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-Keith!- si sentì urlare dalla sala e il giovane direttore del Seraphim si affacciò di corsa dal soppalco, individuando subito davanti al bancone del bar Amber intenta a sbraitare contro una donna.

La raggiunse mentre l'amica continuava a inveire contro l'altra. La sua "antagonista" era di diversi centimetri più bassa di lei; i capelli neri le accarezzavano a malapena i lobi delle orecchie. Era mingherlina e tanto più piccola nelle proprie fattezze di Amber da sembrare molto più giovane e indifesa di lei, eppure sosteneva lo sguardo della bionda con arroganza e un cipiglio severo le induriva i tratti del viso.

Keith le raggiunse che Amber urlava ancora, sempre più a disagio, mentre l'altra ribatteva alle sue parole con tono pacato e tagliente.

-Non è possibile che non posso nemmeno uscire da qui per fare una telefonata senza prima dirlo a lei!- urlò Amber rossa in viso e Keith comprese immediatamente qual era il motivo dello scontento della sua amica.
-Tesoro...- provò a rabbonirla, avvolgendole la vita con un braccio.
-Dovete sempre comunicare ogni vostro spostamento- precisò l'agente speciale Wong. -Dobbiamo sempre sapere dove...-
-Ma, agente...!- la interruppe Amber e l'altra la fulminò con lo sguardo.
-Addestrati, cara- disse, pronunciando il vezzeggiativo con tono sprezzante. -Il mio nome è Fay. Non devi mai lasciarti sfuggire davanti a nessuno chi sono davvero- sibilò mentre i suoi occhi scuri si accendevano di un'emozione minacciosa.

Amber rabbrividì e si strinse a Keith, cercando di nascondere all'altra lo spavento che le aveva suscitato la sua espressione.

-Apriamo tra poco, meglio chiuderla qui. Abbiamo capito, Fay- disse il giovane e l'altra annuì, andando a prendere posto dietro al bancone del bar, dove sarebbe rimasta per tutta la serata, spacciandosi per l'aiuto banconista di Amber, di modo da potere tenere la sala e l'ingresso all'ufficio di Keith e quello del locale sotto controllo.

A chiusura dell'agenzia, dopo avere congedato i propri dipendenti, Jeffrey si trovò costretto a rifiutare l'invito di Lily e Nate di una cena tra amici, rimandandola a data da destinarsi. Ormai, la notizia che Jeffrey e Daniel fossero diventati una coppia fissa si era sparsa un po' dappertutto, perfino un paio di riviste scandalistiche avevano pubblicato scatti dei due, immortalati in inequivocabili atteggiamenti intimi.

Perciò Jeffrey comprendeva il desiderio degli amici di assicurarsi che lui stesse bene, di volere conoscere Daniel fuori dalla sfera lavorativa di modo da potersi assicurare che l'uomo non stesse per andare incontro all'ennesima delusione d'amore, tuttavia, Jeffrey sapeva di avere altre priorità in quei giorni e gli occhi dell'F.B.I. puntati addosso.

Così, seppure a malincuore, rifiutò l'invito dei due, ma attese di essere raggiunto da Daniel prima di salire in auto.

-Agente speciale White- salutò Jeffrey, trovando l'uomo ad attenderli nella limousine. -Non le ho visto lasciare l'agenzia- aggiunse e l'altro si strinse nelle spalle.
-Noto con piacere.... ch'è... sempre molto  lo... loquace- borbottò Daniel e il suo amante lo fissò tra lo stupito e il divertito, non aspettandosi una battuta tanto provocatoria da lui. L'agente White si schiarì la gola, ma rimase in silenzio.
Jeffrey sorrise e scosse la testa, passò un braccio intorno le spalle di Daniel e gli baciò la fronte.

-Così facendo rischi di farmi innamorare ancora di più- sussurrò tanto piano contro la sua pelle, nella speranza che l'agente non lo udisse, ma timoroso di non essere riuscito a fare comprendere le proprie parole nemmeno a Daniel, ma poi incontrò i suoi occhi celesti, colmi di una gioia incontenibile e comprese che l'altro l'aveva sentito.

Tra le fronde alte degli alberi e dei cespugli di fiori, l'aria si era fatta più dolce e meno afosa. Il sole era ormai calato da un po' e il giardino della residenza per anziani era stato illuminato in modo artificiale, per rischiarare i viali. Il gazebo di marmo era interamente rivestito da lucine dal sapore natalizio, di colore giallo oro e, al suo interno, intorno al tavolino rotondo, sedevano una donna anziana e un giovane uomo dai tratti marcati, la pelle scura, i capelli neri, in netto contrasto con i lunghi ricci bianchi dell'altra.

-Giovanotto lo vuoi un po' di tè?- chiese Stephany e l'uomo seduto al suo fianco le rivolse un sorriso e annuì, sentendosi un po' impacciato, ma continuando a guardarsi attorno con morboso interesse. Un'infermiera li raggiunse poco dopo, scambiò un breve sguardo d'intesa con l'agente speciale Sanchez e prese la donna con delicatezza per i gomiti, cercando di attirare la sua attenzione.
-Stephany, cara, non vorresti tornare dentro? Sta diventando buio e tra poco verrà servita la cena. Così anche a questo bel giovanotto verrà pure più facile... ehm... tenerti compagnia- disse e l'altra si liberò dalla sua presa, in modo gentile, ma deciso.

La donna scosse la testa con aria risoluta e continuò a riempire le tazze di tè che si trovavano disposte sul tavolino.

-Stiamo aspettando un ospite importante- disse arrossendo un po'.
-Chi?- le domandò l'agente speciale Sanchez, ma lei scosse di nuovo la testa: era gelosa del suo nome, perché era uno dei pochissimi che aveva imparato a ricordare.

"Claud" pensò e sorrise emozionata.

-È un ragazzo bellissimo- disse con dolcezza. -E tanto buono. Viene sempre a trovarmi, quindi dobbiamo aspettarlo- rispose e iniziò a riversare il contenuto delle tazze nella teiera.

Mentre alcuni degli uomini che le erano stati concessi dall'agenzia sorvegliavano coloro che lei reputava più in pericolo tra quelli che facevano parte della cerchia di Doyle e Blake, l'agente speciale Turner era ormai giunta alla conclusione che avrebbe potuto staccare la testa a morsi a qualcuno, se tutto non fosse andato secondo i suoi piani.

Qualcuno bussò alla porta e la donna trasalì, urtando con il dorso di una mano e facendo cadere giù dalla scrivania un bicchiere contenente penne e matite. Lo recuperò subito, rimase tutto al suo posto, rimangiandosi ogni singola imprecazione che le aveva attraversato la mente e invitò la persona che aveva bussato alla porta a entrare.

-Direttore Hayes- disse Sue, mentre persino il suo sorriso professionale si spegneva, alla stregua di una lampadina fulminatasi di colpo.
-Sue. Come procede?- le domandò l'uomo e lei aggrottò la fronte.
-Benissimo. Ho tutto sotto controllo- disse ostentando una fredda e distaccata sicurezza.

Il direttore annuì, non proprio convinto da quelle parole. Strinse le mani dietro la schiena e si chinò sulla scrivania, sbirciando le carte che la riempivano, sommergendola dal disordine. Poi tornò a irrigidire le spalle e fissò un punto imprecisato sulla mappa affissa alla parete di fronte a lui.

-Ha messo pure degli agenti a seguito dei soggetti sensibili. Un dispendio di forze e risorse non indifferente, agente speciale Turner. Mi auguro che tutto ciò non si riveli uno spreco-
-Direttore- disse Sue, ma si morse la punta della lingua prima di riprendere a parlare, nella speranza che la rabbia non la portasse a dire qualcosa di cui si sarebbe potuta pentire. -Le posso assicurare che ogni forza impiegata è assolutamente necessaria per la riuscita del piano- tuttavia, si trovò a sollevare un sopracciglio con aria di sfida. -Dopotutto, chi non era necessario o deleterio alla buona esecuzione del piano, ho preferito relegarlo il più lontano possibile dall'azione- aggiunse senza riuscire a trattenersi dal pronunciare quella frecciatina diretta al figlio dell'uomo.

Il Direttore Hayes sembrò intuire dove l'altra volesse andare a parare e aggrottò la fronte, girandosi per guardarla dritta negli occhi.

-Le è stata data carta bianca per un motivo specifico, Sue: la famiglia Dervinshi deve essere smantellata. Ha lavorato al caso con devozione, in questi anni, ma non ha prodotto risultati soddisfacenti. Non mi faccia pentire di non avere dato ascolto ai miei superiori e di averla lasciata a capo dell'indagine. Ogni risorsa è preziosa soltanto quando chi è a capo è in grado di gestire la situazione con adeguata competenza-

Sue sgranò gli occhi e ridusse le labbra a una linea sottile. Si limitò ad annuire, percependo i capelli, stretti in un'alta coda, sfiorarle la base del collo in una fastidiosa carezza.

"Io... incompetente! Perché? Perché sono una donna? Perché non sono più giovane e fresca?" pensò con rabbia e, appena sentì la porta chiudersi alle spalle del direttore, batté le mani sulla scrivania con violenza, "Ve lo dimostrerò... a tutti! Vi farò pentire di avermi dato dell'incompetente! Riuscirò a sbattere dietro le sbarre i Dervinshi, fosse l'ultima cosa che faccio!"

A diversi chilometri di distanza da Los Angeles, in un punto imprecisato nello Stato della California, Ryan e Claud trascorrevano le loro giornate tra ozio e brevi parentesi di intimità, rinchiusi nella casa sicura con l'agente speciale Hayes a sorvegliarli in pianta stabile, mentre altri agenti si susseguivano ad affiancare il collega, dandosi il cambio.

Jade era già stanco di trovarsi in quella situazione. Sue non l'aveva più ricontattato per rientrare sul campo, e l'uomo era certo che lo stesse ancora punendo per essersi fatto sedurre da Blake. Dopotutto, all'epoca dei fatti, Jade aveva dovuto lasciare Palm Spings e correre a New York, dopo essere stato richiamato in sede dall'agenzia – per ricevere una ramanzina epocale – e tanto era bastato ai Dervinshi per costruirsi un'occasione e rapire Blake.

Scosse la testa e chiuse il rubinetto dell'acqua, fissandosi attraverso il riflesso tremolante che gli veniva restituito dai vetri delle finestre che davano sul giardino. Era ormai sera, avevano scostato le tende, ma chiuso per bene le ante esterne. Osservare la sua immagine in quello specchio improvvisato lo fece sentire ancora più demoralizzato; si sentiva esattamente come si vedeva: sbiadito e dai contorni poco definiti.

Fece schioccare le vertebre superiori, muovendo il collo da una parte e dall'altra, percependo una certa tensione irrigidirgli le spalle, tanto che temeva che, a lungo andare, gli sarebbe potuto venire mal di testa. Purtroppo sapeva che non sarebbe stato risolutivo assumere un qualche antidolorifico: il dolore che il suo fisico stava manifestando era conseguenza diretta del suo stesso umore e dei pensieri che gli affollavano la mente.

Proprio quella mattina aveva ascoltato, per sbaglio, senza alcuna intenzione di origliare, le parole dei colleghi che lo avevano affiancato in casa per spalleggiarlo nella sorveglianza dei testimoni. Riprese a lavare i piatti, cercando di distrarsi, non potendo fare nulla per evitare che le parole che aveva udito dire loro continuassero a ronzargli nelle orecchie.

Alla fine sbuffò e batté le mani sul bordo della vasca del lavello. Captò subito, con la coda, la mano di qualcuno intrufolarsi nel suo campo visivo e chiudere il rubinetto.

-Tutto okay?- gli chiese Ryan e Jade annuì, decidendo di smetterla di costringersi a impegnarsi in quelle attività da brava casalinga: era troppo arrabbiato, aveva bisogno di qualcosa di più impegnativo per distrarsi.

"Tutto okay un corno!" pensò con stizza, "Mio padre mi ha di nuovo coperto, sminuendomi agli occhi dei miei colleghi! Aveva ragione Sue" si disse con amarezza, ripensando agli stralci di quella conversazione che aveva sentito, dove uno dei due uomini aveva raccontato all'altro di essere stato testimone della sfuriata del Direttore Hayes ai danni dell'agente speciale Turner, alla fine della quale aveva imposto alla donna di non estromettere del tutto suo figlio da quell'indagine, "Lei aveva la certezza di quello di cui mi ha accusato l'altro giorno e io... le sono andato contro come un cretino, credendo davvero di essermi meritato il perdono".

Ovviamente sapeva di non potersi lasciare sfuggire nulla di tutto quello con Ryan, perciò si sforzò di sorridere al giovane e di spostare la sua attenzione su altro.

-Dovreste cercare di essere più discreti, voi due. L'altro giorno il mio collega vi ha quasi beccati- disse con tono canzonatorio e Ryan arrossì furiosamente.
-Ci ha visti?-
-In che senso?-
-A me e Claud...-
-Perché, stavate facendo qualcosa di... disdicevole?- lo interruppe Jade, sollevando un sopracciglio, e Ryan comprese che l'uomo lo stava prendendo in giro per fargli ammettere apertamente quello che lui e Claud facevano quando si ritagliavano dei momenti solo per loro.

-Sei geloso?- lo punzecchiò Ryan, tentando di ribaltare la situazione e Jade si strozzò con la propria saliva. Tossicchiò e cercò di darsi un contegno, anche se sentiva che le sue guance si erano fatte bollenti, ma sperò di non essere arrossito troppo.

-Sai...- fece Ryan, abbassando gli occhi al pavimento, cambiando all'improvviso espressione e abbandonando del tutto l'aria giocosa che aveva manifestato fino a un istante prima. -Nessuno ha mai rischiato tanto per me. Forse è una cosa malata, ma l'idea che lui, tu... stiate rischiando tanto per aiutarmi, mi commuove- mormorò e Jade si schiarì la gola e reclinò il capo da un lato, trovandosi ad accarezzargli una guancia.
-Non devi avere paura. Quello che provi ha senso: non sei malato, stai reagendo come un essere umano e ti stai aggrappando a quello che di buono ti circonda- disse con dolcezza e Ryan annuì.

-Non volevo... non volevamo mettervi a disagio. Per... ecco, mi hai capito, no?- gli chiese con imbarazzo. -Non era previsto e io e Claud ci siamo avvicinati tanto, ma se la cosa vi crea problemi...-
Jade ritrasse la mano e incrociò le braccia sul petto; si strinse nelle spalle e distolse gli occhi da lui, sentendosi un po' a disagio.
-Se vi dà conforto, va bene. Chi sono io per giudicarvi?- disse a voce. "Un idiota che ha rischiato di mandare all'aria la propria carriera soltanto per un po' di sesso. Lo dicevo che dovevo farmi prete!" si rimproverò a mente, decidendo di tenere per sé quei pensieri.

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