0. Prologo

Il vento soffiava per le strade deserte del villaggio, debolmente illuminate dalle fiaccole appese ai porosi e umidi muri di pietra delle case. Era una di quelle notti fredde e buie che portavano con sé un palpabile senso di inquietudine, e il fitto manto di neve che ricopriva il lastricato, sul quale erano impresse le orme di coloro che durante il giorno avevano vagato per quelle vie contorte, creava un'atmosfera quasi eterea. Persino la luna si era rifugiata dietro alla fitta coltre di nubi che brulicavano nel cielo privo di stelle, come se anch'esse si fossero silenziosamente sottratte, intimorite da una sconosciuta e malvagia presenza che incombeva su di loro. D'improvviso, il suono di un acuto latrato squarciò la notte. «I cani hanno fiutato qualcosa!» seguitò una voce, con tono grave. «Trovatela e prendetela, ma non uccidetela. Il re la vuole viva» rispose sbrigativamente un altro uomo, impartendo ordini con burbera praticità. Nello stesso istante, in fondo alla strada maestra, fece la sua comparsa un cavallo lanciato in una folle corsa. Il cavaliere che lo montava era una figura esile, coperta da un lungo mantello nero che ondeggiava nell'aria. Si aggrappava disperatamente al collo dell'animale, un maestoso destriero del medesimo colore della neve sulla quale battevano i suoi zoccoli, incitandolo ad andare più veloce. Una violenta folata di vento strappò all'indietro il cappuccio che copriva il viso della misteriosa figura, rivelando il volto di una donna dalle guance imperlate di lacrime. Era mortalmente pallida, con le labbra esangui contratte in una smorfia terrorizzata e gli occhi scuri come la pece sbarrati e arrossati per il pianto che le scuoteva il corpo, provato dalla fatica del parto. I lunghi capelli danzavano nell'aria agitandosi alle sue spalle, oltre le quali lanciò una breve occhiata per assicurarsi di aver seminato i propri inseguitori. Quell'attimo di distrazione le fu fatale.

Quando vide il cavaliere che le stava venendo incontro, strattonando senza pietà le redini della povera cavalcatura, era ormai troppo tardi. Ebbe appena il tempo di scartare bruscamente di lato, sbandando in un maleodorante e stretto vicolo secondario, contro la cui parete si abbatté. Quel movimento così improvviso fece spaventare il proprio cavallo, che allarmato si impennò con un nitrito, disarcionandola. La donna rotolò per terra con un gemito, battendo la schiena contro il duro lastricato con tanta violenza che per un attimo il respiro le si mozzò in gola. In qualche modo riuscì però a proteggere con le braccia il fagotto che celava gelosamente sotto al mantello, scorticandosi i gomiti nel tentativo di parare il colpo. Ma il suo corpo era già talmente indolenzito, pensò, che in fondo un livido in più non avrebbe fatto poi tanta differenza, specie dopo quella selvaggia cavalcata che si era rivelata un'insopportabile tortura. Stringendo i denti, si rimise faticosamente in piedi, constatando con sollievo che il suo aguzzino non aveva avuto la sua stessa prontezza di riflessi. Doveva infatti aver perso il controllo della propria cavalcatura, perché lo scalpiccio imbizzarrito degli zoccoli di quest'ultima si stava facendo sempre più lontano. Ma non c'era tempo da perdere. Si risistemò il cappuccio sulla testa e abbassò lo sguardo sulla neonata che, servendosi dello scialle in cui la levatrice l'aveva avvolta, si era assicurata al busto. Provò odio per quell'abominio che era cresciuto nel suo ventre, corrompendola inesorabilmente, ma ebbe allo stesso tempo pena di quell'essere venuto alla luce da poche ore e già segnato da un così tragico destino. Come un bocciolo ancora acerbo sarebbe stata recisa a causa di una colpa che in fondo non era mai stata sua, senza alcuna possibilità di riscatto. Sarebbe appassita prematuramente senza mai conoscere la felicità o il calore di una famiglia, piegata dall'incombente malvagità di una mondo del quale ancora ignorava le regole. Sempre che una creatura come lei potesse provarle, delle emozioni.

Ma la donna sapeva. Sapeva cosa realmente si celava dietro a quel viso paffuto e all'apparenza innocente; un mostro che avrebbe condannato l'umanità intera, se lei non avesse fatto qualcosa per rimediare al proprio errore. A discapito dei propri muscoli martoriati, si decise allora a muovere i primi passi con rinnovata determinazione, le gambe che minacciavano di cedere da un momento all'altro. Era scossa da forti tremori dovuti al freddo e alla stanchezza, e ardeva dal desiderio di lasciarsi semplicemente cadere a terra, come un burattino a cui avevano tagliato i fili, e rimanere docilmente a guardare mentre veniva catturata. Tuttavia, era consapevole del fatto che il compito di ripagare il proprio debito con la vita della creatura da lei stessa generata spettava a lei e a lei soltanto, e lo avrebbe fatto, a qualsiasi costo. Non si sarebbe tirata indietro, anche se ciò avrebbe significato vivere per sempre con le mani macchiate di sangue e dire definitivamente addio alla propria innocenza. Del resto, la colpa era esclusivamente sua. Sua, che per tutta la propria misera esistenza aveva stupidamente desiderato un principe senza macchia e senza paura, e aveva finito per concedersi ad un bugiardo che l'aveva ammaliata con le sue parole ed i suoi occhi magnetici per poi abbandonarla, lasciandola con un pugno di cenere tra le mani ed un cuore inesorabilmente spezzato. Ancora una volta, si maledisse nel sentire quest'ultimo sprofondarle nel petto al suo ricordo. Era stata una stolta; si era fatta ingannare dalla sua voce calda e suadente e dai suoi racconti di terre lontane e sconosciute in cui, le aveva promesso, l'avrebbe un giorno portata, e così, quasi senza nemmeno accorgersene, si era innamorata. Ma ora non le rimaneva più nulla, se non quella bambina maledetta, nata da una quanto mai sfortunata unione.

Accompagnata da quei pensieri cupi ed infimi, che la perseguitavano da quando il seme del loro amore aveva iniziato a germogliare nel suo ventre, aveva finalmente raggiunto il bosco che, sperava, le avrebbe concesso un rifugio, almeno per il tempo necessario a portare a termine la propria missione. Con il cuore che le batteva furiosamente nel petto si inoltrò tra la fitta vegetazione, lasciandosi avvolgere dal silenzio e dal buio che da sempre la spaventavano mortalmente. Si sentiva come una bambina, spaurita ed ingenua. E si odiava per questo, così come odiava l'artefice di tutti i tormenti che ora la affliggevano, colui che paradossalmente l'aveva resa felice come mai era stata in vita sua e che, nonostante tutto, ancora amava disperatamente. Con le dita accarezzò il freddo metallo del pugnale che portava celato nella manica, cercando di infondersi un po' di coraggio. Avanzava tremante tra quegli alti alberi che impedivano alla luce della luna di illuminarle il cammino, sobbalzando ad ogni minimo rumore e alito di vento. Più volte fu costretta a fermarsi, appoggiandosi senza fiato contro la corteccia scura degli alberi che assistevano come silenziosi spettatori a quella patetica scena, stringendosi su di lei e sul suo animo ferito e provato. Altre volte ancora i capelli o i vestiti le rimanevano impigliati tra i rami, simili a lunghe e contorte dita rachitiche che si allungavano per intrappolarla e graffiarle il volto, le braccia e le caviglie, strappandole a forza il mantello e poi la stoffa della veste bianca che indossava, lasciandola così a rabbrividire a causa del freddo che pareva essersi insinuato fin dentro le sue ossa, carezzandole malignamente la pelle. Poi finalmente, dopo quella che le parve un'eternità scandita da nient'altro che dal debole rumore del proprio respiro, una radura si aprì davanti a lei. Fece ancora qualche passo, quasi strisciando, dopodiché crollò carponi per terra, stremata. Respirando affannosamente, affondò le dita nella candida neve. Il freddo le bruciò la pelle, ma lei non ci badò. Era giunto il momento.

Sciolse lo scialle con il quale si era stretta al petto la neonata, rimasta stranamente avvolta in un innaturale mutismo per tutto quel tempo, e la poggiò sul terreno sotto al suo sguardo inquietantemente vispo ed attento. La donna avrebbe voluto sottrarsi da esso, mentre d'improvviso le sue certezze vacillavano. Si sentì mancare l'aria. Non poteva farlo, non se quella bambina all'apparenza così umana e indifesa la scrutava in quella maniera. Come avrebbe fatto ad uccidere a sangue freddo colei alla quale, volente o nolente, lei stessa aveva infuso il dono della vita? Un singhiozzo strozzato eruppe dalla sua gola, straziante e carico di dolore. Provò più volte a ripetersi che ciò che stava facendo era necessario, e che non l'avrebbe certo resa un'assassina, ma la verità era che non ci credeva nemmeno lei. «Mi dispiace» disse con voce spezzata, e quelle parole le raschiarono la gola arsa dalle lacrime. Esplose nuovamente in un incontrollato pianto disperato, avvolgendosi le braccia attorno al busto come a volersi abbracciare ed impedire ai minuscoli frammenti in cui la sua anima si era spezzata di disperdersi. Con le mani intorpidite dal freddo si aggrappò quasi convulsamente all'impugnatura del pugnale che aveva estratto dalla propria manica e che ora stava sollevando sopra la propria testa, tremando dalla testa ai piedi. «Mi dispiace, mi dispiace tanto...» continuò a ripetere come un mantra, chiudendo gli occhi per non essere costretta a guardare la neonata, sangue del suo stesso sangue. Li serrò con forza e voltò il volto di lato, cercando di mettere a tacere la voce della propria coscienza che le urlava che quella che stava prendendo era una decisione sbagliata, e che in fondo non era poi tanto diversa dal mostro che aveva dato alla luce. Con un ultimo urlo straziante, affondò il coltello. Dovette forzare per riuscire a vincere la resistenza delle ossa, rischiando che l'arma le scivolasse dalle mani intorpidite dal gelo, ma alla fine la lama scivolò nella carne con una fluidità disarmante. La neve si colorò di rosso ai suoi piedi. La neonata emise un flebile vagito, poi, finalmente, tacque. Era finita, si disse la donna, mentre un'altra lacrima le rigava la guancia. Da qualche parte alle sue spalle, un corvo gracchiò, alzandosi in volo e sparendo nella notte.

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