, non era la prima volta, ma quella volta davanti a noi apparvero due ragazzi, non si chiedono i motivi, si eseguono gli ordini. Hanno voluto morire in piedi rivolti verso di noi con gli occhi aperti, tremavano, probabilmente erano universitari, non lo so. Ma quando hanno toccato il suolo, lo ho sentito tremare.» mi liberò e si portò le mani al volto, provai a girarmi per avvicinarmi, ma lui si alzò. «é stato come se fossi tornato alla realtà tutto in una volta, tutto. Tutto quello che avevo fatto, i morti che avevo aiutato a creare.» mi alzai e gli presi la mano, continuava a darmi la schiena tra i respiri spezzati dalle lacrime. «E stato come se mi fossi svegliato o come se mi avesse preso un fulmine, forse sarebbe stato meglio non ci sarebbe stato un dopo.» lo abbracciai, stavo piangendo, lasciai che si sfogasse sulla mia spalla, tutto il dolore ora era nostro. Lo avevo perdonato? Sì, almeno credo, anche se nessuno può cancellare quello che ha fatto, lo sapevo, sarebbe bastata come punizione vivere con i fantasmi, non aveva bisogno di un giudice. Io non ero un giudice. La storia ci giudicherà, gli altri ci giudicheranno, non possiamo giudicarci anche tra di noi. E poi non che io mi fossi comportato diversamente, alla fine eravamo in guerra e i morti si contano solo alla fine.

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