Il dolore di Sara

Dove eravamo rimasti...
Lara (ex amica di Isabel), Jared (ex amante di Isabel e giardiniere di casa Wilson), Kate (ex di Jared) sono stati brutalmente uccisi da un uomo dal volto coperto e dall'identità ignota, i cui piani sono congiunti a quelli di Isabel. Eric, istigato da Marina, ha confessato di essere stato a letto con Sara solo per distruggere il matrimonio dei loro genitori, matrimonio a cui è sempre stato contrario a causa delle azioni spregiudicate di Isabel nel passato e nel presente. Ma, si sa, le cose non sono quasi mai solo bianche o solo nere: Eric prova profondi sensi di colpa per come si è comportato. Tutto quello che sopprime si manifesta in incontrollata ansia inconscia, attraverso attacchi di panico, che cura con le benzodiazepine. Ritrovata la sua baldanza, si avventura con Jennifer e Jason in una brisca clandestina, in cui di solito gioca lo scagnozzo del killer. Lo scagnozzo, per chi non lo ricordasse, fu inviato dal killer all'inizio, per spingere Eric a tacere riguardo la morte di Lara, di cui il giovane era venuto a sapere (da una conversazione aveva capito chi fossero i due colpevoli, ossia Isabel e l'omicida ignoto). Purtroppo le cose non vanno come previste e proprio mentre Eric, intrufolatosi nello studio, ha accesso a tutti i nomi degli ospiti, un uomo arriva con Jennifer al seguito, intrappolata, nel mirino di una pistola puntata alla testa. Un colpo della pistola va a segno. Ma quello colpito è Eric, per evitare che venga trafitta Jennifer.





Pov Eric:

Il suono del cellulare riecheggia nuovamente tra queste pareti bianche. Mi appresto a rispondere, ben conscio di chi sia.

< Sì, papà, per l'ennesima volta, sto bene! E no, non ho voglia di sentire le tue paternali, come se fossi un poppante! Sì, sono stato uno sconsiderato ad imbucarmi! Avevo uno smodato desiderio di fare l'agente 007. E sì, ho dei seri problemi. Sì, ti sto facendo perdere tempo! > cantileno, schioccando la lingua e roteando gli occhi al cielo. Jennifer, in un lungo tayer nero, spezzato da una maglia e dei decolté rosa, se ne sta seduta comodamente a gambe incrociate su una sedia nera di plastica, situata al fianco del mio letto. Nel mentre, fa dondolare i suoi boccoli scuri da una parte all'altra. Sta ascoltando l'ennesima guerra mondiale col mio vecchio, avvenuta al telefono, ovviamente.

-Una tragedia greca se venisse più di una volta al giorno in ospedale! Chiedergli di non pensare al nuovo affare con Kevin equivale ad essere torturato!-

Le sue grandi pupille a mandorla, incorniciate da un eyeliner nero, sono fisse sulle pareti bianche di questa stanza di ospedale. Tamburella lievemente le sue unghie curate in rosa perla sul comodino in legno massello, su cui è poggiata una bottiglietta d'acqua. Distante di un metro, la flebo attaccata al mio braccio mi fa compagnia.

In vena mi stanno somministrando antidolorofici, per lenire il dolore indotto dalla ferita.

Il suo sguardo si adagia su di me. La fasciatura sul mio stomaco e il dolore, che è stato attenuato dai farmaci, rendono difficili i miei movimenti.

Le e sue labbra carnose, accentuate da un rosato, si incurvano leggermente all'insù.

D'altronde, da una settimana, ogni giorno è sempre la stessa storia.

< Ma puoi ritornare al tuo abituale rito, ossia preoccuparti di questo affare, ciao! >, chiudo con stizza, non potendone più delle sue lamentele.

< Noto che il rapporto con tuo padre non sia propriamente idilliaco > proferisce lei, improvvisamente.

< Sì, siamo come il giorno e la notte, il sole e la luna. Non ci capiamo e non ci capiremo mai. Spero ti siano piaciute le merendine dell'ospedale al sapore di cioccolato e frecciatine piccanti, le nostre >, fare del sarcasmo è la cosa che mi riesce meglio in qualsiasi momento.

< Dire che le ho adorate è dire poco. Un po' di peperoncino serve sempre, rende il cibo meno insipido >.

La tensione, che alberga intorno a noi, viene alleggerita dalle nostre risate sommesse.

< Comunque, non che mi dispiaccia la tua presenza, sia chiaro, però... > le faccio notare, perché è venuta qui ogni giorno.

< Però ti sto assediando con le mie asfissianti visite, lo so > conclude per me ridacchiando, < Ma, dopo quello che hai fatto, credo che sia il minimo. Eric, a tal proposito, io... >.

La interrompo: < Ti dispiace, lo so. Me lo hai detto almeno venti volte in questi giorni, cambia registro. E io ti ho detto altrettante volte che lo avrei fatto per chiunque >, ammicco nella sua direzione, per tranquillizzarla.

Non voglio che si senta in colpa.

Non è colpa sua.

E a quanto pare, riesco nell'impresa: un sorriso accennato minaccia di spuntare sul suo volto precedentemente teso.

< Beh... dai, trova il lato positivo, sei accudito, servito e riverito da una donna, adesso >

pronuncia con leggerezza. Tuttavia, ciò fa tornare a galla un ricordo. La mia mascella si indurisce, come se fosse fatta improvvisamente di marmo.

< Che succede? Sei diventato improvvisamente cupo >.

La voce di Jennifer, pervasa da una particolare preoccupazione, mi catapulta nuovamente nella realtà, nel presente.

< Non succede niente >, tronco il discorso sul nascere, non c'è ragione di parlarne, ancor meno con lei.

Lei mi scruta, come a voler soppesare le mie parole, e lo noto, non mi crede. Ciononostante, per qualche strana ragione finge di farlo.

< Ad ogni modo, per quanto riguarda il bacio, so che è stato un bacio di circostanza. Però volevo dirti che non mi è dispiaciuto > mi dice con tono piatto, seppur io avverta una sfumatura di ansia. Al ricordo del nostro bacio, che di casto aveva ben poco, un sogghigno si fa strada in me.

< Sì, non è dispiaciuto neanche a me. Sei una donna molto attrattiva e, aggiungerei, intelligente e frizzante, Jennifer. Se non fosse stato per il tuo stratagemma di distrarre l'uomo, non sarei riuscito ad entrare nello studio > la adulo. Lei, in un tacito dissenso, mi studia cercando di carpire qualcosa nelle mie parole e nella mia espressione, ora maliziosa.

< Cosa c'è? > manifesto tutto il mio sconcerto di fronte a questa sua particolare attitudine.

< Sto cercando di capire se il fine di queste tue parole sia fare il cascamorto > mi fa presente, chiaramente divertita, senza che quel sorrisetto canzonatorio la abbandoni. Io decido di stare al gioco: < Supponendo che io lo abbia, questo fine, intendo... ti susciterebbe piacere emotivo o sdegno? >. Una smorfia pensierosa dipinge il suo viso, si sta prendendo beffa di me: finge di pensarci.

< Dipende da quali sfumature può rivelare questo fine... e comunque, bravo! Ci sai fare, sai usare le parole a tuo vantaggio! > ribatte, burlandosi di me.

< Tu quali sfumature vorresti avesse? Questo fine, intendo. E mh... usare le parole? > continuo quella che è ormai una guerra verbale.

< La torta mi piace, ma non mi accontento di una fetta ogni tanto. Ne vorrei una ogni giorno, con costanza e assiduità... con impegno... nel mangiarla, intendo. Non mi piace qualsiasi cosa, anche la più bella o la più buona, se è scostante e sfugge >

Capto all'istante il doppio senso che cela questa frase.

Intende dirmi che vuole una storia seria.

La torta sarei io.

Dissimula, rimurginando con falsità su quanto ho detto in precedenza, come se stesse dosando quali altre parole dire:

< Quando ho detto che sei bravo, mi riferivo alla tua velata frecciatina chiaramente maliziosa, pur mantenendola su un piano ipotetico, in modo tale da metterti a riparo qualora io ti dicessi di no >

-Mi ha scoperto! Questa ragazza ne sa una più del diavolo, è perspicace! Non è per nulla ingenua!-

< E dalla metafora della torta desumo che la risposta sia un secco no > desumo io.

< Desumi bene > conferma le mie ipotesi.

< E così disdegni il sesso > constato schiettamente, sorridendo sghembo, e ciò la sorprende, almeno per un secondo, dal momento che solleva un sopracciglio.

< Non disdegno il sesso, non sono una suora e non sono casta e pura, ma le relazioni libere non mi aggradano > mi chiarisce con fermezza.

< Chi ti dice che io sia un tipo da relazioni libere, non mi sembra che fuori ci sia la fila di donne che spasimano per me > ironizzo con il mio abituale sarcasmo.

< Oh... andiamo! Lo capirebbe anche un cieco! Sono un avvocato; dunque attenta ai dettagli! Ti sei mostrato sicuro di te, disinvolto e seduttivo quando ti sei approcciato a me per baciarmi o per parlarmi entrambe le volte; sei analitico e calcolatore ma, quando devi agire, sai mostrare la giusta dose di irriverenza, senza eccedere e risultare un buffone. Kevin è chiaramente il ragazzo che gioca a fare il clown, tu invece ti avvicini lentamente come un lupo quando sta per sbranare la vittima >.

Rimbomba la mia fragorosa risata di fronte al suo sguardo sicuro.

< Esagerata! > biascico, cercando di respirare.

Jennifer sembra non averne abbastanza e infatti...

< Sai giocare al "dico non dico", per flirtare senza che il flirt ti faccia risultare eccessivamente svenevole. Inoltre, non ho visto nessuna fidanzata in questi giorni; dunque un ragazzo con questi metodi di approccio... o è gay o è... >.

Dopo aver deposto la mia ilarità e aver sfoderato la mia serietà imperscrutabile, riprendo lo scontro:

< Dopo questa radiografia non posso far a meno che chinare il capo. Ma permettimi di puntualizzare su una questione... ho avuto rapporti liberi, durati anche mesi o anni, perché sono single. Ma sono sempre voluti da ambedue le parti. Odio prendermi beffa delle donne, cerco sempre di mettere in chiaro le cose sin da subito, e non ho nessun tipo di lista! Andiamo! Quello è Kevin! È una cosa così infantile! Le donne non sono un trofeo! >.

< E non trovi infantile avere rapporti, per così dire, liberi? > puntualizza lei, questa ragazza è inarrestabile. Ti dice quello che pensa, sempre e comunque.

< Dal mio punto di vista non lo è, perché in fin dei conti il "per sempre" è dato dal caso... ossia un insieme di passione, affinità intellettiva, chimica, compatibilità caratteriale, obbiettivi, pazienza, impegno e concentrazione. Proprio così, concentrazione verso l'altra persona, verso i suoi bisogni! E per farlo, si necessita di avere anche la predisposizione psicologica, oltre che emotiva. Il legarsi a qualcuno per la vita non è così semplice. L'amore è solo una parola che i romantici idealizzano, ma ci possono essere tanti amori che, per mancanza di questi aspetti, tracollano. E la maggior parte rientrano nell'ultima categoria > le espongo lentamente la mia concezione.

< Hai ragione, ma queste relazioni non ti lasciano nulla > non esita a far valere la sua idea.

< Sono single e sono un uomo, perché non dovrei? Il sesso è un'estensione naturale di pulsioni fisiche e di un'alchimia mentale, ma non porta complicazioni. Più si è affini mentalmente, più si ha una forte chimica sessuale, sono interconnesse. Inoltre, sai... non trovo eccitante andare a letto con una ragazza che non conosco minimamente. L'importante è mettere in chiaro le cose, anche in rapporti meramente fisici ci può essere rispetto >, faccio spallucce.

È così che funziona il mondo oggi.

< Il dottore mi ha detto che domani posso uscire > viro il discorso su altro.

< Toc toc! >, bussano alla porta ed essa si spalanca.

Jason.

Come di consuetudine, veste in eleganti completi scuri. Con il suo solito taglio da tedesco nazista, i lineamenti marcati e spigolosi e le sue pozze scure, fa la sua entrata con passo felpato.

< Salve Eric, come sta? > esordisce.

< L'erba cattiva non muore mai > faccio del sarcasmo, suscitando l'ilarità di quest'ultimo. Jennifer ci lascia.

< So perché è qui. Riguarda la lista che le ho dato. In quella lista una firma... una "W" per la precisione, ha destato il mio completo sbigottimento. Quello è il marchio dell'azienda; dunque potrebbe essere uno dell'azienda > ipotizzo.

Annuisce.

Non esprime alcun diniego.

< A questo punto il cerchio si restringe. Forse c'entra il denaro. Forse è una questione di potere. Conosce qualcuno nell'azienda che potrebbe... > insinua e io gli rispondo: < Sì, un uomo, il contabile dell'azienda, ha un passato di narcotraffici, ma non so... le chiedo il massimo riserbo >.

Annuisce ed esce.

Pov Sara:.

Il rumore della pressione frenetica, che esercito sulla pasta per la pizza sul tavolo della cucina, si infrange sulla quiete della casa. Martin se ne sta qui, proprio di fronte a me, a braccia conserte con una camicia a quadretti rossa e nera, dei jeans strappati. I suoi capelli biondi e scarmigliati lo infastidiscono; li sposta per la 40milionesima volta. Ciò mi diverte. Si è recato qui, a casa di mio padre, per farmi visita. Ma mi ha ritrovata nel mio grembiulino giallo, coprente il maglione giallo canarino e i jeans, intenta ad impastare. Qualche cioccia, fastidiosa come le sue, non ne vuole sapere di darmi pace: seguita a darmi il tormento. Soffio sperando si sposti.

Ovviamente non accade.

-Perché, diamine, non ho poteri paranormali? Dio della sfiga ti diverti lassù? -

Sbuffo.

Una mano, quasi avesse ascoltato le mie elucubrazioni mentali e deliranti, la sposta.

< Grazie > squittisco.

Lui inclina il capo al fine di osservarmi meglio.

Il caramello, che illumina il suo sguardo, pare voglia fondersi con la mia figura.

< Non era vero. La mia storia con Nora non era vera, ci siamo frequentati e ci siamo lasciati subito dopo > prorompe come un fulmine a ciel sereno.

Mi sovviene quel giorno in cui lo vidi con lei, Nora, e il giorno in cui seppi che lui le aveva dedicato quella canzone d'amore.

< Cosa? Ma tu le avevi scritto quella canzone... > gli rammento con una punta di incertezza.

< Non era vero, l'avevo scritta per te > mi confessa.

-Schietto, diretto e conciso! -

Sbatto le ciglia e il fiato sembra venire meno, adesso.

< E perché diavolo mi hai mentito? > paleso la mia confusione.

< Perché c'era Eric tra di noi, lui era sempre in mezzo e mi aveva detto quello che c'era tra voi due! > mi rivela. La sua voce assume un'inclinazione di rabbia.

Voglio rendere tangibile quello che tra noi non lo è mai stato, o almeno sino ad ora.

< Ai tempi della canzone, tra me ed Eric non c'era nulla, Martin >

La luce intensa delle sue pupille, dal colore del miele, rischiara a causa della dilatazione smodata di queste.

Digrigna i denti.

Le sue dita si stringono furiosamente in un pugno.

Scatta per andar via, ma gli cingo la vita.

< Quindi lui mi ha mentito, quel bastardo! > tuona, pienamente costernato.

< Eric è capace di fare qualsiasi cosa, a volte >

Tenta di liberarsi dalla mia stretta che si intensifica.

So quali siano le sue intenzioni.

< Fermati! Non occorre Martin! Ormai è acqua passata! A cosa servirebbe? Faresti a botte con lui, e poi? Cosa cambierebbe? > provo a farlo ragionare e per fortuna desiste; corrucciato, resta in silenzio.

< Che ne dici di buttarci alle spalle tutta questa vicenda e... che so... aiutarmi a fare questa pizza? Sai che sono maldestra, ho paura che ci sia l'incendio nel forno > ci scherzo su e lui si rilassa. La sua espressione, precedentemente in tensione, si distende.

Incominciamo ad impastare, di nuovo.

Farina, farina, e solo farina imbratta qualsiasi superficie in legno della cucina.

Mi passa l'olio e lo aggiungo, solamente un filino.

Sta tagliando i pomodori, causando così la mia ilarità, perché sono le forme più disparate e irregolari.

Martin è del tutto incapace, non ha mai cucinato in vita sua.

Afferro i pomodori e li metto sulla pasta distesa nella teglia.

Faccio lo stesso con la mozzarella a cubetti.

Aggrotta le sopracciglia in una chiara espressione di malcontento.

< Come fai a mangiarla con la mozzarella? >, dà solo aria alla bocca, non capisce niente.

< Come fai tu a mangiarla senza mozzarella! Una pizza senza mozzarella non è degna di essere mangiata. Adesso, un pizzico di origano e di sale, ed è fatta > concludo, accendendo il forno.

Lui, di tanto in tanto, ride.

Il tempo, come ogni qualvolta ci si diletta in qualcosa di appagante, scorre in fretta; infatti dò una sbirciatina all'orologio e sono già le 18:00 pm.

< Non mi aspettavo fossi così brava e non era vero che eri incapace! > constata, sgomento dalle mie abilità.

< A quanto pare l'unica arte, in cui la mia goffaggine è ridotta a zero, è quella culinaria, anche perché mia madre è del tutto incapace. Rischieremmo di trovare distrutta la cucina, e sì, quando stavo con mio padre cucinavamo io e papà per lei > gli racconto scherzosamente.

< Comunque, sei una volpe Sara, mi hai mentito sulla pizza per impedirmi di spaccare ad Eric il suo bel faccino >

-Ed eccolo che riapre la ferita che credevo ormai cicatrizzata! -

< Ok, mi hai scoperto >, sollevo le braccia in un segno di resa, e gli rivolgo una linguaccia. Ride sguaiatamente. Successivamente si adombra: il suo viso viene oscurato da una luce di malinconia.

< Ci pensi ancora? A lui, quel maledetto bastardo! >

Mi concedo un profondo sospiro, temporeggiando, perché... non lo so nemmeno io.

< Perché dobbiamo parlare di questo adesso? C'è la pizza con le patate che ci attende. Tocca a te! > viro l'argomento su altro.

Martin inizia, ma lo fa con troppa intensità.

< La stai torturando! Piano! Lievemente! Romperai la teglia! > protesto con leggera ironia.

< Sara, ma, ecco... c'è una qualche possibilità per noi due di riprendere quello che non siamo mai riusciti ad intraprendere? > incomincia interrompendo bruscamente il suo lavoro. Azzera le distanza tra noi e caccia via la farina dalle mie guance che si colorano immediatamente di rosso.

È sempre più vicino ad una me sempre più ansimante e disorientata.

Chino il capo che viene alzato da lui.

Il campanello ci fa sobbalzare.

< Vado io! > si offre lui e io respiro, finalmente.

Con falcate decise, attraversano la soglia della cucina, Martin e un secondo ragazzo, alto quanto lui.

È un bel ragazzo, ma non ho idea di chi sia costui: i capelli, dal color del grano e un riccio scompigliato, incorniciano il suo viso; i lineamenti sono dolci, le labbra a cuoricino, il naso a patata. Indossa una camicia azzurra e dei jeans.

< Questo è Samuel, uno psichiatra. Un mio caro amico > lo introduce, Martin. Io mi sporgo per stringergli la mano.

< Molto piacere! >

< Il piacere è tutto mio! > ricambia, affabile.

Ha una borsa in cuoio nero da medico.

Lui si accomoda a mangiare con noi.

Pov Eric:

23:00 pm, l'orario che riporta il cellulare.

La mia schiena aderisce alle pareti fredde e bianche di casa mia.

Proprio così, casa mia.

Finalmente sono libero da quelle flebo, da quell'aria satura e asfissiante dell'ospedale e da quei pigiami.

Pensavo non mi avrebbero più permesso ad uscire, e invece...

-Eccomi qui! Sano e salvo, più fresco di un rosa! -

Il mio stomaco porta ancora il peso di quelle maledette fasciatura che, però, sono coperte, in questo momento, da una semplice camicia bianca. Dei lunghi pantaloni neri fasciano le mie gambe. Sono nella camera di Rossella che, dormiente, giace sul letto, coperta completamente dalla trapunta. Il lume della luna filtra attraverso la grande tenda bianca, per poi posarsi sulla testiera in ferro battuto del letto, sulla sua pelle diafana, sui suoi lunghi capelli corvini, sui due comodini in legno bianco e lucido accanto a lei. Il resto è avvolto dalle ombre.

L'infrangersi di alcuni scarpini sul marmo del pavimento mi distoglie dai miei pensieri.

Samuel è tornato.

Lo raggiungo fuori, nel corridoio.

< Dorme di già, ma d'altronde la seduta di oggi l'ha provata, ha ricordato Raul che le impediva di suonare il violino > assoda freddamente, lui.

< Lo so, me lo ha detto, era felice di aver ricordato il suo ex >, e aggiungo < Grazie, per tutto quello che stai facendo, Samuel. Grazie per questi mesi, grazie per questi extra che stai dedicando a Ros, grazie per aver mantenuto il segreto di quella notte >.

< Io le voglio bene ed è il mio lavoro. Riguardo quella notte, non potevo fare altrimenti, non potevo confessarle quel che è successo e che ha causato l'incidente, sarebbe stato un trauma per lei > mi espone lui in un sussurro che cela tanta preoccupazione, ansia e dolore.

< Un trauma ter-ribile! Se solo ripenso a quella notte io... i-io i-o! > le parole restano inchiodate nella gola, quasi fossero intrappolate, perché annaspo. Le lacrime strepitano inondando il mio volto. Le mani strette a pugno si infrangono violentemente sul muro in un unico colpo secco.

< Se-se so-lo ripenso a quel che è successo a quella notte, a quello che solo io e te sappiamo, io-o... > singhiozzo, annaspando ripetutamente. Poso il capo, o meglio la fronte, contro il muro. Samuel mi lascia un colpetto leggero sulla schiena, quasi a volermi infondere un incoraggiamento.

< Lo so, nondimeno te lo spiegai, Rossella soffre di un'amnesia dissociativa, amnesia indotta da un trauma. Trauma verificatosi quella notte poco prima dell'incidente; per questo la sua mente l'ha voluto cancellare. La chiave per recuperare il passato risiede in quel trauma, quella notte. Se lei recuperasse, con le sedute, questo ricordo, ricorderebbe tutta la sua vita > mi spiega pazientemente, pur con una punta di preoccupazione.

< Ma non c'è davvero altro modo? Lei ha voluto cancellarlo, proprio perché è terribile. Perché dobbiamo indurla a ricordarlo? > sfogo tutto il mio diniego che straripa via da me in modo incontrollato e ancora più intenso di prima.

< Perché non può vivere in un'illusione per sfuggire dalla realtà, non può cancellare chi lei sia solo per paura di ricordare quell'avvenimento. Il nostro passato ci forgia, noi siamo il nostro passato. Deve accettarlo sentendo la nostra presenza > proferisce e non so come faccia, ma mi tranquillizza, in seguito mi abbraccia e si allontana per giungere nella stanza degli ospiti. Mi lascio cadere sul letto della mia stanza, non sono più in grado di discernere neanche dove mi trovi e cosa io faccia: ho attraversato meccanicamente i meandri dei corridoi sino alla mia stanza buia; altrettanto meccanicamente ho ingoiato una pillola di Xanax dopo essermi vestito per cambiarmi; altrettanto meccanicamente i miei occhi si chiudono, e l'inebriante e soave mondo dei sogni mi accoglie.

***

L'indomani, la sveglia si fa sentire in modo stridulo, martellante e crudele. La spengo con impeto, e mi precipito in bagno per rinfrescare il mio corpo.

E dopo 20 minuti, sono già perfettamente in ordine con quasi i medesimi indumenti di ieri, eccetto per la camicia che oggi è blu notte. Rapidamente avanzo per scendere la larga scalinata in marmo. Samuel mi attende all'impiedi al centro del salone in uno dei salottini, precisamente sotto i cristalli pendenti dello sfarzoso lampadario, tra i le poltrone e i divani in pelle bianca.

< Andiamo, ho dimenticato un libro a casa di un'amica ieri sera > sentenzia e usciamo, l'aria fredda di New York alle 08:00 am mi gela nelle vene. Calpestiamo velocemente le pietre del vialetto tra gli immensi alberi che toreggiano, in tutta la loro incommensurabile altezza, attorno a noi.

< Sai, quella ragazza l'ho conosciuta ieri e mi è sembrata molto depressa, Martin mi ha detto che c'entra l'amore > mi informa, ma la cosa non mi suscita alcunché, questa tipa è un'estranea. Ci disponiamo sui sedili in pelle nera della sua macchina.

Un'alfa romeo rosso fiammante.

Dopo ben 30 minuti di traffico, arriviamo a destinazione: un porticato, un orticello ben curato, case simmetriche con i tetti spioventi e colorate di un giallo canarino.

Suona il campanello, la porta infine si apre e mi ritrovo di fronte gli occhi nocciola dell'ultima persona che avrei voluto incontrare...

Sara.

-Ma cosa...-

< Sara, scusami il disturbo, ma per un nuovo paziente ho bisogno del libro che ho lasciato qui, voglio presentarti il fratello della mia nuova paziente, Eric Wilson! > ci presenta, del tutto ignaro della verità.

Lei sbarra gli occhi quando mi vede.

< Io sono... >

Non riesce a portare a termine la frase.

Questa situazione è assurda: lei è la ragazza di cui parlava Samuel e sta fingendo di non conoscermi. Vorrei ridere dell'assurdità delle circostanze, e sarebbe una risata nervosa.

< Ci conosciamo già. Lei è la figlia della nuova moglie di mio padre > dico a Samuel, tentando di esternare indifferenza e autocontrollo.

< Ah... non lo sapevo! Vabbe', io vado a cercare il libro > esclama lui, e girovaga per le stanze.

Sara si volta e va in un soggiorno molto piccolo. Esso è ben spoglio, ma non per questo è vuoto: dei quadretti, raffiguranti una ragazzina con le trecce, l'apparecchio e vestitini bianchi, sono affissi al muro e smorzano un po' la mancanza di vitalità espressa dalla luce biancastra dei muri e dai mattoni in un rosa pallido. Ci sono solo due divani marroni in tessuto sfoderabile, delineanti lo ristretto perimetro dello spazio che ospita il tavolino, anch'esso del medesimo materiale dei mobili, legno massello. Le sue mani giocano, le une con le altre, sul suo grembo, nel frattempo posa il suo leggero peso su uno dei due sofà. Come di mia consuetudine, constato la mancanza di chiarore, abituato come sono alle vetrate di Villa Wilson. È tutto così asettico e modesto.

Il suo sguardo è rivolto ai mattoncini, non riuscendo a nascondere il disagio che prova.

Sorprendentemente lo stare in silenzio, per di più in sua presenza, mi trasmette un sentore di stranezza. Vederla in questo stato provoca in me un singolare effetto: la mia vista svia quella visione quasi raccapricciante e così cupa, saettando d'ovunque, dai muri al resto della stanza dallo stile così asettico.

I suoi occhi sono incavati, hanno perso ogni vitalità, due borse solcano la regione della cute sottostante, il suo viso esprime stanchezza e dolore, e ad aggiungersi alla lista, un pigiama il doppio della sua taglia ricopre goffamente il suo corpo.

I capelli sono caotici.

Non sembra stare bene.

Uno strano presentimento che, malgrado stia cercando forzatamente di ignorare, si ripresenta in me con un grado di onnipotenza dai caratteri del tutto sconosciuti.

Sospingo altra saliva oltre l'epiglottide, non dissimile ad un groppo in gola che mi rende difficile la deglutizione.

Il mio braccio, come rattrappito da una morsa paralizzante, si scuote in flebili tremolii, causati da diverse scariche che lo percuotono interamente: una scarica lo pervade.

Sopportare questo silenzio opprimente è diventato qualcosa di impossibile. Adesso mi sento in egual modo ad un condannato a morte che percorre a tentoni un percorso tortuoso, pieno di spine, con i piedi nudi e sanguinanti.

La prima cosa, che mi sovviene, vibra via da me, in modo impercettibilmente liberatorio e ostinatamente controllato: < Così è qui che vivete ora >.

La mia voce rimane inalteratamente impassibile, ma dentro sgorga un fiume in pena.

Devo farlo.

Non posso apparire come un debole, crederà di avermi in pugno, o peggio, si farà illusioni circa il mio stato emotivo nei confronti di un sentimento, indissolubile ed inesistente per me.

< Sì >, una risposta secca e priva della minima emozione.

Un'apparente apatia esce dalla sua bocca, ma i lineamenti del suo viso, così contratti, tradiscono le sue intenzioni.

Non vuole intraprendere una conversazione con me. Per la prima volta, un senso di inadeguatezza mi irrigidisce e aggroviglia lo stomaco in un terribile malessere.

< Perché non sei andata all'università? > le chiedo, perché voglio sapere se i miei dubbi hanno una qualche fondamenta o sono soltanto illazioni sterili, le mie.

< Cosa? Perché me lo chiedi? > mi chiede a sua volta.

< Perché voglio saperlo, no? > le strizzo l'occhio. Un occhiolino che vuole ripristinare la mia aria sicura, per lo meno in apparenza.

< Ti interessa? >, la sua "apparente" aridità mi arriva forte e chiara, nel tentativo di trafiggermi, si sta ponendo sulla difensiva, scrutandomi in cagnesco. Orbene non riesce, dal momento che io sono in grado di discernere l'apparenza dalla realtà e, quindi, qualcosa nei suoi occhi mi comunica che non è così: è imbarazzata e tesa quanto me.

< Samuel mi ha detto che ti rifiuti di uscire di casa, perché? > incalzo, deciso, con una punta quasi di prepotenza.

-Non sopporto questa maschera che sta indossando! Non può indossarla! Non con me! -

< Sono ragioni personali > conclude, placida. Frattanto abbassa lo sguardo, sfreca leggermente i palmi gli uni negli altri quasi convulsivamente. Indirizza la sua attenzione verso qualsiasi direzione della stanza. Pur di non rivolgermi neanche la più misera e sfuggente occhiata, farebbe di tutto.

< Sappiamo entrambi queste ragioni personali > incalzo con insistenza e urgenza, urgenza di sapere.

Lei, inaspettatamente, scatta verbalmente, velenosa, contro di me:

< Cosa vuoi sentirti dire? Che sto soffrendo, perché sono stata sedotta per una ripicca contro mia madre? Che mi sono innamorata di un ragazzo che adora la legge del taglione? >

Il suo timbro di voce è elevato, stridulo, accusatorio.

< Innamorata! Tu non sei innamorata! Io non ti ho fatto alcuna promessa! > prorrompo, imperioso, per deresponsabilizzarmi; ne ho bisogno, per rendere più leggero questo peso che grava sulle mie spalle da due maledette settimane < Ci sei venuta a letto con me perché volevi, pur sapendo che non avremmo avuto futuro, perché quella donna che chiami madre è la moglie di mio padre e hai sempre saputo che la odio, che... >.

La sua voce strozzata dal pianto blocca il mio fiume di parole.

< Ti prego, ti prego basta! Non ripeterlo! > mi implora, lacrimevole.

Le sue pupille, ormai vitree, si incatenano alle mie.
E per lo meno in questo momento, la mia apparente baldanza così rabbiosa vacilla.

Dei profondi sospiri vibrano via da sé.

< Cos'è che ti aspettavi? Che ti dicessi bravo solo perché mia madre è una puttana e fai bene ad odiarla? So che lei è così, ma io che colpa ne ho? Ciò non giustifica quello che mi hai fatto! Io... >

-Colpevole e miserabile! In questo modo mi fa sentire! Odio come mi fa sentire! -

I miei occhi si riducono a due fessure al fine di incenerire i suoi. E a grosse falcate la raggiungo e lei si alza di botto.

< Andiamo smettila! Sai come gira il mondo, domani incontrerai un altro migliore di me e ti innamorerai! Nulla è per sempre, soprattutto alcune relazioni! Io non ti ho mai detto ti amo! La stai facendo lunga! Nessuno è insostituibile, ancor meno uno stronzo come me! > strillo, del tutto fuori di me.

< No! Non so come gira il mondo! Potresti dirmelo tu! Io ero vergine e l'ho fatto perché io provavo... > mi urla. A questo punto il diverbio è sempre più acceso e ha assunto una proporzione immane.

< L'hai fatto, perché provavi una forte pulsione fisica nei miei confronti, anche se ti ostinavi a fare la santarellina! Però tranquilla! È normale, sono cose naturali! > seguito a sminuire la cosa, perché mi infastidisce comprendere che per lei è importante, e capire, quindi, quanto io sia stato miserabile.

< Una pulsione fisica... ti sbagli! Non l'ho fatto per questo! L'ho fatto, perché, anche se sei maledettamente crudele con me e con tutto ciò che ti intralcia, mi sono innamorata di te! Di te quando non pensi alla vendetta, quando pensi a tua sorella o a tua madre, quando vuoi proteggerla, di te che a 15anni hai fatto un doppio lavoro per mantenerla, di te che hai preso le redini dell'azienda con carisma, del tuo sguardo malizioso, del tuo sguardo giocoso quando fai l'idiota spensierato, del tuo sguardo quando mi hai detto che saresti stato disposto a morire per difendere tua sorella! > caccia fuori tutto quello che ha dentro di sé in modo incontrollato, così furioso e ansante, così intenso.

Sebbene sia stata lei a dichiararsi volontariamente, sembra che solo ora si sia resa conto delle sue parole. Spezza questo contatto visivo e intimo tra noi, abbassando la testa.

Ma non voglio.

Con passi lenti e cadenzati, azzero le distanze tra noi.

Il suo petto fa su e giù freneticamente.

Vorrei essere indifferente, ma non riesco e non ne conosco la ragione.

Lei mi attrae, ma non è questo.

Bensì, una strana inquietudine, uno strano sfarfallio mi penetra nel basso ventre.

La causa è la consapevolezza, o meglio la paura che lei possa dire la verità, che lei possa amarmi davvero, che possa essere davvero diversa da sua madre e che questo possa aprire una piccola possibilità per noi due. Una possibilità per quanto concerne un'ipotetica conoscenza più profonda.

Questa confessione è come un fulmine a ciel sereno, non mi aspettavo che lei pensasse queste cose.

-Che stia dicendo la verità? Se così fosse, per lei avrebbe significato molto di più quella notte e invece per me... -

< Sorpreso vero? Già, questa stupida ti ama, anche se ora vorrebbe darti solo altri schiaffi. Dartene altri ancora, ancora, e ancora! >. Le lacrime sgorgano, copiosamente, sulle sue gote. La sua mano vorrebbe schiantarsi sulle mie guance per darmi uno schiaffo, ma resta intrappolata a mezz'aria dalla mia.

Si dimena, provando a darmene altri e a scostarmi via da sé, ma io non glielo consento, intrappolandola al mio petto. Nonostante le sue braccia oppongano resistenza, non mi importa, l'importante è mantenerla stretta a me in questo istante.

< Sara... tu, davvero... > sillabo, ansante < Mi stai dicendo la verità? Come puoi? >

Una sensazione strana all'altezza dello stomaco aleggia in me...

-Che sia senso di colpa? Possibile che questa ragazza...-

< Sara, io ... > posso avvertire il suo fiato congiungersi col mio.

I miei polpastrelli si posano sulla pelle del suo viso, così delicato, che trema al mio lieve tocco.

Indugiano su di essa per una qualche inspiegabile ragione.

La accarezzano, pervasi da una singolare tenerezza.

p

< Non per-metter-ti di baciarmi, non lo voglio un tuo bacio > biascica. Respiriamo freneticamente all'uniscono.

-Se soltanto lo volessi, mi basterebbe poco per baciarla a questa distanza dalle sue labbra, ma non lo farò! Adesso voglio sapere! -

Chino il capo di fronte al suo.

< Non voglio baciarti > le sussurro lievemente.

< Cos'è? Adesso vuoi dirmi che mi ami? Saresti un pazzo da internare! >, fulminea, mi dà un colpetto al petto e il riso abbonda sulla mia bocca.

< Non ti amo, lo sai > contrattacco in questa battaglia.

< E allora? Lasciami! Ora! Eric, lasciami! > rialza le difese, tentando di respingermi, ma non è facile, perché non ho nessunissima intenzione di farlo.

< No! Voglio guardarti e vedere se queste lacrime sono vere, se sei davvero come dici di essere. Se questo moto di tenerezza è reale, adesso > termino e un'ansia sempre più prorompente e intensa mi assale.

-Mi interessa? Perché ci tengo così tanto a sapere se lei è davvero come appare, se è davvero diversa? -


Note:

A chi è giunto fin qui e ha apprezzato, invito a lasciare una stellina e a commentare, grazie :).

Cosa ne pensate dei rispettivi ERIC, SARA, ROSSELLA, ISABEL, JOHN, MARTIN?

IL KILLER? XD.


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