Burrasca

«...era?»

«Maera! Torna tra i vivi, cazzo»

Affannosamente, riemersi dal tepore e dalla sicurezza dell'incoscienza, solo per ritrovarmi prigioniera del mio corpo.

Gran parte di me sperava che ci fosse Gesù Cristo ad aspettarmi dall'altra parte, e invece a occupare il mio ristretto campo visivo c'era la faccia da schiaffi di Ana Gavan.

«La morte ti stava attaccata come una zecca» commentò, e servì a farmi intendere che cosa era successo.

«Co-comandante...» tentai, ma la Gavan era distante, come sempre, e io troppo intontita per chiederle quello che temevo. Tentai di muovere gli arti inferiori, ma scariche di dolore alle gambe mi aiutarono a localizzare le ferite: le mie ustioni non erano gravissime, ma profonde abbastanza da tenermi soggetta a pesanti antidolorifici.

Non ebbi il coraggio di sollevare le bende. Spettava sempre al povero August l'onere di cambiarmi le fasciature e somministrarmi gli unguenti due volte al dì, e per andare a pisciare dovevo umiliarmi ed essere portata in braccio come la storpia che ero.

Solo due giorni dopo, un membro dell'equipaggio si decise a sollevarmi dal limbo, sedendosi ai piedi della mia branda, cosparsa di fasce e unguenti improvvisati dal medico di bordo. Ray deglutì prima di cominciare a parlare, come se i miei occhi scuri e infossati lo facessero sentire in soggezione.

«Maera, ecco...»

«Irina è morta, non è vero? Pensi che caschi dal pero?» lo precedetti, ma lui mi guardò stordito, torcendosi le dita intrecciate tra le cosce.

«No, Mae, Irina è viva»

La mia gola deglutì a vuoto, secca più del sahara. «Cosa?»

Ray sospirò, abbassando penzoloni la zazzera scura, per poi passarsi le mani in faccia. «M-Mateo, Rui, Baba e Jalendu... La scarica è stata troppo forte, non ce l'hanno fatta. Ma Irina era ancora nel tunnel, e tu e il vice abbastanza lontane da cavarvela così, per modo di dire». Lo diceva con estrema semplicità, sconvolto, certo, ma si rendeva conto di quanto in basso avesse spinto la mia disperazione? Eravamo tutti sulla stessa, ignobile e fallace barca.

La mia brutta faccia si contrasse da sola, e iniziai a piangere senza ritegno.

Non era tanto per i singoli individui, – il mio cinismo era sempre andato oltre il particolare – quanto per la maledizione che sembrava radicarsi in quella nave, tra quella gente, e la cosa peggiore era il non trovare il colpevole, il fautore di quello scempio. Era lo stesso che aveva ucciso Jalendu? Aveva interesse a farci fuori uno dopo l'altro? Per cosa, poi, cibo? Un cambio di rotta? Un atto politico?

In uno dei miei deliri notturni, arrivai a pensare che l'anima dannata di Kenneth Leif si stesse vendicando, colpendo alla cieca.

Ray attese che i miei patetici singhiozzi si placassero appena, solo per gettarmi altro sale negli occhi.

«Al vice è andata peggio, comunque. È rimasta sfregiata, tu eri appena più lontana dalla pozza d'acqua stagnante e la scossa non è risalita oltre le cosce. Ma non è finita qui. Irina, lei...»

«Basta, Ray. Non voglio più sapere un cazzo, non adesso!» sbottai, sopraffatta.

Non ci eravamo accorti che Stefano era comparso sull'uscio della cabina, più sbattuto di un uovo strapazzato.

«Hey, ragazzi... volevo dirvi che, ragionando con gli altri, siamo giunti alla conclusione di dover pescare, per forza. Le scorte sono praticamente esaurite e dobbiamo muoverci»

Ray capì perfettamente l'intento, e chiese: «La Salvari è attrezzata con mute, bombole e arpioni?»

«Nessun arpione, ma per la rete possiamo inventarci qualcosa. Comunque, ogni nave da ricerca scientifica ha attrezzature da sub per almeno due persone. Io ho il brevetto»

«Anch'io,» rivelò Ray, con sommo sollievo da parte dell'altro, che era terrorizzato all'idea di dover immergersi da solo «verrò con te, Stefano. Non perdiamo altro tempo, il sole sta calando».




I due uomini fluttuavano nel blu, si muovevano ovattati nel silenzio di un ambiente opaco, come addormentato.

I loro corpi lunghi e affusolati sgusciavano tra tubi e bombole issate alla schiena, con delle reti di fortuna in mano cercavano di elaborare il punto migliore tra mare e chiglia dove arrangiare la trappola per pesci. Nella speranza che un banco di una qualsiasi specie ittica potesse impigliarsi nelle prossime ore.

Ray si voltò lentamente, controllando se il collega fosse ancora dietro di lui. Trovò Stefano più in basso, con un dito indicava un punto più profondo non meglio identificato, verso la parte ventrale della Salvari.

Ray scosse la testa, rallentato dall'attrito del mezzo. Sconsigliava all'altro di andare così a fondo, la colonna d'acqua era torbida e la poca luce solare rimasta al di fuori non migliorava la visibilità.

Il giovane e testardo italiano non diede peso all'avvertimento. Prese a nuotare verso il basso, convinto di aver visto un potenziale appiglio sporgere dalla parete navale. Raggiungendo quell'escrescenza, Stefano avrebbe potuto agganciare un lembo della rete per poi cercare un'altra protuberanza simile.

Da dietro la pesante maschera facciale, l'americano tentò di mettere a fuoco la figura offuscata del compagno, iniziando a chiedersi con ansia perché ci stesse mettendo così tanto. Decise quindi di orientarsi verso quella macchia scura sul fondo e muovere le pinne in quella direzione. Ray si mosse verso di lui, ma non abbastanza in fretta, e iniziò a farsi delle domande. Perché Stefano era immobile? Perché dal retro della sua schiena saettava via un'allarmante scia di bolle d'aria? Ray sgranò gli occhi e spinse al massimo i quadricipiti, intuendo l'anomalia della situazione.

L'americano raggiunse l'altro e lo prese per le spalle, cercando il viso del giovane cuoco; gli occhi di Stefano erano sgranati e le pupille orribilmente dilatate testimoniavano la definitiva entrata di acqua nei polmoni.

Scosso da uno spasmo di terrore, Ray artigliò le braccia del compagno e cominciò a nuotare disperatamente verso la superficie. Ogni colpo di frusta delle pinne era quasi doloroso e, carico del peso di Stefano, il soccorritore procedeva troppo a rilento. Fece dunque quel che andava fatto: tolse il boccale a Stefano e prese un lungo respiro, sostituendo il bocchettone del suo respiratore in modo tale da rifornire l'italiano. Ray sganciò così l'attrezzatura dal corpo dell'altro, liberandosi del peso immane continuò a spingere verso l'alto, pregando di farcela.

Poseidone, o qualche altro dio esotico, rispose alle sue suppliche. Tuttavia, prima di attraversare lo strato di fitoplancton, Ray vide qualcosa che lo sconvolse ancora di più, se possibile.

Riemersero, come due ramoscelli in balìa di un uragano.

«Fips! Scendi a darmi una mano! Presto!» Ray urlò, annaspando insieme al corpo inerme di Stefano.

Il collega tedesco si calò giù per la scaletta sferzata dal vento, trattenendo l'italiano per il torso riuscì a far emergere completamente Ray ed entrambi risalirono a fatica, trascinando il terzo incosciente.

Sul ponte c'era August ad attenderli, forse per un improvviso sesto senso.

Fips e Ray buttarono al suolo Stefano, e August si precipitò freneticamente a spogliarlo. Aprì la cerniera della muta e tastò la giugulare del ragazzo, non avvertendo alcuna pulsazione. Il medico aprì la bocca del giovane e si chinò, aderendo alle fredde labbra dell'italiano soffiò dai suoi polmoni a quelli dell'altro, per poi procedere col massaggio cardiaco.

Ray era sdraiato accanto a lui. Ogni muscolo dell'americano tremava violentemente e ogni forza sembrava averlo abbandonato. Non riusciva a rialzarsi dallo sgomento, e non era solo per le condizioni critiche di Stefano. Era per quello che aveva appena scoperto.

Passò un quarto d'ora nel quale August era allo stremo delle forze. Le spalle si erano fatte dolenti e Fips si offrì di continuare il massaggio cardiaco. Altri interminabili minuti senza riscontro, mentre la pelle liscia di Stefano era dello stesso, identico colore della spuma marina.

Per August fu troppo, il medico di bordo si portò le mani contro la fronte e prese a singhiozzare amaramente.

«Fips...»

Ma il tedesco, disperato, continuò fino a impazzire di rabbia anche lui. «Che sta succedendo su questa cazzo di nave, Dio!» Fips urlò al vento, al mare grosso, alle sirene e a Caronte.

«Non ce l'ha fatta, Fips...» August scuoteva la testa, appoggiandola sul petto dell'ennesimo paziente e compagno che scivolava via, inesorabilmente, dal suo giuramento di Ippocrate.

Ray piantò un punto contro la pavimentazione, rischiando di spaccarsi una mano. Ma non sentiva il dolore, era sordo e cieco dalla rabbia e dall'immensa paura senza frontiere che lo attanagliava: come avrebbe spiegato all'equipaggio quello che aveva visto sott'acqua? Come razionalizzare la pura e orba logica di quella realtà?




Il mio animo amplificato dal dolore e dalla morte mancata mi rendeva molto vicina al possedere il famoso "sesto senso".

Capii che qualcosa – qualcos'altro – non andava, dai leggeri passi che rintoccavano tra le membra della Salvari. Come se potessi percepire le auree nere dei membri dell'equipaggio, indovinai che quei movimenti erano concitati, avevano un ché di allarmante. Non seppi quale forza mi costrinse ad alzarmi dal letto, afferrare le stampelle di fortuna, accroccate da August, e trascinarmi in direzione della plancia, dove sapevo – o meglio, sentivo – che stava accadendo qualcosa.

Nelle ultime ore, il mare sembrava essersi odiosamente ingrossato e le onde gonfiavano e sgonfiavano spinte prepotenti contro la pancia della nostra Alcatraz.

Spinta dagli ultimi strascichi dell'antidolorifico e da una straziante forza di volontà, approdai alla cabina di comando come un naufrago sull'isola di Kong, scogliosa e ostile ai visitatori.

Trovai Ray, August e le due in comando appena entrate, con l'americano che aveva urgenza di comunicare qualcosa.

«Mae, dovresti riposare...» cominciò August.

«Sì, sì, ma per ora risparmiami lo sforzo di ritornare in cabina senza aver saputo nulla!» sbraitai contro il medico, ma l'aspetto fradicio e bianco lacero di Ray mi lasciò di sasso.

«Allora? Parla!» ordinò Ana, provata anche lei in un modo che non capivo, non prima di individuare un sacco nero accasciato sul ponte. Era troppo simile a quello che aveva avvolto Kenneth Leif.

La mia pressione scese ai minimi storici. «Che- che è successo? August!» ma il medico non mi degnò d'uno sguardo. I suoi occhi parevano due fondi di caffettiera sporca, persi oltre le due donne della plancia.

La voce di Ray proruppe in mille pezzi: «L'an-l'ancora, comandante. È abbassata e incagliata sul fondo! Per tutto questo tempo... tutto questo tempo non ci siamo mossi di una lega!»

Dopo qualche secondo di osceno silenzio, Ana batté le palpebre. «Ray Bodeman, sta' al tuo posto...»

L'americano scosse la testa, implorando gli occhi piccoli e chiari della donna. «Comandante Gavan, non è un sospetto... So quello che ho visto. La nave è ferma! Ferma, e questo spiega perché lo stracazzo di orizzonte tra la pioggia, la neve e il sole non è mai cambiato di una virgola!»

Ulrika si inalberò, ché non voleva crederci neanche a costo di negare l'evidenza. «Il gps parla chiaro, Bodeman! Abbiamo percorso più di diciotto leghe!»

«Ci possiamo fidare di quello che dice il gps così come della ricetrasmittente o del motore elettrico, vero? E l'attrezzatura da sub di Stefano, anche quella era affidabile?» Impazzito, Ray era straripato nella totale insubordinazione, tanto che August dovette trattenerlo dal piantare qualche pugno sulle strumentazioni. Ray fu allontanato bruscamente fino alla soglia della cabina di plancia.

Io mi ero tramutata in una statua di sale, un gargoyle zoppo e butterato come il travertino.

Nonostante non avessi ancora elaborato le frasi di Ray, le facce stravolte del capitano e del vice alimentarono ulteriormente il mio senso di smarrimento. Sbilanciata dal movimento oscillatorio della nave, poggiai la schiena contro la fredda parete metallica, mentre fuori imperversava una burrasca.

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