4. Western AU

«Jojo, è seriamente meglio se torni dietro ai libri di calcoli.» commenta Dio divertito, appollaiato sulla staccionata che si gode lo spettacolo offertogli dal fratellastro.
«Neanche per sogno.» ribatte testardo Jonathan, rialzandosi da terra e pulendosi i vestiti dalla polvere. «Ho solo bisogno di cinque minuti di pausa.» aggiunge - e concede -, raccogliendo il cappello da terra e affiancando il fratello, poggiando alla recinzione i gomiti scoperti dalla camicia, le cui maniche ripiegate diverse volte da lasciare l'avambraccio scoperto.
«Non capisco come fai ad essere così bravo.» commenta dopo un po', lo sguardo sul cavallo, che finalmente ottenuta la tranquillità che voleva senza che nessuno cercasse di stargli in sella, sporge la testa sotto l'ultimo asse della staccionata, brucando l'erba che cresce lì vicino.
Dio sposta la sua attenzione dal baio al fratellastro, corrugando le sopracciglia in quella maniera che fa sembrare gli occhi rossi ancora più assassini ma che piace a tanto a Jonathan, indeciso tra lo sfotterlo o comportarsi da brava persona per una volta ed aiutarlo.
Il risultato è un verso di stizza, un po' infastidito, ma seguito da una spiegazione pseudo-comprensibile.
«Consideriamo che tu hai una massa notevole - non guardarmi così Jojo, sei un gigante di muscoli!» quasi ride Dio, vedendo la faccia del fratellastro nel sentir parlare della sua stazza, che in alcuni contesti lo faceva altamente a disagio, al contrario di Dio - l'altezza è praticamente la stessa, ma dove Jonathan è muscoli Dio è asciutto, dandogli una sensualità quasi femminile.
«Considerando che non sei propriamente leggero, il cavallo è infastidito dal tuo peso e tenta di liberarsi di te, impennando e alzando il posteriore.»
Jonathan si volta verso di lui, totalmente rapito dalle sue parole. È raro che Dio dia una spiegazione - colpa del suo orgoglio che lo obbliga a non abbassarsi a spiegare a qualcun altro - e soprattutto non si ripete mai una seconda volta.
«Quando il cavallo prova a liberarsi di te, tu devi fin da subito fargli capire che sei tu ad avere il comando. Normalmente basta tirare con decisione le redini un paio di volte, e il cavallo viene intontito per via del brusco contatto tra la sua bocca e il morso.»
«Non è un metodo un po' violento?» obbietta Jonathan, sempre buonista, perfino verso coloro che è chiaro che non cambierebbero idea neanche con la morte.
«Quando sei punito, non vieni preso a ciabattate?» ribatte Dio, roteando lo sguardo annoiato ma ghigna quando vede le orecchie del fratellastro arrossire sulla punta e Jonathan distogliere lo sguardo - buona parte delle ciabattate sono state per colpa sua e non se ne pente minimamente.
«Il principio è lo stesso, Jojo.»
Il fatto che usi il suo nomignolo mentre spiega rende ancora più confuso Jonathan - si può sapere cosa passa dietro quegli occhi rossi magnetici? - ma decide di non interrompere quel momento in cui Dio non lo sta sfottendo, né architettando qualche guaio in cui incastrarlo, bensì condivide la sua passione per la doma - che avrebbe potuto portarsi a fare due domande, ma Jonathan è troppo innocente per porsele -, evento raro e da quel che sa non ancora accaduto, se non in quell'esatto momento.
«E dopo?» lo incita ad andare avanti.
«Dopo, una volta che hai imposto la tua autorità su di lui, devi stancarlo. Prima lo lasci senza vie di fuga, con piccoli circoli o bruschi cambi di direzione. Poi, quando sei sicuro di averlo confuso per bene, lo stanchi, con galoppo continuo e pancia a terra.» conclude Dio, a quasi un soffio dal suo viso, poiché mentre parlava si era poco alla volta avvicinato a lui.
I secondi che seguono sono i più strani che abbiano passato nei loro sette e passa anni di conflitti tra fratelli.
Dio non ha mai visto così da vicino gli occhi azzurri di Jonathan, e nota solo in quel momento come la parte superiore dell'iride sia più scura rispetto a quella inferiore.
Jonathan riesce finalmente ad afferrare quelle molteplici sfumature sia diamante rosso che rubino e granato, con la luce serale che sfuma ad un color oro nei bordi.
Alla fine entrambi, fanno una scoperta: Dio non detesta così tanto Jonathan come dà a vedere, ma si diverte semplicemente a sue spese. Lo tollera, e questo è già un buon passo e a porta un sorriso sulle labbra di Jonathan.
«È bello quando spieghi ciò che ti piace.» Jonathan vorrebbe dire che Dio è bello, ma pensa che potrebbe essere troppo in un colpo solo, e seppur una parte di lui - quella leggermente più vendicativa - vorrebbe destabilizzare con un colpo il biondo, si limita al suo sorriso più sincero dopo aver pronunciato quelle parole.
Dio si raddrizza di scatto, con un verso stizzito, quando in realtà è imbarazzato - lui, Dio, imbarazzato? - e salta giù dalla staccionata.
«È la prima ed ultima volta che ti spiego qualcosa, Jojo. Dunque ficcatelo bene in testa.»
Jonathan ride, cristallino, e Dio si blocca e volta verso di lui, confuso. Cosa c'è di dannatamente divertente in quello che ha detto?
Per una volta, Speedwagon arriva al momento giusto.
«Jojo, Dio! La cena sta per essere messa in tavola!» urla, dalla soglia dell'edificio principale del ranch, tra le scuderie e il fienile.
«Arriviamo!» urla in risposta Jonathan, la mano destra a coppa sul lato della bocca.
Fa per voltarsi per dire a Dio di andare a prendere il baio, ma lo vede sfrecciare al suo fianco, in un galoppo quasi da inseguimento pancia a terra.
«L'ultimo che arriva domani si occupa delle fatture!» gli urla mentre salta la recinzione in un gesto fluido.
Quello è il Dio che conosce. Sa già di aver perso in partenza, ma gli corre comunque dietro, e lo vede guardarlo da sopra la spalla con quel suo sorriso che assomiglia tremendamente un ghigno di vittoria. Ma a Jonathan va bene così, con quel rapporto litigioso ma in fondo affettuoso.

*

«Te l'ho già detto, ma secondo me non è una buona idea, Jojo.» protesta Smokey, affrettandosi per mantenere il suo passo.
«E io ti ho già risposto che non devi preoccuparti, Smokey.» ribatte paziente Joseph, anche se è troppo concentrato a pregustarsi lo spettacolo che avverrà a breve.
Il centro del suo divertimento - Caesar, ancora ignaro di tutto - è vicino ai campi da monta, intento a strigliare la sua cavalla, Stella, come abitualmente fa ogni mattina prima di portare la mandria al pascolo.
«Ehi, blondie!» urla Joseph, sventolando il braccio per attirare la sua attenzione.
Caesar borbotta diverse imprecazioni e insulti in romanesco nel voltarsi. Non prova neanche a nascondere tutto il fastidio che prova, nel sentire quella voce squillante.
«Per quanto riesci a stare il groppa al vecchio Barney senza romperti il collo?» chiede Joseph, il ghigno di sfida dipinto sul volto, mentre si piazza davanti all'italiano a piedi larghi, i pollici infilati nella cintura ai lati, il torace leggermente spostato verso sinistra, in una delle sue strambe pose che ogni tanto tira fuori.
«Tch.» è tutto ciò che l'inglese naturalizzato americano riceve come risposta. Ma comunque Caesar posa la striglia che aveva in mano ed entra nel recinto del vecchio Barney - un grande toro nero che di vecchio ha un bel niente - non senza aver prima preso una corda appoggiata lì fuori, per lo stesso scopo a cui servirà lui adesso.
«Lo giuro Jojo, questa è l'ultima volta che mi lascio trascinare da te.» protesta ancora Smokey, mentre si appoggiano alla staccionata.
Joseph non ci presta molta attenzione, abituato com'è alle sue lamentele - ed averlo sempre intorno nonostante quelle -, ma soprattutto è impegnato a non perdersi un secondo della figura di merda che sicuramente farà Caesar.
«Attento a non rovinarti quel bel faccino, blondie.» lo stuzzica, il ghigno ancora stampato sulle sue labbra.
«Il mio nome è Caesar, coglione.» lo rimbotta l'italiano, infilandosi i guanti, ancora più irritato dal fatto che nonostante siano sei mei che lavora in quel ranch Joseph non si ricordi ancora il suo nome ma continui a chiamarlo blondie.
È con un gesto rapido della mano che avvolge la corda intorno ad essa per avere un appiglio maggiore e si tira velocemente sulla groppa del toro, spostando la sfida dai due ragazzi ad uomo e toro.
Barney assottiglia lo sguardo appena sente un peso estraneo, e sgroppa ripetutamente. Ma Caesar stringe i denti e rimane in groppa tenacemente - nonostante senti la presa farsi più debole nella sua mano.
«Holy shit» è il commento di Joseph, sportosi sopra la recinzione, nel vedere l'italiano rimanere su più di quanto abbia visto fare con il vecchio Barney - lui stesso è durato molto meno.
«Lo sta seriamente facendo?» chiede retorico, alquanto incredulo. Perché ha tenuto il suo talento nascosto tutto sto' tempo?
«Devi ammettere che è abbastanza impression-» Joseph viene portato via da un Caesar volante «-ante.» termina Smokey, spostandosi di lato per evitare di essere colpito pure lui.
Incassa la testa tra le spalle, sentendo l'impatto nell'acqua dell'abbeveratoio.
«Non voglio dirti "te l'avevo detto", ma te l'avevo detto.» è il suo semplice commento a quello appena successo.
Joseph è bloccato a mollo nell'acqua, il corpo di Caesar che blocca i suoi movimenti - non che abbia idea di muoversi, non sa come muoversi. Un braccio di Caesar lo tiene giù, contro il bordo della vasca, il suo mento incastrato nella spalla del biondo; l'altro suo braccio è bloccato dal corpo dell'italiano, e sta iniziando a sentirlo formicolare; le gambe di entrambi sono incastrate ed annodate nello spazio che rimane, obbligando i corpi pericolosamente a stare vicini.
«Ancora vivo, blondie?» chiede Joseph, seriamente preoccupato, ma troppo orgoglioso per lasciarlo vedere.
«È Caesar, coglione!» borbotta ed esclama l'Italiano, prima di tirarsi su e fissarlo con rabbia.
Dovrebbe essere un cipiglio intimidatorio, ma tutto quello che l'inglese naturalizzato americano ci vede è un broncio, oltretutto alquanto carino. Il suo ghigno abituale torna a dominare il suo volto.
«Come vuoi, Caeeeeeeeeeeasaaaaaaar.» dice, allungando in maniera fastidiosa le vocali.
In risposta riceve un pugno nel costato.

*

Il cielo è arancione con forti sfumature viola quando Jotaro esce per fumarsi una sigaretta - cosa che farà anche più tardi dopo aver mangiato, perché gli piace avere il gusto di nicotina in bocca, ma anche perché sono momenti di tranquillità in cui può semplicemente non pensare. Se la porta alle labbra, copre con la mano la punta per favorirne l'accensione mentre l'accendino proietta strane ombre sul suo volto, ed inspira la prima boccata, lasciando uscire il fumo dalle labbra in volute diseguali, godendosi la sensazione.
È dopo diverse boccate che vede una sagoma all'orizzonte, nei campi d'addestramento, nonostante l'ora tarda. Decide di andare a dare un'occhiata, dunque incastra la sigaretta tra le labbra e infila le mani in tasca, prima di incamminarsi.
La prima cosa che sente è il suono della raganella, insieme al rumore leggero degli zoccoli sulla sabbia, più simile ad un fruscio che ad un impatto.
La seconda cosa che vede è la giumenta al lavoro, il collo disteso, il muso che quasi tocca il terreno ma si alza appena la raganella si fa più forte, per riabbassarsi dopo - ha fatto progressi a quanto pare.
Incrocio tra un paint horse ed un andaluso, il suo manto è tra i più particolari che abbia mai visto, perché riprende il motivo dei grigi andalusi, solo con sfumature marroni e bianche.
Jotaro poggia i gomiti sulla staccionata, la sigaretta ancora stretta tra le labbra, e solo in quel momento vede distintamente quella che prima era solo una sagoma di uomo - ragazzo, Kakyoin è un ragazzo come lui.
Indossa il suo abituale poncho a righe, e Jotaro non può che essere d'accordo con lui. Nonostante siano quasi ad inizio estate, le sere sono ancora fredde e la zona dove vivono loro non è una delle più calde del Texas. Lui stesso indossa ancora il duster e capita che alla prima cavalcata mattutina lo chiuda per ripararsi dall'aria fredda. Il cappello dalla tesa larga e piatta tiene in ombra il suo volto e il rosso non dà comunque segni di averlo notato, per cui Jotaro prende una boccata di fumo prima che la sigaretta si consumi totalmente.
In una mano Kakyoin tiene la corda della lunghina, legata alla capezza a sua volta di corda, che obbliga la cavalla nell'ampio circolo in cui la sta facendo lavorare, mentre l'altra è staccata dal corpo, da aiuto quando la sola voce non ottiene l'effetto voluto e in mancanza di una frusta.
«Oh oh.» è il suono che si sostituisce alla raganella, mentre Kakyoin smette di seguire il movimento della giumenta, ripetuto ad intervalli di pochi secondi. Non funziona alla perfezione, ma la cavalla si mette al passo, sbuffando dalle narici, ascoltando maggiormente la voce rispetto alle altre volte. Il rosso rimane comunque immobile, finche lei non si ferma. Solo in quel momento accorcia la lunghina e le si avvicina, dandole un paio di pacche sul collo e accarezzandole il muso.
Jotaro, nel vederlo uscire, si sposta vicino al cancello, che Kakyoin apre con facilità e richiude alle sue spalle con meno facilità, poiché la giumenta gli ha dato uno strattone per brucare l'erba.
«Oh, andiamo.» è il commento velatamente divertito del rosso, mentre la obbliga a tirare su il muso e a camminare verso uno dei paddock in cui tengono i cavalli semi-domati o da domare.
Jotaro lo affianca senza dire una parola, la sigaretta ormai finita che lascia traccia solo sulle sue papille gustative. È una loro abitudine quella, di stare uno di fianco all'altro in silenzio, in cui non si sono mai sentiti a disagio. Forse è perché la prima volta che si sono incontrati - diversi mesi fa, ormai - il loro è stato un viaggio costellato dal silenzio, su un solo cavallo, con Kakyoin che rischiava di cadere nell'incoscienza fin troppo spesso.
Jotaro apre il cancello del paddock e Kakyoin porta dentro la giumenta, slega la capezza, e lei corre via dagli altri, come se le diverse ore di lavoro durante il giorno non l'avessero stancata abbastanza.
«Il consiglio dell'altro giorno ha funzionato.» dice Kakyoin, mentre Jotaro chiude il cancello. Quest'ultimo si limita a voltarsi verso il coetaneo, in un invito a continuare a parlare. Il rosso è sorridente e non si fa problemi a guardarlo dritto in faccia - è raro che abbiano un contatto così diretto, come il semplice parlare, se non si tratta di qualcosa strettamente legato al lavoro da fare.
«Gestirla nei circoli è più semplice e non cambia più andatura quando le pare.» continua Kakyoin, mentre si incamminano verso la selleria. «Non ci vorrà molto prima che l'abitui alla sella o comunque a portare un peso sul dorso.»
«Per quello ti conviene prima abituarla alla sella che alla monta a pelo, dato che principalmente la monterai con i finimenti.»
Al sopracciglio alzato di Kakyoin, risponde con un semplice: «La maniera in cui osservi Avdol, anche quando lavoriamo.»
Il rosso sorride, colto con le mani nel sacco.
«Sono curioso di come i nativi domino i cavalli e li montino senza tutto quello a cui siamo abituati noi.»
Jotaro annuisce, e Kakyoin si ferma sulla soglia della selleria.
«Mi piace parlare con te.» dice, lo sguardo fisso sul pavimento davanti a lui.
«Anche a me.» risponde Jotaro dopo diversi secondi, reprimendo l'impulso di spostare il peso da un piede all'altro.
«Dovremmo farlo ancora.»
«Sì.» è ciò che commenta Jotaro, ormai sforato il numero abituale delle sue parole, ma sembra bastare, perché incontra quello sguardo ametista accompagnato da un sorriso. E seriamente, gli basta solo quello per mostrare uno dei suoi rari sorrisi.

*

Attende il momento giusto mentre rotea il lazo, poi con un rapido movimento di polso lo lancia sotto le zampe del vitello, tira la corda e allo stesso tempo la avvolge intorno al pomello della sella, mentre il cavallo oppone resistenza al vitello a terra, che sta cercando di liberarsi, stando fermo sul posto e successivamente tirandolo.
Rohan è veloce ad apporre il marchio rovente, il fumo che sale insieme ad un leggero odore di bruciato, come è veloce dopo a slegare il vitello e spingerlo nello stretto passaggio che conduce all'altro recinto.
Josuke recupera il suo lazo e volta il cavallo alla ricerca di un altro puledro, ma quello che gli salta all'occhio gli fa sbattere diverse volte le palpebre. Rohan segue il suo sguardo e sospira scuotendo il capo, come a dire «Perché devo lavorare con questi imbecilli.»
Ciò che gli si para davanti è Okuyasu testa a testa con un vitello, e sembra pure avere la meglio. Josuke ride dopo aver realizzato cosa stesse succedendo e volteggia giù dalla sella con un sorriso stampato sul volto.
«Oku, non è così che funziona.» dice, la risata che minaccia di tornare, mentre poggia una mano sulla spalla dell'amico.
Okuyasu aggrotta le sopracciglia, con aria confusa.
«Devi usare il lazo, non la testa.»
«Ma tu prima hai detto che è un lavoro di testa!» si difende Okuyasu, scatenando un'altra risata in Josuke.
«Ho detto che è di testa perché devi fare attenzione a quando lanciare il lazo, non che devi usare la testa!»
La mascella di Okuyasu si apre in un «Ah» muto, di comprensione postuma.
Dannazione, la sua faccia sorpresa è tremendamente carina, che gli fa venire voglia di stropicciargli le guance.
La domanda che si fa spesso è come fa Okuyasu con la sua sola presenza a renderlo costantemente sorridente. Con la sua semplicità e un pizzico di stupidità, le giornate di Josuke hanno sempre del divertimento.
«Smettetela di fare i piccioncini e venite a darmi una mano, scansafatiche! I vitelli non si marchiano da soli!» li richiama Rohan, alle prese con un vitello che ha cercato di acciuffare da terra con il lazo. Il risultato è venir trascinato nel fango, con il rischio di cadere ogni due passi - e Rohan detesta ritrovarsi coperto dalla testa ai piedi di fango.
«Rohan, non mettertici pure tu!» esclama Josuke, correndo verso il cavallo che pazientemente è rimasto fermo ad aspettarlo, con una punta di irritazione nella voce. Sale velocemente in sella, mentre Okuyasu - per una volta - comprende immediatamente cosa deve fare e monta a sua volta in sella.
Non c'è bisogno di altre parole, perché mentre Josuke va a destra, Okuyasu va a sinistra, chiudendo così il vitello in un angolo, i lazzi in mano pronti ad essere lanciati. Quello di Josuke finisce intorno al collo, quello di Okuyasu intorno alle zampe posteriori, facendo così cadere l'animale a terra e bloccando le sue vie di fuga.
Rohan lascia finalmente il suo lazo e guarda i pantaloni - che con una logica tutta sua sono bianchi, nonostante sapesse in cosa sarebbe consistito il lavoro di quel giorno e che il tempo non era proprio sole caldo e cielo azzurro -, inzaccherati. Con una delle sue abituali imprecazioni - «Perché sono circondato solo da stupidi» o qualcosa di simile - se ne ritorna alla postazione di marcatura, seguito dai due più giovani a cavallo, che trascinano il vitello.
Una volta marchiato e mandato nell'altro recinto quest'ultimo, Josuke allunga un braccio si tira contro Okuyasu spettinandogli i capelli, dato che si ostina a non portare un cappello nonostante la leggera pioggia che sta scendendo da tutta la mattinata.
«Vedi che sei in grado di capire al primo colpo, eh?» commenta con un ghigno divertito - dannazione a Okuyasu e ai suoi momenti di intelligenza!
«Perché sei tu che lo rendi capibile al primo colpo.» è la risposta che riceve, detta con il suo stesso identico ghigno.
Non è proprio l'assenza di battito la sua reazione, ma ci va molto vicino.
«Stupido.» mormora, nonostante le gote forse arrossite dato che le sente calde e lo sguardo perso verso un punto indefinito, seppellisce il naso tra i suoi capelli.

*

«La cena è arrivata!» annuncia Mista, mostrando i conigli che tiene legati sopra la spalla vittorioso.
«Era ora!» commenta Trish, intenta a finire di dissellare la sua cavalla, dopo averla impastoiata insieme agli altri.
In risposta riceve una linguaccia da Mista, mentre quest'ultimo dà i conigli freschi di cacciagione a Bucciarati, che li spartisce con Abbacchio per spellarli.
Fugo è poco più in là, intento a schiacciare un pisolino poiché i preparativi per la cena sono abitualmente lunghi e lui abitualmente è stanco.
Narancia, nel sentire le voci, scende da un albero di corsa.
«Si mangia?» chiede allegro.
«Non ancora, Narancia.» risponde Abbacchio, con la sua voce grave e neutra. La sua attenzione apparentemente è solo sul coniglio che sta pulendo, ma probabilmente sta pensando ad altro, dato lo sguardo spento, nonostante le fiamme davanti a lui.
Mista si siede di fianco a Giorno, che si sta occupando di tenere acceso il fuoco, non dopo aver recuperato la sua sella con le bisacce. Tira fuori il revolver - un Colt ad avancarica, un gioiellino su cui è riuscito finalmente a mettere le mani - dalla fondina alla cintura e la smonta con cura davanti a lui. Sente lo sguardo di Giorno seguire i suoi movimenti, curioso, nonostante lo osservi fare quel procedimento praticamente tutte le sere.
Forse è per quello che si azzarda a chiedere qualcosa che gli frullava in testa da un po'.
«Vuoi provare?» dice, indicando la pistola smontata davanti a lui.
Dopo un piccolo attimo di esitazione Giorno annuisce e Mista gli porge la seconda pistola - sempre un revolver Colt ad avancarica, ma di un modello più vecchio -, quella che normalmente tiene nella fondina sulla sella. Giorno se la rigira un attimo tra le mani, poi alza lo sguardo su di lui, in una muta richiesta di aiuto.
la prima reazione di Mista è alzare un sopracciglio - è sicuro che sappia come si smonta una pistola, date tutte le volte che l'ha visto farlo -, ma poi con una scrollata di spalle accetta, e si avvicina a Giorno, posando le mani sulle sue, un braccio che passa dietro alla schiena.
«Devi fare così, così, poi spostarti qua, muovere questo....» mentre spiega, Mista guida le dita di Giorno, rendendosi conto di quanto siano morbide e sottili - gli ricordano quelle di alcune donne con cui ha passato la notte, nel periodo in cui non era errante come lo è adesso - e le parole gli escono meccaniche, il cervello troppo assorbito da quel nuovo contatto «E voilà, è smontata.» conclude, allontanando le mani, ma non spostandosi lontano da lui, alla distanza a cui è sempre stato.
Gli occhi acquamarina - più verdi del solito per via del fuoco vicino - si posano nuovamente in quelli scuri di Mista. Cos'è che vuole con quegli occhi da cerbiatto?, non riesce a capirlo questa volta.
«E poi cosa bisogna fare?» chiede Giorno, capendo che quello che vuole non è stato compreso - sarà per una prossima volta.
Mista si illumina e dopo aver frugato nelle bisacce, ne tira fuori un barattolino accuratamente avvolto in un pezzo di stoffa morbido, per poi riprendere a spiegare.
Quello di cui i due ragazzi non si accorgono è lo sguardo paterno con qui li guarda Bruno dall'altra parte del fuoco, che si gira a parlare con Abbacchio, ma questo lo ferma in principio, con un «Lo so già.» senza neanche alzare lo sguardo dal coniglio che sta mettendo a cuocere, creando inconsapevolmente un altro sorriso sulle labbra di Bucciarati.

*

Uno. Due, tre. Quattro e cinque. Sei.
Un fischio di stupore e apprezzamento alle sue spalle fa voltare Jolyne, con le pistole fumanti ancora alzate, pronta a sparare.
«Ah, sei tu Ermes.» commenta, quasi delusa, riponendo le pistole nelle fondine.
«Le hai seriamente prese tutte da quella distanza?» commenta la mora, le treccine che ondeggiano mentre indica le bottiglie, poste sulla staccionata di fronte.
Jolyne getta uno sguardo dove indicato, e annuisce. Un altro fischio di approvazione proviene dalle labbra di Ermes.
«Sei un portento, ragazza.» commenta, per poi alzarsi dalla staccionata a cui era poggiata.
«Comunque il vecchio richiede la tua presenza e mi ha mandato a cercarti.»
«Di cosa si tratta questa volta?» sbuffa Jolyne, raccogliendo il cappello e indossandolo.
«Un prete, non ha detto però il perché.»
Jolyne aggrotta le sopracciglia. Normalmente non si immischiano nelle cose della religione, ma deve trattarsi di un caso particolare quello, se suo padre vuole che si occupi di un prete.
«E va bene.» accetta alla fine, anche se sa che non avrebbe avuto comunque scelta - la prima volta che Jotaro l'ha mandata da sola a cacciare una taglia l'ha praticamente mollata in strada con una frase simile ad un «Aggiustati.».
«Posso venire anch'io?» chiede Ermes, affiancandola mentre si dirigono verso gli edifici che si vedono in lontananza.
«Vedremo cosa dice il vecchio.» risponde Jolyne, alzando le spalle. Poi incrocia lo sguardo dell'amica ed entrambe scoppiano a ridere. Sanno già che saranno fianco a fianco, come al solito.







N.d.A.
Un minimo accenno alle ship era d'obbligo. Comunque, ecco alcune spiegazioni:
- Dio non è propriamente cattivo, semplicemente si diverte a sfottere Jonathan con tutto il cuore. Ovviamente i sogni di prendere possesso di tutti i suoi averi c'è ancora, solo che non ha tutto quell'odio verso Jonathan che trapela dalla serie.
- Il fisico di Dio è quello che ha per buona parte di Phantom Blood, più che altro perché, oltre ad essere quello che preferisco, mi piace il contrasto che si crea tra i due fisici: Jonathan alto e muscoloso, Dio sempre alto, ma più asciutto e quasi formoso. E niente, adoro questo contrasto tra i due.
- Non sono un'esperto nel domare i cavalli, dunque i metodi usati sono molto approssimativi (leggi: se vuoi domare un cavallo, rivolgiti ad un'esperto).
- Galoppo pancia a terra: galoppo molto veloce e ampio, tipo quello durante le corse di velocità.
Circolo: si tratta di una figura che penso derivi dal dressage (io la conosco dalla monta inglese), si tratta semplicemente di formare una circonferenza come traiettoria che aiuta sul controllo del cavallo oltre a servire per diversi esercizi, e più diventa stretto più è complicato per il cavallo perché praticamente si rincorre da solo, un po' come i cani con le code.
- Come ci insegna Golden Wind, è raro che chi è obbligato a vivere come delinquente si allontani troppo dal luogo dove ha avuto inizio la sua "carriera". Noi sappiamo che Caesar ha incontrato suo padre a Roma, per cui gli affibbiato come dialetto il romanesco, anche se non mi convince molto - non ce lo sento Caesar parlare romanesco, ma vabbè magari è una mia impressione.
- La parte di Joseph e Caesar è largamente ispirata ad un post di blatterbury_s_artwork
- La brusca è uno dei vari strumenti usati per la pulizia del cavallo, ed è una spazzola con setole che variano dal più duro al più morbido e lunghezza a seconda di dove devono essere usate - per esempio, quella usata sul muso a setole più morbide e generalmente non troppo lunghe ma neanche corte.
- la rana/raganella: non saprei darne una descrizione precisa, ma è un verso che viene fatto schiocchiando la guancia mentre la lingua è premuta contro i denti (circa, poi dipende da persona a persona), e serve per incitare il cavallo ad aumentare il ritmo o a farlo partire. Spesso se si lavora da terra (ossia il cavallo è attaccato ad una lunghina e si muove in circolo intorno all'addestratore) è accompagnato dall'uso di una frusta lunga.
- Duster: giacca tipica dei cowboy, lunga e divisa in due, cosicché fosse più confortabile per cavalcare.
- Okuyasu testa a testa con un vitello, come Rohan trascinato in giro da un vitello è una scena troppo divertente per me. Volevo che Okuyasu facesse qualcosa di stupido, ma Rohan è arrivato postumo durante la scrittura, e devo dire che anche lui se si mette è in grado di fare grandi stupidate, solo che sono stupidate molto più calcolate e raffinate, ma che fanno ridere lo stesso.
- In realtà un revolver colt è molto più complesso da smontare, ma per semplificarmi le cose ho deciso che si smonta così: devi fare così, così, poi spostarti qua, muovere questo... e voilà, è smontata (pigrizia portami via, ma di mettermi pure a studiare com'è fatta una pistola sinceramente non ho voglia)
- E no, uno spazietto alla bruabba dovevo lasciarlo. Pura giomis non esisterà mai.
- La parte corrispondente a Stone Ocean è decisamente più corta perché le dinamiche tra i personaggi non sono proprio chiarissime con solo 12 episodi, e non sono riuscito a farmi un idea ancora.

Tomoe

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