Calma
«Durante, novità?»
Il walkie talkie gracchiò il mio cognome, persi qualche battito dal mio stato di trance. «Ne-negativo, comandante»
«Scendi sottocoperta, il pranzo è pronto.»
«Di nuovo cacio e pepe, ragazzi? Gesù, questi italiani in cucina...» Ray si portò una mano contro il ventre piatto, prevedendo in cuor suo un'altra sessione d'intenso bruciore anale alla toilette.
Galatea, la capocuoca, lo guardò schifata e rispose: «Senza "questi italiani in cucina" mangereste la vostra merda in scatola americana!»
«Abbassiamo i toni di una tacca, signori» Jalendu intervenne, forse nostalgico dei chicchi basmati della sua India. «Comunque, io saprei cucinare sì e no un uovo al tegamino...»
«Comunque è tutta invidia, la miglior tavola del mondo è quella mediterranea» Galatea dovette avere l'ultima parola, per poi aggiungere in falsetto: «E poi, alla piccina piace tanto la pasta, non è vero?» si chinò verso la piccola figura seduta al suo fianco.
La bambina, per tutta risposta, ingoiò un boccone più grosso degli altri, mentre noi ci chiedevamo se effettivamente comprendesse l'inglese.
L'idea che del nostro equipaggio facesse parte anche Irina, di soli dieci anni, ci aveva lasciato tanto sconvolti quanto non autorizzati a porre domande: nessuna risposta ci veniva fornita, all'infuori dello stretto, strettissimo necessario.
Considerato poi che i nostri superiori – il comandante e il vice – erano due donne francesi poco loquaci e parecchio stronze, il silenzio era sinonimo di "quieto vivere".
A bordo della Salvari era stato stipato un campione decisamente eterogeneo di specie umana: quattordici soggetti, per la metà donne.
La nave affusolata, lunga e stretta, era uno degli ultimi modelli da ricerca; la chiglia color notte fendeva le onde come una lama nel burro fuso, elegante e silenziosa.
Dovevamo compiere una spedizione scientifica il cui intento ufficiale era quello di effettuare campionamenti di acque superficiali, per poi analizzarli e classificarli in base alle caratteristiche biochimiche. Il personale comprendeva altri due italiani oltre me, ed eravamo tutti d'accordo che l'idioma ufficiale fosse l'inglese, in teoria; in pratica, parlavamo tutti un vivace e personalizzato americano.
«Dura, allora? Visto qualcosa dal ponte?» Fips mi nominò, col suo accento tedesco qualsiasi parola suonava come un insulto alla madre.
Nuovamente forzata a riemergere dal mio accogliente subconscio, bevvi un altro sorso d'acqua solo per sputar fuori: «Negativo, ragazzone. Questa nebbia ci farà sfracellare.»
«Stiamo seguendo la rotta prevista». La voce del comandante ci raggiunse nella nostra piccola mensa, la francese poggiò il vassoio sul primo posto libero e aggiunse, glaciale: «Evitiamo inutili supposizioni, Durante»
Tacemmo, fiduciosi.
Dopo pranzo, con mia somma sonnolenza ero tenuta a strisciare verso il laboratorio per procedere all'analisi dei campioni d'acqua prelevati la notte prima.
«Il livello di salinità è aumentato di 0.2 mg/l, botta di vita». A voce alta parlavo in italiano, altrimenti mi sarei ritrovata con la faccia spalmata sulle piastrelle del bancone.
L'ambiente intorno non stimolava di certo la mia "voglia di vivere". Ero sola, e la modesta camera da laboratorio della Salvari appariva neutrale in ogni suo angolo, dalle pareti grigie al soffitto scuro e metallico, fino all'attrezzatura moderna a disposizione: una cappa d'aspirazione per manipolare sostanze potenzialmente inquinanti, una centrifuga, un vortex per miscelare le provette e qualche altro arnese del mestiere, oltre al microscopio in cui stavo infilando gli occhi.
Osservavo i minuscoli crostacei schizzare da una parte all'altra del piattino in cui avevo iniettato poche gocce di acqua salata: tante bastavano per identificare velocemente il grosso della fauna microscopica dei mari che stavamo solcando.
«Copepodi, fitoplancton, guarda che brutta faccia ha, 'sto protozoo...» e sbadigliai, perché non ero affatto una biologa marina. Avrebbe avuto più senso, infatti, se avessero scelto un biologo del mare al posto mio, ma forse preferirono le mie pregresse esperienze tra i carnivori della savana sudafricana... Il perché mi era ignoto. L'unica certezza che avevo era la motivazione per la quale ero a bordo, esattamente la stessa di tutti gli altri: i soldi.
La Grande Crisi globale del 2045 aveva tagliato i salari di mezzo mondo, il costo del cibo era schizzato alle stelle per colpa dell'estremo degrado ambientale a opera dell'agricoltura e dell'allevamento intensivo: rispettivamente, madre e padre di tutti i mali della Terra.
Prima o poi doveva succedere, era inevitabile, no?
Avevamo prosciugato il nostro pianeta di ogni goccia d'acqua potabile, disboscato i tropici e le aree temperate fino al midollo e succhiato dalle viscere della terra giungendo a raschiare l'ultimo sputo di petrolio. La santificazione del ministro Thunberg aveva smosso le greggi, sì, ma non i pastori.
I capitalisti avevano perpetuato la loro religione di esponenziale crescita economica fino alla fine: il crollo del prezzo del greggio e le bassissime rese agricole.
Risultato: gli alimenti arrivarono a costare il quadruplo, il legno divenne più pregiato del marmo e così via, mentre la popolazione mondiale aveva raggiunto i nove miliardi e mezzo di individui. Follia, pura follia.
Ma il vero problema risiedeva nella totale mancanza di una collettiva coscienza ambientalista: da secoli i paesi ricchi avevano più che dimezzato il tasso di fertilità, mentre quelli in via di sviluppo continuavano a proliferare nella sporcizia e nell'indigenza, fino a strabordare oltre i confini del mare, malati e legittimamente desiderosi di godere dei diritti europei.
Tante bocche da sfamare, ma l'Africa e l'Asia ancora non avevano imparato la lezione; forse "preferivano" continuare a piangere ai margini dei governi umanitari piuttosto che indossare uno stramaledetto preservativo... Sì, razzismo e xenofobia avevano sorpassato i limiti della guerriglia. Nessun buonismo sui Social Networks era riuscito a tenere a bada gli occidentali, schiacciati dai flussi migratori super-massivi e in costante aumento.
Prima lezione di un corso di laurea in biologia: la crescita esponenziale di una popolazione porta alla sua lenta autodistruzione.
L'umanità era alla deriva, ma a me non importava un fico secco perché "chi è causa del suo mal lo accetti e basta", mi dicevo. Ero diventata biologa per emancipare il mio status sociale e il mio genere sessuale, in una società talmente falsa e perbenista da essere ancora, dopo millenni di civiltà, profondamente maschilista.
In questo schifo di mondo non avrei lasciato nessuna prole: non sarei mai diventata madre, l'unica cosa di cui m'importava era continuare a lavorare, consolidando la mia carriera.
Per questa missione noi dell'equipaggio ci muovevamo alla cieca, letteralmente. In cuor nostro, sospettavamo che fosse un lavoro per conto dei Servizi Segreti statunitensi, dal momento che non sapevamo neanche da dove ci eravamo imbarcati: dopo l'anestesia generale, ci eravamo svegliati direttamente a bordo e in alto mare. Folle, sì, ma previsto dal contratto.
Ero partita lasciandomi tutto alle spalle, compresa una famiglia cronicamente insoddisfatta delle mie scelte, zero amici degni di tale nome e un fidanzamento durato troppo tempo per essere ancora qualcosa di vagamente stimolante.
Ma io ero così, devota a un individualismo talmente estremo da riversare in un cinismo cosmico. Fosse stato per me, avrei tranquillamente vissuto su un eremo per il resto della mia vita.
«Maera, devi venire di là, Irina ha uno dei suoi attacchi!»
La voce americana e urgente alle mie spalle spezzò il flusso dei miei ricordi, facendomi sobbalzare dalla postazione. Mi voltai, facendo scricchiolare lo sgabello sotto al mio culo, per fare più effetto. «Io non sono sua madre, Ray, ed è August il medico di bordo. Quindi?»
Lui si appoggiò allo stipite d'acciaio della porta, strusciando una mano contro la barba rasata, visibilmente nervoso. «L'altra volta sei riuscita a calmarla. Ha solo dieci anni, Mae, non possiamo cominciare a imbottirla di tranquillanti»
Come dargli torto? Era ovvio che quella bambina si sarebbe rivelata una spina nel fianco del tutto gratuita e inspiegabile.
Irina, avevamo carpito solo il suo nome.
Non parlava una sola parola d'inglese, ma si esprimeva in un linguaggio nordico non bene identificato. Kenneth Leif, il nostro tecnico norvegese, l'aveva attribuito a una forma parecchio confusa di estone.
Le urla giunsero alle mie orecchie parecchi metri prima della porta d'infermeria.
Acuta e stridente, era evidente che fosse in preda a un nuovo attacco di panico. Il medico la teneva pressata per le esili spalle contro lo schienale della lettiga. Mi guardò urgente mentre commentava con sprezzo poco scientifico lo stato della piccola paziente: «Assatanata!»
Mi avvicinai coi nervi tesi come la stecca di un violino, e August me la cedette più che volentieri. «Irina, hey!» La tenni con forza, detestando quella sua faccetta contratta feci appello a tutti i testi di pop estone che avevo ascoltato in uno dei miei tanti periodi di vita sprecata.
«Põdral maja metsa sees,
Väiksest aknast välja vaatab,
Jänes jookseb kõigest väest,
Lävel seisma jääb,
Kopp-kopp lahti tee,
Metsas kuri jahimees,
Jänes tuppa tule sa,
Anna käppa ka*...»
Chi l'avrebbe mai detto che quella stupida canzoncina di Kerli avrebbe potuto tornarmi così utile, un giorno?
Osservai come le iridi orribilmente opache di Irina smettessero di tremare, ricomponendosi come la visione del fondo di uno stagno dopo la perturbazione. La piccola ansimò prendendo aria, lottando contro quei demoni che non avrebbe mai confessato a nessuno. Il suo respiro si fece più calmo e regolare, alla base della sua gola fina e bianca la fossetta della tiroide rientrava a ogni respiro, come risucchiata.
«Ottimo lavoro, Mae» constatò Ray, mentre io non capivo perché, in un modo o nell'altro, dovessi sempre ritrovarmi quell'uomo fra i piedi.
«La porto a letto» mi offrii. Come si dice, fatto trenta, facevo pure trentuno. La presi sgraziatamente in braccio e camminai fino alla piccola cabina che era stata arrangiata per lei, lasciandola su una branda spoglia e fredda. Prima di ritornare al mio lavoro, però, mi fermai a guardare il volto stanco e impaurito di Irina. Senza un chiaro perché, mi sbocciò in mente il ricordo di un dialogo, sentito in una serie televisiva parecchi anni prima. Recitava:
«Sei adulto e vaccinato, perché hai paura dell'ignoto? Non fare il bambino!»
«I bambini non hanno paura, loro conoscono segreti che noi abbiamo dimenticato»
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