Capitolo 25


Grazie a Paul, ai consigli degli Spec Ops e all'agilità che Martha mi ha aiutato a sviluppare, ormai scappare dalla polizia per me è diventato un gioco da ragazzi. Questa volta, scappo perché "ho osato" intromettermi in uno scontro tra un civile, presumo un pugile, dall'abilità con cui riusciva a colpire tre poliziotti contemporaneamente, e un gruppetto di agenti, che lo colpiva perché sosteneva che l'uomo avesse iniziato per primo.

In realtà, dato che ero testimone come un sacco di altre persone, lui stava semplicemente cercando di scortare una famiglia lontano dalla protesta, perché vivono vicino all'università e dovevano soltanto andare a fare la spesa. I poliziotti avevano tentato di fermare la famiglia e di farli rientrare nella loro abitazione a forza, e ovviamente l'uomo ha ribattuto che avrebbe pensato lui a tenerli al sicuro. Gli agenti, allora, dato che a quanto pare odiano questi atti di solidarietà tra concittadini, hanno ben deciso di tirare fuori i manganelli e di colpire quel civile, che però ha dimostrato di sapersi difendere benissimo. Io mi sono intromessa lanciando una bottiglia di vetro per terra, per allontanare i poliziotti, ma per sbaglio ho fatto schiantare la bottiglia non al suolo, ma bensì sul piede di uno di quegli stronzi.

E così eccomi qui, a tentare di respirare correttamente mentre tutta l'aria che ho in corpo fa pompare il sangue alle mie gambe, e mentre il presunto pugile mi segue, anche lui intento a seminare quegli agenti incompetenti. Dico che per me scappare dalla polizia è un gioco da ragazzi, ma se non fosse stato per il corso pomeridiano di atletica che ero stata obbligata a frequentare al liceo, adesso non sarei neanche in grado di fare cento metri di corsa.

Salto una piccola staccionata con uno slancio che pensavo di aver perso da anni, e quando mi giro per controllare chi mi sta alle costole, vedo solamente quel pover'uomo, conciato peggio di me: fortunatamente io ho solamente un paio di lividi al braccio, dovuti alla presa che un agente ha fatto sul mio polso per tentare di tirarmi fuori dalla colluttazione e probabilmente qualche colpo, ma lui ha un occhio gonfio, un taglio sul sopracciglio e si tiene un fianco con le mani.

-Vieni quaggiù!- sibilo, indicandogli un piccolo bar accanto al giardino in cui siamo finiti. Corriamo fin laggiù, ed entro dentro mentre faccio aspettare quell'uomo, che penso abbia la mia stessa età, fuori. -Possiamo andare in bagno? È urgente- chiedo alla barista, che mi risponde secca:-Io non ho visto niente- le sorrido e con un cenno do il via libera all'uomo, che mi segue nel piccolo bagno del bar. -Ti fa male qualcosa?- gli chiedo mentre tiro fuori dell'acqua ossigenata per il sopracciglio, dal quale sgorga sangue. -Penso di avere una costola rotta- lo osservo bene in volto, vedendo il naso storto. -Il naso come sta?- lui mi guarda e sembra quasi che un enorme punto interrogativo si sia proiettato sulla sua fronte, poi sorride e risponde:-Questo l'ho rotto tempo fa- annuisco e abbasso la tavoletta del gabinetto, implicando la richiesta di farlo sedere lì. -Sei un pugile?- gli chiedo mentre lui è intento ad accomodarsi sulla tavoletta di ceramica. -No, ma ho fatto tante volte a botte. Mi chiamo Santiago- gli stringo la mano per poi prendere un batuffolo di cotone e imbeverlo di acqua ossigenata. -Piacere, Farley- gli dico prima di medicarlo. -Adesso ti medico e chiamo dei miei amici, poi ti portiamo in ospedale- lui fa schioccare la lingua alzando le spalle, come se delle costole rotte fossero delle passeggiate in campagna. -Ce n'è bisogno, credimi. Ti faranno delle lastre e ti metteranno un busto, ma almeno sarai sicuro di guarire nel modo corretto- alza di nuovo le spalle, per poi però dire, usando un tono simile a quello dei latinoamericani:-Come ti pare- per poi aggiungere, con tono più dolce:-Grazie per essere intervenuta e avermi fatto scappare da quei bastardi- lo imito alzando le spalle e facendolo ridere, per poi cambiare il batuffolo di cotone con uno pulito e non imbevuto di sangue, sporco e sudore. -Non c'è di che. Tu stai più attento e fai meno risse- ridacchia di nuovo, poi mi prende il batuffolo dalla mano e spiega:-Dovrai soccorrere molte altre persone, ridotte peggio di me, perciò ti aiuto a velocizzare i tempi- alzandosi a fatica dopo qualche istante, aggiunge:-Andiamo al pronto soccorso, è qua vicino- lo guardo socchiudendo gli occhi, dubbiosa sulla nostra vicinanza ad un pronto soccorso e sulla possibilità che Santiago svenga dal dolore prima di arrivarci.

Mi rimangio le parole di bocca appena usciamo, facciamo mezzo miglio a piedi e ci troviamo di fronte all'ospedale della Howard University. -Avevi ragione- affermo, non credendo alle mie parole. -Non ci credevi? Guarda che io studio qui- risponde Santiago, tirando fuori dalla tasca una tessera, che lo ritrae di qualche anno più giovane ma con lo stesso naso storto. Studente del secondo anno di medicina. -Complimenti- gli dico mentre entriamo nello stabile, pieno di persone. -Grazie- risponde, e io gli tiro un buffetto sul braccio, ribattendo:-Non devi sempre ringraziare. Comunque, non c'è di che- sorride come un ragazzino, poi incontra il volto di qualcuno che probabilmente conosce. -Tiago!- esclama l'infermiera, vedendo l'occhio gonfio, le mani che perdono ancora un po' di sangue dalle nocche e il sopracciglio medicato alla bell'e meglio. -Ehi. C'è un medico disponibile?-chiede lui sorridendo: l'infermiera annuisce preoccupata, accompagnando Santiago in una stanza libera. -Va bene se la faccio attendere qui?- mi chiede, girandosi per un attimo verso di me, che ero rimasta immobile e muta in mezzo al salone d'ingresso. -Oh, certamente!- rispondo, svegliandomi dal mio coma di pensieri e osservazioni, e decidendo di sedermi su una delle poche sedie libere. Intorno a me, centinaia di persone con ferite minori rispetto a quelle di Santiago (spero) stanno aspettando il loro turno per essere visitate. -Ma tu sei quella che regala bottiglie d'acqua e aiuta la gente?- mi chiede una ragazzina, seduta poco più in là del bancone degli infermieri, i quali si girano con fare interrogativo. -Sì, penso di essere io- rispondo pacata e sorridente, felice che qualcuno, e soprattutto una bambina così piccola, mi riconosca. -Mamma, lei è quella ragazza su Internet che aiuta la gente- spiega la ragazzina alla madre, che mi sorride e mi ringrazia. -Lo faccio più che volentieri- rispondo, sistemandomi sulla sedia e cercando di non imbarazzarmi per questi complimenti incredibilmente genuini. -Ma quindi lei sarebbe Farley?- sento chiedere alle mie spalle, ma non mi giro, dato che il tono che è stato usato sembra quello di un tentato mormorio. -Sì! Te la ricordi? Lei è quella che ci ha dato le mascherine e ci ha detto di indossarle sempre- mi mordo il labbro inferiore, consapevole di aver regalato una marea di mascherine a una marea di gente che non capisce neanche questa legge basilare. -Che rompicoglioni- sento dire da una terza voce, che però poi viene smentita da un'altra persona:-Rompicoglioni? Jane, non è così difficile mettersi una cazzo di mascherina. Se vi da noia, state a casa- la voce che aveva fatto il mio nome continua, finendo il discorso:-E poi lei è stata solamente gentile. Pensa se dei poliziotti ci avessero beccato...- sorrido mentre guardo lo schermo spento del mio telefono, contenta del piccolo ma sostanziale contributo che ho dato alla comunità di Washington, che di sicuro non migliorerà, ma non peggiorerà neanche troppo.

-Signorina...- sento chiamare dall'infermiera che aveva accolto Santiago, che presumo sia una sua amica. -Sì?- chiedo, alzandomi di scatto e provocando una leggera fitta alla testa: tutta quella corsa deve avermi stancata parecchio, se mi pulsano già le tempie. -Può venire un attimo a farsi una visita di controllo? Ha detto Tiago che anche lei è rimasta coinvolta- mi tasto le braccia, che nonostante i pochi lividi non fanno male, ma seguo l'infermiera in una stanza vuota. Mentre lei si disinfetta le mani e indossa dei guanti in lattice, mando un messaggio a Martha e Paul, avvertendoli e dicendo dove sono finita, poi poggio lo zaino per terra e mi siedo sul lettino. -Si può togliere la maglietta e sdraiarsi? Grazie- mi dice la donna, mettendosi un paio di occhiali tondi. Annuisco, faccio come mi dice e tento di rilassarmi, anche se la luce del soffitto aumenta il mal di testa e la superficie del lettino, essendo ricoperta da della plastica, è fredda e liscia. L'infermiera mi tasta le braccia, chiedendomi se ho dolori particolari in qualche punto, poi mi controlla la respirazione, il busto, la testa e le gambe: quando tasta sulla ormai vecchia ferita alla coscia, nonostante sia praticamente guarita, mi scappa un piccolo sibilo di dolore. -Cosa ha qui?- mi chiede la donna, con fare gentile e dolce. -Mi avevano sparato, circa dieci giorni fa. Era solo un proiettile di gomma, niente di che- le spiego, rassicurandola, ma lei mi intima di abbassare i pantaloni e di mostrarle il livido, che adesso sembra uno dei tanti che ho sulle braccia e sulla schiena, se non per il colore leggermente più scuro. -Che cattiverie. Tutte su una ragazza che cerca semplicemente di aiutare...- mormora l'infermiera, più triste che arrabbiata. -Devono obbedire agli ordini- dico, giustificando i poliziotti, dato che la maggior parte dei casi è così. 

Se il tuo colonnello, in servizio con te, ti ordina di picchiare un civile, tu lo fai. Hai paura di un taglio di stipendio, di un cartellino giallo, di un licenziamento, e perciò obbedisci, anche se è ingiusto. Non è vigliaccheria, è semplicemente subordinazione, perciò non attribuisco la colpa al singolo poliziotto, bensì cerco di capire la causa che c'è dietro, e punire chi di dovere.

-Sei troppo buona- commenta la signora, per poi darmi una confezione di medicine. -Queste sono per aiutarti a guarire prima, non sono invasive né chimiche. Se ti sente la testa, è normale, ma se continua a sentirti anche tra due ore, torna qui che facciamo un altro controllo- le sorrido e mentre mi rivesto le dico dolcemente:-Grazie- per poi ricevere un suo breve abbraccio. -Potresti fare l'infermiera. Hai la giusta bontà, grinta e tante palle- commenta la donna mentre mi stringe a sé. Un po' sorpresa ma contenta del gesto, ricambio l'abbraccio ma non le rispondo nel modo scherzoso a cui avevo pensato, dato che non sarebbe una cattivissima idea. 

Vengo accompagnata fuori dalla stanza in cui sono stata visitata contemporaneamente a Santiago, che esce con in mano dei fogli, le mani fasciate e il sopracciglio cucito. -Hanno visitato anche te?- mi chiede divertito, vedendo le medicine che ho in mano. -Sì, ma non penso che mi sia andata tanto male quanto a te- si mette a ridere per poi tenersi il fianco. -Non sono rotte, però ho dei bei lividi. Me la sono cavata con un gomitolo di garza e degli antidolorifici- mi descrive il suo referto medico, e io commento:-Grosso come sei, saranno degli antidolorifici per cavalli- lui, divertito quanto me, ribatte:-Anche se sono ferito, colpisco sempre meglio di te. Attenta- ridacchio e, quando mi giro verso la porta d'ingresso, distogliendo l'attenzione da questa mia nuova conoscenza, vedo Martha e Paul. 

Ma dietro loro, come un'ombra che vigila su di me, c'è lui: Riot. 




Ragazzi e ragazze, i prossimi capitoli penso siano due dei miei preferiti. Perciò preparatevi!😉

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