L'inverno

Cara mamma,
è passato un bel po' di tempo da quando te ne sei andata, eppure non passa giorno senza che la tua mancanza mi faccia rattristare, senza che una lacrima mi righi il volto. Ma questo non importa, adesso voglio solo scriverti questa lettera, che spero un angelo del Signore ti porti in cielo. Se ti stai chiedendo perché ti scrivo solo ora, il motivo è semplice: credo di aver superato (o almeno lo spero) la parte peggiore e dolorosa della mia vita e sento, nel profondo, il bisogno di buttare fuori tutto ciò che ho dentro.
È stato difficile decidere da dove iniziare: nella mia vita ci sono stati parecchi momenti che si potrebbero definire "inizi", ma alla fine ho capito che, se volevo davvero liberarmi, dovevo partire dal vero inizio, dal 12 dicembre di venti anni fa...

La neve cadeva leggera in quella grigia mattina e, quando mi alzai, la finestra della camera lasciava filtrare solo pochi spiragli di luce; tanta neve si era depositata sul piccolo davanzale durante la notte. Mi alzai stiracchiandomi e poi, come ogni giorno, mi vestii e scesi in cucina per fare colazione. Tu eri davanti ai fornelli, intenta nel prepararmi la colazione. Ti corsi incontro e, alzandomi sulle punte dei piedi, ti baciai sulle calde guance; ricambiasti i baci scaldandomi il volto con le tue labbra tiepide e sorridendomi radiosa. Quella mattina mangiammo marmellata di arance, me lo ricordo ancora perchè ne mangiai una tonnellata, tanto era buona! Dopo di chè recuperai la cartella e mi incamminai verso scuola.

Lungo la strada innevata, mi ritrovai ad immaginare la mia vita di lì a qualche anno: un uomo adulto con una famiglia felice, sposato con una bellissima donna e padre di due bellissimi gemelli... A proposito, non so se lo sai già, ma io ho sempre desiderato due gemelli (maschi o femmine è indifferente), poichè ho sempre voluto vedere come crescono due creature così simili fra loro, come compiono scelte diverse e come si supportano quando si sentono minacciati. Mi piaceva quando mi ritrovavo a sognare così ad occhi aperti: mi faceva sempre guardare il presente con il sorriso sulle labbra (perfino quando non c'era proprio motivo di essere allegri). Il sogno durò fino alla pasticceria "da Gino", il negozio che fronteggiava la scuola che sorgeva a qualche decina di metri più a destra. Un basso rettangolo bianco con qualche finestra e una grande porta di quercia esattamente al centro. Il negozio era strapieno di studenti che facevano le scorte per la merenda, tra di loro c'era anche Gaia, la mia migliore amica. La salutai con un cenno della testa e lei, vedendomi, si fece strada attraverso il piccolo locale e uscì per salutarmi.

-Buongiorno vecchio mio, come mai tutto sorridente oggi? Hai di nuovo sognato ad occhi aperti?-,

Sorrisi, era straordinario come sapesse leggermi nel pensiero!

-Mi hai beccato Gaietta-, mi diede una spallata affettuosa (non le piaceva quando la chiamavo così, ma ormai ci aveva fatto l'abitudine), dopodiché ci incamminammo verso la scuola. Raggiungemmo i nostri banchi e ci sedemmo in silenzio, aspettando l'inizio della lezione. La neve, intanto, continuava a scendere al di là della finestra, rendendo tutto bianco. Quella mattina la lezione fu molto noiosa e io, già conoscendo gli argomenti, mi distrassi parecchie volte (inutile dire che Gaia provò molte volte a farmi stare attento ma, data la nostra lontananza, i suoi tentativi erano parecchio inefficaci) ... per me era impossibile non distrarmi! Quella distesa bianca, candida, che si apriva a qualche metro da me era una perfetta tela da pittore dove potevo liberamente disegnare bellissimi quadri con i colori della mia fantasia. In particolare, il sogno che avevo fatto quella mattina tornò a imbambolarmi, ma da una diversa prospettiva.

Era la vigilia di Natale e io ero disteso sul divano di casa nostra, intento nel giocare con delle carte quando, dalla cucina, provenne una risatina che, pian piano, diventò sempre più forte. Dopo pochi secondi, dalla porta entrò gattonando e tutta sorridente Maia, la quale, non appena mi vide, incominciò a ridacchiare. Incuriosito, mi alzai e le andai incontro, ma c'era qualcosa che non andava in me: le mie mani erano molto grandi e io stesso mi sentivo stranamente più alto. Dall'altro lato della stanza c'era uno specchio appoggiato ad una tavola di legno, mi ci specchiai. Cacciai un urlo fortissimo per lo spavento che presi: ero diventato un uomo adulto (tra l'altro molto simile al papà, tranne per gli occhi e il naso, quelli avevano preso le tue curve gentili) e non sapevo proprio come questo fosse possibile. Intanto Maia, o per meglio dire mia figlia, aveva iniziato a piangere, emettendo un suono fastidiosissimo. Una delle porte che si affacciavano sul salotto si spalancò di colpo e una Gaia in versione adulta entrò, reggendo un altro fagottino rosa fra le braccia. Sulla sua faccia si leggeva la paura per lo spavento ma, non appena vide che tutti stavamo bene, si tranquillizzò. Poi il sognò cambiò: era ancora la vigilia di Natale ma era quasi mezzanotte, io ero sdraiato sul letto e, al mio fianco, Gaia dormiva tranquilla. Nel sogno la fissai. Era davvero bella con quei capelli mossi arancioni che le ricadevano dolcemente sulle guance rosee e lentigginose e, in più, la luce lunare le inondava il volto dandole un'aura di angelica bellezza, quasi fosse fatta di pura luce. Davanti a quella strana visione (che ovviamente stavo solo sognando), provai, per la prima volta, la magnifica sensazione di immensa felicità che avverti quando senti che quella che stai immaginando è la vita che hai sempre desiderato.

"Boom". Un rumore improvviso mi riportò alla realtà. Rinvenni dal mio lungo periodo di riposo e cercai, come tutti nella classe, la causa di quel botto infernale. Fuori dalla finestra una grande colonna di fumo si alzava dal lontano mulino della città, che era invaso dalle fiamme e stava bruciando, divorato dal fuoco. La maestra, spaventata, ci ordinò di rifugiarci sotto i banchi e di restarci mentre andava a chiedere spiegazioni. Facemmo ciò che ci aveva ordinato, ma io, ad un certo punto, avevo la mente talmente intasata dal pensiero di ciò che avevo appena sognato che decisi di andare da lei a parlarle, a dichiarare il mio amore, il mio amore verso Gaia. Mi alzai e mi spostai tra i banchi della classe, finché arrivai a pochi passi dal suo banco. Aveva la testa fra le mani, come stesse pregando ma, quando mi sentì, alzò lo sguardo su di me, facendo riflettere i miei occhi nei suoi un'ultima volta. Fu in quel momento che il soffitto crollò con un altro boato infernale. Non appena mi resi conto di ciò che stava succedendo, mi riparai sotto un armadio incassato nel muro e mi ci sdraiai all'interno, troppo terrorizzato per pensare ad altro.

Svenni probabilmente, poiché quando riaprii gli occhi intorno a me nulla era lo stesso. Uscii dal mio riparo e mi guardai attorno, disperato. Ogni cosa della classe era stata distrutta, solo il muro degli armadi era rimasto in piedi. Disperato, cercai aiuto, urlando a squarciagola tutti i nomi che mi venivano in mente; mi fermai soltanto quando sentii la mia bocca pronunciare il suo nome, -Gaia-. Solo allora mi resi conto che tra le macerie che giacevano intorno a me doveva esserci anche lei, ferita, magari. Corsi verso il punto dove per l'ultima volta l'avevo vista e incominciai a spostare i detriti. Qualche minuto dopo, riuscii ad estrarre il suo corpo dalle macerie: era morta. La sollevai tra le mie braccia e la osservai: gli occhi ancora spalancati e la bocca, che era aperta, le disegnavano sul volto una smorfia di intenso dolore.

La neve, intanto, continuava a cadere fitta sui detriti, coprendoli con il suo delicato manto bianco.

La mia testa non riusciva più a pensare e così rimasi lì a osservare il rigagnolo di sangue che, sgorgando da un profondo taglio che lei aveva appena sopra il sopracciglio destro, cadeva vischioso sulla neve fresca.

Che strana quella scena: una cosa così pura e candida come la neve macchiata dalla cosa più importante per qualsiasi essere vivente, il sangue, sangue che dopo poco però veniva assorbito dalla neve che tornava bianca. Sai, ora che ci rifletto un po' su, credo che questo sia il senso della nostra vita terrena: anche la creatura più gentile e buona deve inchinarsi infine alla meschina morte, ma se in vita la tua anima era rimasta bianca e pura persino il dolore per l'aldilà pian piano scompare, esattamente come il sangue sulla neve.

Ci fu un periodo di silenzio che, purtroppo, non durò all'infinito... a quel muto momento seguì un ultimo grande e terribile bombardamento. Questa volta li vidi, gli aeroplani, che tanta morte avevano seminato, solcare il grigio cielo e puntare in direzione della parte periferica della città, dove abitavo, dove abitavi. Seguii con lo sguardo quei terribili uccelli di morte finché sganciarono le bombe, dopodiché presi a correre verso la zona bombardata, comprendendo, solo allora, la gravità del momento. Corsi più veloce che potevo con il cadavere della mia amica sempre stretto tra le braccia e il petto; non avevo il coraggio di lasciarlo lì in mezzo alle macerie.

Ansimante raggiunsi il nostro viale alberato e la prima cosa che notai fu una donna affacciata ad una finestra di una casa in fiamme agitarsi, cercando di sfuggire al fuoco che la divorava. Ella però non era sola: avvolta tra alcune coperte ci doveva essere infatti una bambina sui due anni che tra le sue braccia piangeva incessantemente, piena di paura. Ai piedi dell'edificio un uomo, gobbo, sotto il peso di un grosso secchio pieno di acqua che teneva in braccio, tentava, invano, di salvare la donna cercando di domare l'incendio.

La sua speranza durò solo qualche attimo: dopo qualche straziante minuto, la casa crollò con un forte fracasso. Allora l'uomo si accasciò per terra, piangendo, divorato da un dolore che solo a stento io posso immaginare. Alle sue lacrime si aggiunsero poco dopo le mie: troppa disperazione avevo visto e provato quel giorno...

Il mio pianto raggiunse le orecchie del vecchio che si girò, incredulo, con le ultime energie rimaste. Si alzò e cominciò a camminare verso di me, la disperazione dipinta sul volto familiare; il volto sconvolto di mio padre.

Lo guardai, lui mi guardò e poi avvenne: una bomba scoppiò a pochi passi da lui, uccidendolo.

Il peso del mondo mi crollò improvvisamente sulle spalle, pesante più di ogni altra cosa, pioché avevo appena assistito alla morte di tutta la mia famiglia e non avevo nemmeno provato a salvarla, a salvarti.

Crollai a terra, svenuto.


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