17. Modern AU

Al rumore della porta dell'appartamento che si chiude, Jonathan si illumina«Bentornato, Dio!» esclama, per far sapere al compagno che a sua volta è tornato, dopo diversi mesi di assenza, impegnato in una delle sue scoperte archeologiche in Sud America.
Quello che lo confonde, è la reazione di Dio. Si aspetta che lo ignori per almeno le prossime due settimane, o che lo sfinisca con un sesso talmente selvaggio che anche uno come lui dopo crolla addormentato - sono i due modi che ha sperimentato fino ad adesso come manifestazione d'affetto da parte del biondo.
Invece Dio raggiunge la porta della camera, lo fissa socchiudendo gli occhi rossi, e si intrufola tra lui e il computer poggiato sul letto, rannicchiandosi contro il suo petto.
Jonathan rimane per diversi secondi con la fronte aggrottata e le braccia allargate. Dio che cerca contatto è un qualcosa che vede raramente - e normalmente è una scusa per il sesso. Alla fine, poggia il mento sul capo del biondo e si tira il computer più vicino, continuando così a compilare la noiosa burocrazia di ogni fine viaggio.
«Com'è andata?» chiede, sondando l'umore di Dio.
«Mhh.» è la risposta che riceve e lo fa tornare a sorridere.
«Hai finito gli esami?» chiede, una mano che va ad accarezzare distrattamente la schiena di Dio e risale fino a dietro l'orecchio, rimanendo tra i capelli color grano, mentre l'altra scorre dei documenti sul computer.
«Mh.» fa le fusa Dio, sia in risposta al tocco che alla domanda.
Jonathan ridacchia. Dio spesso gli ricorda un gatto, con la sua subdola ricerca di attenzioni ma disdegnandole quando sono offerte, volendo la superiorità in tutto ma dipendendo completamente da lui per le cose di base - tipo il cibo, Dio è pessimo a cucinare -.
«Stavo pensando.... Dovremmo prendere un gatto.» commenta, simulando un tono distratto, ma sente immediatamente gli occhi rossi su di lui, penetranti.
«Neanche per sogno.» risponde Dio.
«Allora un cane, così non ti senti solo quando non ci sono.»
Eccole, due frecciatine in un colpo solo.
Convivere con Dio non ha portato vantaggi solo al biondo, ma anche a lui, come per esempio imparare a rispondere per le rime al compagno, con il solo rischio che quella lotta si trasferisca a letto e se ne ritrovi comunque perdente.
Ha la consapevolezza di aver colpito il bersaglio quando Dio si discosta da lui e lo guarda dritto negli occhi, allungando una mano all'indietro e chiudendo il portatile, per poco non pizzicandogli le sue.
«Stammi bene a sentire, Jojo. Non voglio vedere uno di quei botoli ringhiosi nel raggio di chilometri, chiaro?» mentre parla gli punta una delle lunghe unghie laccate di nero nel petto e il divertimento di Jonathan aumenta, come il sorriso sul volto.
«Chiaro, chiaro... Ma ammettilo che ti sono mancato.» lo provoca pizzicandogli il fianco ovviamente scoperto - spesso si chiede se come secondo lavoro Dio faccia lo stripper, perché ha uno stile molto simile nel vestire.
Dio schiocchia la lingua e un sorriso diabolico si disegna sul suo volto.
«E se anche lo ammettessi?» avvicina il volto, e Jonathan può sentire le parole calde sulla sua pelle - sa già dove vuole andare a parare e, oh, questo è il Dio che conosce.
«Magari potrei non abbandonarti per un pezzo.... oppure potresti venire con me.» lo spiazza Jonathan, che si gode la sua fronte aggrottata ridacchiando.
«Abbiamo avuto qualche problema burocratico con le scoperte, per questo ci ho messo più del dovuto a tornare.» spiega, ma il divertimento torna sul suo volto, mentre le mani avvolgono i fianchi di Dio e lo tirano a sé. «Avresti una squadra tutta tua - oh, non guardarmi così, so bene quanto ti piace comandare - da poter gestire come ti pare, e l'unica cosa di cui dovresti occuparti è che possiamo portare via i reperti, nel caso siano trasportabili. Il resto sarebbe vacanza, come quelle che piacciono a te.»
Dio non parla, lo fissa solo con i suoi occhi rossi. Jonathan decide di rincarare la dose, giusto per convincerlo del tutto - e farsi perdonare almeno un poco.
«Posso aspettare fino a quando ti laurei, se vuoi. Se no, puoi iniziare prima.»
Jonathan non è così innocente come sembra ai molti - lo sa, l'influenza di Dio non gli fa propriamente bene -. Per cui, gli si avvicina, naso contro naso, e sussurra: «E sarei tutto per te, in qualunque momento.»
Sa di aver ottenuto il suo obbiettivo quando Dio gli afferra le grosse spalle e lo spinge contro i cuscini, il suo ghigno che mostra i denti.
«Ci divertiremo molto, JoJo.»


*

Joseph e il latino non sono mai andati d'accordo. Infatti la domanda che si fa, mentre ha il voluminoso dizionario aperto in una pagina a caso davanti e testi di Orazio da tradurre in mano, è perché diamine abbia scelto un corso tale all'università. Poi si ricorda e vorrebbe sia prendersi a schiaffi che far sparire tutto il suo odio per quella lingua morta.
Con un sospiro - perché tanto sa che non riuscirà a cavarne un ragno dal buco che è la sua conoscenza del latino - afferra il telefono e chiama l'origine del suo problema.
«Ehi Cesarinoooo!» saluta, quando dall'altra parte viene interrotto lo squillare del telefono da un "pronto" annoiato e altamente infastidito, che ignora bellamente.
«Volevo chiederti...» poggia la mano contro la scrivania e si dà la spinta, facendo girare la sedia «Puoi darmi una mano con latino? Non ci capisco niente...» implora quasi piagnucolando.
Un sospiro gli arriva in risposta - Joseph se lo immagina benissimo, mentre porta la mano alla fronte e scuote leggermente il capo, mormorando qualche insulto in dialetto che lui non capisce.
«E va bene. Hai dieci minuti per arrivare a casa mia.» gli concede Caesar, chiedendogli la chiamata in faccia. Ma Joseph è già in volata, dopo aver ficcato dizionario e fogli alla rinfusa nello zaino non ancora svuotato dai corsi di quel giorno, afferra la giacca lasciata all'ingresso e scende di corsa le scale, raggiungendo la moto e uscendo dal campus universitario a tutto gas.
Ha incontrato Caesar diversi mesi prima, in una palestra del campus, in una mattinata autunnale, piena di quella foschia che fa venire freddo alle ossa ad uno non abituato al clima italiano come lui. Dire che c'è stato il colpo di fulmine è quasi una circonluzione, dato che il primo istinto che ha provato è riempirlo dei più ridicoli scherzi - una volta Caesar aveva chiesto a Speedwagon perché Joseph si comportasse così, e quello gli aveva risposto che era la sua maniera per dimostrare affetto o interesse (il che aveva portato l'italiano ad aggrottare le sopracciglia per niente convinto) - ma nonostante questo sono diventati partner di allenamento, e per questo Joseph ha scoperto la grande passione del biondo per il latino - e di conseguenza, la sua iscrizione al corso nonostante non centrasse niente con la sua facoltà.
L'appartamento di Caesar non è lontano dal campus universitario, se non fosse che a quell'ora ci fosse il classico reflusso degli impiegati fissi alle loro abitazioni, per cui Joseph è obbligato a prendere vis secondarie benedicendo di avere una moto e non una macchina.
Lascia la moto nel garage di Caesar - che lo ha lasciato apposta accostato per lui, come ogni volta da dopo che hanno cercato di rubargli la moto e sono finiti in ospedali, peggio conciati di quanto potessero sperare -, e sale le scale di corsa, salutando la vecchietta di turno che stava scendendo e suonando il campanello dell'appartamento contrassegnato con "Zeppeli".
«Ti avevo detto dieci minuti.» commenta Caesar, appoggiandosi allo stipite della porta e incrociando le braccia al petto - su cui naturalmente cade lo sguardo di Joseph, che si appresta a protestare.
«Sono solo undici minuti, Caesar! C'era traffico, dunque ho dovuto fare il giro!» piagnucola, e per poco non si mette a fare gli occhioni dolci - con Caesar non è mai arrivato a quel punto, ma è curioso di vedere quale sia la reazione dell'italiano.
«Entra.» sospira il biondo, allungando il braccio e aprendo l'uscio.
Joseph, esultante, si infila sotto il suo braccio e senza pensarci si dirige verso la cucina, deciso ad attentare al frigo.
«Cosa ti ha preparato tua madre, questa volta?» chiede, con la mano protesa ad aprire il frigo, ma viene afferrato per l'orecchio e trascinato verso la camera di Caesar.
«Prima lo studio, poi forse il cibo, JoJo.»
«Ahi, ahi! Sì sì, ho capito, ma lasciami andare! Mi fai male!» protesta Joseph, e in risposta Caesar stringe la presa e lo scaraventa dentro la camera, per poi chiudere la porta a chiave - giusto per assicurarsi che l'americano non gli svuoti il frigo come l'ultima volta in un suo momento di distrazione.
Joseph si massaggia l'orecchio dolorante, mormora un ultimo "ahi" e si rialza in piedi, assumendo nuovamente dignità - anche se non sa quanto gli possa servire, adesso.
«Dunque? Dove hai problemi?» gli ricorda il motivo della visita Caesar, sedendosi alla scrivania e alzando un sopracciglio per invitarlo a parlare.
«In tutto...?» mormora Joseph, con un sorriso che dovrebbe servire a placare l'ira di Caesar, ma lo fa solo diventare più freddo.
«Joseph Joestar...» e se pronuncia nome e cognome, non è un bene - è una delle cose che gli ha insegnato l'Italia: sentire il proprio nome e cognome vuol dire guai, e pure belli grossi - «Si può sapere cos'hai al posto del cervello? Una nocciolina andata a male?» urla, seguito da qualche insulto in dialetto, dal cui tono Joseph capisce che non sono propriamente carini «Ho passato ore... ore a spiegarti la grammatica base e tu la dimentichi così?»
Da come si prende il ponte del naso tra indice e pollice si capisce che sta cercando di calmarsi, che se Joseph ha la memoria di una bolla non è affar suo. Joseph lo capisce e cerca di attenuare la situazione, con una voce che risulta debole da parte sua - neanche con nonna Erina si era sentito così in soggezione quando lei si arrabbiava (ed era spaventosa).
«No, quello me lo ricordo.... È che non riesco a tradurre, vengono fuori frasi senza senso.»
Caesar lo guarda storto con quegli occhi smeraldini, assottigliandoli. Infine sospira.
«Va bene, la traduzione di autori è sempre la parte più difficile.» accetta i fogli che Joseph aveva tirato fuori dallo zaino, e li fa segno di mettersi di fianco a lui, mentre osserva concentrato i testi.
Mentre la voce del biondo riempie le orecchie di Joseph, lui galleggia nella più totale felicità - deve ammettere a sé stesso che qualcosa era in grado di combinare da solo, ma con Caesar anche una lingua morta come il latino può diventare interessante.


*

Quando esce dalla classe, Jotaro è lì ad aspettarlo, il volto in ombra della visiera e dal colletto alto del gakuran, le mani infilate nelle tasche. Si sorprende che l'abbia ascoltato e che non abbia la sigaretta tra le labbra - dopo che gli insegnati, praticamente disperati, sono venuti da lui a lamentarsi, ha deciso che era meglio dirgliene due, anche se con il suo tono pacato abituale e il sorriso.
Jotaro lo nota e si volta verso di lui, lo sguardo marino che cangia e diventa più scuro. Kakyoin gli sorride in risposta e, fianco a fianco, si avviano verso l'uscita.
Il loro respiro si condensa in nuvolette bianche nella fredda giornata invernale, e Kakyoin infila immediatamente il naso nella sciarpa, sentendolo già freddo.
Lancia un'occhiata a Jotaro, un po' invidioso, dato che tiene la giacca del gakuran aperta e non sembra avere freddo come lui - nota che però indossa un maglione, cosa che fino alla settimana prima non faceva.
Con un sorrisetto soddisfatto, toglie il naso dalla sciarpa e si perde a guardare il paesaggio spoglio intorno a loro.
Il silenzio tra loro è sereno, come d'abitudine. È il loro modo più semplice per comprendersi senza aver bisogno delle parole, perché parole vuol dire dover scavare dentro di loro, e per entrambi non è piacevole - sia indagarsi, sia riportare alla luce parte di loro.
Il silenzio è quietamente sereno, si accorge Kakyoin, rimettendo il naso nella sciarpa e portando lo sguardo sul marciapiede. E lo è per colpa sua.
Vorrebbe sbuffare, un po' infastidito, ma la realtà è che si sente leggermente tradito e la cosa lo turba.
Colpa di una voce di corridoio che ha sentito un paio di giorni prima, in cui dicevano che probabilmente Jotaro sarebbe andato all'estero il prossimo anno, per l'università. Jotaro stesso non gli aveva mai detto niente al riguardo, le sue intenzioni e via dicendo, dunque la cosa l'aveva presa in contropiede e non sapeva se considerarla una pura diceria o un fondo di verità.
La sua attenzione viene attirata da un chiosco poco più avanti, dall'aria di offrire cibo caldo - qualunque cosa calda va bene al momento al rosso, che sta sentendo il freddo entrargli nelle membra nonostante stesse camminando.
«Fanno i nikuman! Prendiamo un paio!» esclama, attirando l'attenzione di Jotaro afferrandogli la manica e tirandoselo dietro, mentre correva verso il chiosco.
Jotaro fa per protestare mentre ne compra due, ma quando si ritrova il panino caldo tra le mani, distoglie lo sguardo, facendo finta di niente.
Kakyoin tiene il suo nikuman tra i denti mentre si sfila i guanti, e appena lo prende con le dita un tepore le riscalda, rasserenandolo. L'Anko è dolce, quasi scottante sulla lingua, ma lo trova perfetto in una giornata del genere.
È con soddisfazione che finisce il nikuman, accorgendosi solo dopo dello sguardo di Jotaro su di lui. Lo guarda un po' confuso, e lo è ulteriormente quando lui distoglie lo sguardo - non capisce se è per imbarazzo o perché è stato colto in flagranze, la sua espressività è difficile da leggere, nonostante lo conosca bene, o almeno, pensa di conoscerlo bene.
Quando sente che il tragitto a casa è praticamente finito, decide che è ora di togliersi quel tarlo e parla, violando quella segreta regola presente tra loro.
«Hai deciso dove andrai all'università?»
Non si volta a guardarlo, anzi seppellisce il naso nella sciarpa, volendo nascondersi totalmente lì dietro.
Jotaro ci mette un po' a rispondere, come se stesse ponderando bene che parole usare - Kakyoin ha notato che spesso lo fa con lui, al contrario delle altre persone con cui parla senza ragionare e dice semplicemente quello che pensa.
«Sì. Andrò in America.»
«Oh.» è la reazione di Kakyoin. Sbatte diverse volte le palpebre, non sapendo bene come prendere la conferma di quelle voci che l'avevano confuso così tanto.
«Sono felice per te.» risponde, imbarazzo perché non saprebbe cos'altro dire - quello che ha realizzato è che sarà solo, di nuovo, e al solo pensarlo lo sconforto e la tristezza lo avvolgono, malinconiche come lo erano state per molti anni.
«Potresti venire con me.» la voce di Jotaro lo risveglia dai suoi pensieri.
Ha smesso di camminare e lo sta guardando fermamente, quando si volta a scrutarlo. Sembra aver assunto la sua aria minacciosa dei primi giorni - quelli seguenti alla lite, su cui si basa tutto il loro legame - ma Kakyoin capisce che sta cercando di esprimere qualcosa che non ha neanche ben chiaro lui, per cui fatica più del solito.
«Dato che qua in Giappone ho visto che nessuna Accademia d'Arte sembra interessarti, ho pensato che potessi venire in America.» aggiunge Jotaro.
Kakyoin non sa se quello che carpisce tra quelle parole sia il vero significato che intendesse dargli il moro, ma basta perché sorridi e annuisce.
«Certo, verrò in America.»
Jotaro gli regala uno dei suoi rari sorrisi e lo affianca, camminando praticamente spalla contro spalla.
«Ti fermi per cena da noi? Dovrebbe essere arrivato anche jiji per passare il weekend qui.» chiede Jotaro, poco dopo.
«Non si rifiuta mai la cucina di Holly-san!» ride Kakyoin, accettando l'offerta e seguendo Jotaro per il vialetto che porta all'allegra abitazione.

*

«Corri Gyro! Dannazione, usa quelle gambe!» urla Johnny, la presa serrata sul carrello in cui è seduto.
«Sto correndo, Johnny! Ma non sono un dannato cavallo e siamo in un centro commerciale!» gli risponde Gyro, svoltando tra due scaffali per depistare gli inseguitori.
Percorrono così l'intero reparto, raggiungendo finalmente le casse.
Entrambi tirano un sospiro di sollievo e si scambiano un'occhiata scoppiando a ridere.
Quando escono, dopo aver incontrato Hot Pants alla cassa - «Di nuovo in fuga da Diego?» chiede Hot Pants, appena li vede, mentre passa gli articoli che Johnny tira fuori dal carrello.
«E sta volta Mountain Tim può testimoniare che siamo innocenti.» risponde Gyro, dall'orgoglio ferito, mentre insacca gli articoli già registrati.
Hot Pants ridacchia, ma non aggiunge altro, se non quanto devono pagare -, Johnny protesta che può camminare con le sue gambe fino a casa, nonostante sappia di essere stanco.
«Jhonny» come ogni volta, l'accento italiano di Gyro si fa sentire nel nome dell'amico «È tutto il giorno che cammini. Smettila di fare il testardo e lasciati portare.»
«No! Ce la faccio da solo!» ripete il più giovane, che testardamente si allontana dal carrello a cui è appoggiato, senza usare la stampella di supporto, facendo due passi e quasi finendo a terra, se Gyro non l'avesse acchiappato prima dell'impatto - ha imparato ad essere veloce perché ha visto e vissuto troppe volte le escoriazioni dovute a quei momenti di testardaggine assoluta, dovendo poi ritrovarsi a medicarle subendo il broncio di Johnny verso sé stesso.
«Ora mi ascolterai?» chiede Gyro, paziente. In risposta Johnny guarda da un'altra parte e non proferisce parola.
Gyro ridacchia e lo sguardo di Johnny si fa assassino nei suoi riguardi, con l'intento di minacciarlo, ma non fa altro che aumentare l'ilarità dell'italiano.
«Va bene va bene. Hai ragione tu.» dichiara la sconfitta Johnny, che non protesta quando Gyro se lo mette a spalle e gli passa la busta della spesa, che stringe a sé.
Gyro si incammina e fischietta un motivetto che Johnny conosce fin troppo bene, e che lo fa sorridere.
«Cosa c'è da mangiare per cena?» chiede Gyro, che da buon italiano pensa sempre al cibo - e da buon smemorato non ricorda cosa ha preparato lui stesso.
«Mhhh.... Pizza.» gli ricorda Johnny, dopo un attimo di riflessione - senza di lui probabilmente sarebbe perso nel disordine.
«Pizza mozzarella?» chiede Gyro, inclinando il capo all'indietro.
«Pizza mozzarella.» conferma Johnny, ricambiando lo sguardo.
Un Gyro più allegro, dalla notizia che per cena ci sarà la pizza, continua la strada verso il loro appartamento, canticchiando questa volta il motivetto, a cui si aggiunge Johnny.
«Pizza mozzarella, pizza mozzarella, rella rella rella»
«Rella rella rella»

(Il cerchiolino blu nella foto non ho idea di cosa stia a significare, (ho ipotizzato che fosse una specie di stampella/bastone ripiegabile e portatile) ma è l'unica versione della foto che ho trovato)

N.d.A.
Perché solo quattro parti di JoJo e non tutte? Easy. Perché le tre mancanti sono già praticamente moderne e mi sembrava rindondante scrivere qualcosa che è già praticamente presente nella serie di sé. So che la parte corrispondente a SDC è proprio al limite, ma avevo trovato quella bellissima immagine e dovevo - ne ho trovate anche altre delle altre parti, su cui probabilmente scriverò qualcosina, dunque don't worry.
E sì, Gyro smemorato nelle cose più semplici per me è canon.

Tomoe

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