001

Potrei raccontare di tutte le sfumature delle foglie di questi alberi durante l'anno; di come siano verde fresco d'estate, ricche di vita; di come poi diventino sbiadite e malinconiche, trasformandosi lentamente in quel giallognolo zafferano che tinge tutta la strada come un sorriso ricco d'amore a un addio; di come infine cadano, marroncine, e si appoggino per terra con grazia, di come ricoprano il terreno scaldandolo come una coperta per neonati, per poi venire frantumate e schiacciate senza pietà dalle ruote dei carri. Ho infatti passato diverso tempo della mia esistenza così, seduto su una panchina, a guardare queste foglie. Ci avrei fatto quasi amicizia, avrei raccontato loro cosa accadeva nella mia piccola ed innocente testa, a quei tempi, se non avessi avuto quella costante consapevolezza che sarebbe stato inutile; che, di lì a poco, non sarebbero più state vive.

Non ci sono parole migliori per descrivere il mio stato d'animo attuale se non quelle di questa metafora, tanto vera quanto rammaricante.

Mi passo una mano sulla fronte, socchiudo gli occhi, respiro profondamente. Il freddo entra nella mia gola, la gratta con violenza, facendo scendere il gusto metallico del sangue nella mia trachea. Il gelo di fine autunno si infiltra ovunque, pur di toccare un millimetro in più della mia morbida e tiepida pelle. Rabbrividisco. So di non dover rimanere qua ancora a lungo, ma ormai ho l'impressione di non poter più muovere un muscolo.
Un altro respiro. Mi faccio forza, serro le labbra per non sputare sangue. Stringo di più la coperta sulle mie spalle, che si infila sotto la mia chioma crespa e riccioluta. Una ciocca di capelli bruni mi cade davanti agli occhi, ma non ho la forza di tirare fuori una mano e spostarla: già tenendola al coperto ho l'impressione di non sentirla più.
"Manca poco" mormoro, e, proprio dopo aver riaperto la bocca, i miei denti riprendono a battere forte. Ho dolori ovunque. Alzo gli occhi al cielo, guardo quelle piccole luci che lo bucano nel buio della notte. Nessuno mi aveva mai detto cosa fossero fino a meno di un anno fa. Nessuno si era mai posto quella domanda, almeno non apertamente. Un corpo celeste maggiore sovrastava le altre lucine, sembrava quasi guardarmi. Nessuno di 001 ha mai pronunciato il nome di esso.
Era una delle cose che avevo scoperto dopo essere diventato uno dei Custodi.

"Che buffa, questa usanza" pensai, quasi sorridendo per il ridicolo. La maggioranza della popolazione del nostro pianeta vive – sempre che si possa dire che viva – senza sapere letteralmente nulla sul perché abbiamo dei principi, sul perché abbiamo dei limiti e non possiamo viaggiare oltre i nostri confini, sul perché è tutto studiato per farci vivere come loro vogliono. E noi Custodi, fortunato o sfortunati secondo i diversi punti di vista, siamo stati scelti per sapere, al contrario, ogni minima cosa.
Per tutta la mia vita mi sono sempre sentito da meno rispetto a tutti coloro che conoscevo, e, nonostante questa baggianata dei prescelti di ogni generazione, la mia sensazione non cambia. Mi sembra semplicemente tutto un'enorme, dannatissimo scherzo ideato dai Capi. Potranno avermi spiegato ogni cosa, ma, al contrario di quel che avrei mai pensato, ora è tutto solo molto, molto più confuso.

Non importa, però. Ormai non sarà a lungo. La ribellione inizierà a momenti. "Non manca tanto", mi ripeto di nuovo, più per convincermi che per altro. Ora devo solo aspettare il segnale, che vengano a prendermi, che scappiamo.
"Non manca tanto".

***
Terzo giorno del terzo mese, anno 333 d.S.
***

- Michael? Forza, canta anche tu! Insomma, cosa ti prende? –

La voce irritata di mia madre mi risveglia dai miei pensieri. Alzo gli occhi. Tutti attorno a me hanno sorrisi tirati, cantano, suonano, vestiti di tutto punto, eleganti. Le feste, nel Mondo 001, sono sempre tutte, ugualmente e mortalmente, noiose, di anno in anno. Nulla cambia, né la temperatura all'esterno, né i pasti da mangiare, né le decorazioni appese in giro nei paesini; così è anche ogni giorno da quando chiunque abbia memoria. Una triste monotonia, uno dei motivi che rendono la mia esistenza molto più difficile da portare avanti. "Non puoi metterti la camicia di tua sorella, Michael! Che idea sciocca!", "Certo che no! Devi provvedere, trovarti una ragazza, iniziare a mettere su famiglia! Oh, Michael, non puoi andare avanti senza nemmeno badare di striscio a nessuna delle tue compagne!", "Devi fare sport, essere atletico, giocare con gli altri ragazzi della tua età e fare le cose da maschio, Michael, hai capito?"
Michael, Michael, Michael. Sempre gli stessi ritornelli da quando sono nato. Sempre tutto, dannatamente, uguale.

"Almeno," penso, "oggi mi viene affidato il mio Compito. Magari qualcosa cambierà, anche se... no, mi starò illudendo" concludo, ripensando al triste impiego di mia madre come sarta e a quello di mio padre come operaio in fabbrica.
E invece capiterà tutto il contrario.

Dopo aver affrontato la rabbia e la delusione della donna di casa, trovo una scusa per tornare in camera. Quasi riesco a sentire i rimproveri dei miei parenti, i loro rumorosi pensieri tradizionali e rigidi: "La delusione della generazione", "La pecora nera della famiglia", "Un maschio così poco... maschile, che vergogna". Si fanno problemi per ogni cosa. Non posso forse vivere la mia vita e basta?

Dopo aver navigato per un tempo indeterminato tra i miei pensieri, qualcuno bussa alla porta. È mia sorella Marianne. Scendo le scale dopo di lei, tutti stanno uscendo. Mi infilo cappotto, berretto e sciarpa, tutto in tinta beige chiaro, nonostante non ci sia molto freddo fuori – è già quasi primavera, nonché l'anniversario della mia nascita. Il dì del proprio diciottesimo compleanno, infatti, tutti gli abitanti di 001 ricevono il proprio Compito; in seguito studiano nei rispettivi Istituti per cinque anni e, all'età di ventitré anni, iniziano a lavorare; infine, alla simbolica età di trentatré anni, tutte le dame di 001 prendono marito, e tutti i nobili gentiluomini prendono moglie. Sempre tutto, meccanicamente, uguale.

Ci dirigiamo in carrozze da dieci persone verso il palazzo centrale del nostro piccolo paesino. La vita sembra iniziare a sbocciare di nuovo, come ogni anno, attorno a noi. Mi perdo con gli occhi fuori dal finestrino appannato, senza degnare di uno sguardo i miei parenti, che, al contrario, mi fissano contrariati.
"Non mi importa", decido. 

Arriviamo, scendiamo dalla carrozza, e mia madre blatera qualcosa con tono severo, sistemandomi qua e là colletti, tasche e pieghe che erano già perfette. Entriamo. È la prima volta che metto piede in questo posto. È triste, freddo, tutto grigio, ma, soprattutto, molto più all'avanguardia e moderno di tutti gli altri nel nostro Mondo. Non è fatto di mattoni e legno, anzi, è interamente di marmo e vetro, elegante, pulito e tremendamente freddo anche solo alla vista. I miei parenti vengono fermati all'entrata, mentre due guardie si posizionano ai miei fianchi e mi guidano attraverso una porta alta e interamente di ferro, senza proferire parola. Nella stanza nella quale mi ritrovo, non c'è nessuno. Le guardie escono.
Rimango solo; così tanto, che sento il mio respiro rimbombare sulle pareti lisce e lucide.

Faccio per voltarmi e chiedere aiuto, o almeno dire che hanno sbagliato posto, che sono lì per errore, quando compaiono improvvisamente tantissime figure lungo la parete curva davanti a me. Non sembrano in carne ed ossa, però: tremano, vanno a scatti, e, soprattutto, sono luminose. Per un attimo non respiro. La luce che proviene dal soffitto rotondeggiante mi abbaglia; riesco a trovare il coraggio di riaprire le palpebre diversi secondi dopo.

- Come...? - mormoro, ma della mia voce esce solo un flebile sospiro.

- Benvenuto Michael, Custode prescelto di 001. –

Di poche cose sono stato sicuro nella mia vita. Una di queste è il fatto che questa voce non sia, in alcun modo, umana. Somiglia ad un freddo e distaccato eco severo di moltissime voci; non riesco infatti a capire se sia maschile o femminile, se sia morbida o rigida, graffiata o gentile.

Conto le figure: trentatré. Cominciano a parlarmi. Mi dicono che sono stato scelto poiché il primo nato nel giorno di oggi di diciotto anni fa, e che sono fortunato, perché sono l'unico dei numerosissimi ragazzi di 001, e quindi anche uno dei pochi dalla Separazione. Mi dicono tante cose, parole gonfie di complimenti e significati, messi lì per circostanza, per seguire il protocollo. Mi viene spiegato che il mio Mondo è solo uno di tanti, che ogni Mondo è estremamente diverso. Dopo questa affermazione, schiudo le labbra per chiedere spiegazioni del motivo, ma non trovo il coraggio per parlare.

La voce, per la prima volta, fa una pausa. Ho tutti i nervi tesi. Non capisco se questo sia un bene o un male, o cosa tutto questo significhi. "Perché? Perché vogliono che qualcuno sappia queste informazioni? Non ha senso" penso, mentre vedo la figura centrale, ovvero quella con sedici a destra e sedici a sinistra, sollevare le sue mani verso l'alto.
Un'altra voce, più umana e grave della precedente, rimbomba nella stanza, pronunciando parole delle quali non conosco il lontano significato. Non so che lingua sia, o se sia una lingua, ma mi fa rabbrividire. Mi stringo nel cappotto, ancora talmente confuso da non capire cosa stia succedendo, ma vivendo passivamente il tutto per non agitarmi.

- Bene, Michael di 001. Ora sei un Custode. -

Sono le ultime parole che avrei mai sentito all'interno di quella stanza.

***

- Ehi, tu! Sei il Custode, giusto? –

Mi risveglio dal torpore che mi aveva presto nell'attesa. Ho sognato, per l'ennesima volta, il giorno del mio diciottesimo compleanno. Il solo pensiero dei Capi mi fa venire una fitta di dolore al cranio.
Apro faticosamente le palpebre, e mi ritrovo davanti al mio un viso aguzzo e spaventosamente grazioso, almeno quanto nuovo a me. Solo pochi centimetri separano il suo naso elegante dal mio, e riesco a vedere il vapore dei nostri respiri che si mescola dell'aria gelida.

- Allora? –

Annuisco, debolmente. L'altro fa lo stesso, poi si allontana da me, rialzandosi, e mi porge una mano per alzarmi. L'afferro. È forte, calda, e decisamente più grande della mia, nonostante l'età sembri la stessa. Mi tira su con così tanta forza che il mio naso va a premere sul suo petto, e mi sento morire d'imbarazzo. Faccio subito un passo indietro, e finisco per inciampare nella panchina. Riesco all'ultimo a trovare una posizione stabile, risistemo la coperta sulle mie spalle con noncuranza, per non dare a vedere il disagio che mi brucia le guance.

- Dobbiamo muoverci. Seguimi. –

La sua chioma, corvina e ribelle, è il soggetto sul quale concentro la mia attenzione per almeno una ventina di minuti. Ogni tanto, la sua voce profonda mi dà indicazioni, e io le eseguo senza battere ciglio. Non è il momento per sembrare debole o insicuro. Non ora che ho la possibilità di cambiare qualcosa di questa orribile monotonia nella quale ho sempre vissuto.
Ogni tanto mi fermo a tossire, e spesso, per un attimo o due, rimango ad osservare imbambolato il caldo e scuro sangue nel terreno umidiccio. La voce del ragazzo, però, mi risveglia prontamente dai miei pensieri ogni volta.

Dopo diverso tempo di corsa, giungiamo al confine dove finisce il territorio di 001. Non che io l'abbia mai visto, ma lo intuisco dall'infinita muraglia di filo spinato e mattoni che pare insormontabile. Faccio per fermarmi, sbalordito, quando il ragazzo di non so quale Mondo procede con sicurezza lungo il muro, e io lo seguo a sua volta. Cercando di stare al suo stesso passo, raggiungo poco dopo di lui un piccolo spiazzo, dove mi fermo a prendere fiato. I miei occhi scorrono sul grigio triste dei mattoni, e si fermano su una porticina di ferro arrugginito quasi invisibile.

- Ci sei? –

Annuisco, mentendo. Devo essere all'altezza della situazione, nonostante i numerosi dubbi che mi sormontano, a partire dalla domanda "perché proprio io?". Insomma, questo ragazzo sembra molto più qualificato in tutto. È alto, sveglio, sicuro di sé, e decisamente più mascolino e migliore di me. Mi accorgo di essermi incantato con i miei occhi dai suoi, di un marrone intenso tanto da sembrare morbida e dolce cioccolata calda, per cui tossisco, abbassando lo sguardo, e lo sento allontanarsi attraverso la porticina. Lo seguo in silenzio.

Non so ben dire cosa vedo nei seguenti, numerosi minuti, poiché è tutto buio e freddo; non come le notti di fine autunno a 001, ogni anno precisamente uguali, bensì di un freddo diverso, più secco e penetrante, che sembra scavarti nelle ossa con l'intento di staccarti gli arti, a partire dalle fragili dita, delle quali non ho più sensibilità.
Non so nemmeno dire quanto tempo passa. So solo che quando arriviamo a quella piccola, graziosa capanna inizia ad albeggiare.

Entriamo. È pieno di ragazzi della nostra età, qualcuno di poco più grande, pochissimi invece sono già molto maturi. Vedo diverse ragazze che si sostengono l'una l'altra in un angolo, coprendosi con poche coperte e mormorandosi parole. Ci sono poi molti individui che cercano calore e conforto vicino al fuoco o a qualche stufa, coprendosi con giacche, coperte e qualsiasi cosa trovata nei paraggi. In molti si voltano verso di me, facendomi sentire a disagio. Sento qualcuno mormorare qualcosa come "Ah, è arrivato lo 001".
Subito qualcuno mi lega una bandana al braccio destro. La guardo. È di colore blu scuro, come la notte che fino a poco fa mi circondava.

Come una notte senza stelle. 

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