L'ultimo canto

Avete presente il pianto della disperazione? 

Iniziai a sentirlo tutti i giorni. 

Ero stremata  e allo stesso tempo non mi sentivo abbastanza forte psicologicamente e fisicamente per reagire a tutto questo. Vivevo in un limbo oscuro, sopravvivevo.

Il mio volto cambiò in breve tempo. La pelle consumata mi fece sembrare più vecchia di dieci anni e la poca pulizia assieme a tutto il resto fecero la loro parte. Mia figlia anche sembrava più grande di quei quindici anni che portava. Somigliava a una ventenne consumata, questo eravamo, consumate come due fegati spappolati. Non avevamo più forze per tirare avanti. 

Di quei giorni ricordo ancora meno. Credo di averli voluti cancellare incoscientemente, passavamo tutti terribilmente uguali. 

Ormai ad ogni scoppio di bombe nemmeno ci riparavamo più sotto il letto. Non davamo più peso alla vita o alla morte, erano perfettamente bilanciate.

Vivevamo con la morte nel cuore. Saremmo potute morire con la vita strappata da una bomba che poco ci sarebbe importato. Anche se non ho mai pensato di uccidermi, devo dire che il desiderio di farla finita fu più grande di quello di vivere. Alcune voci sempre più insistenti, riportavano quello che i soldati facevano alle donne ed era davvero mostruoso soltanto ascoltarlo. Io e mia figlia mai saremmo volute esser schiave dei nostri aguzzini, mai e poi mai. Non l'avrei permesso.

Ricordo una delle ultime volte che le parlai.

Eravamo sdraiate su due letti separati. Sapevamo che ormai i giorni della caduta era sempre più vicina. Se all'inizio si parlava di mesi, in quel periodo specifico si parlava di settimane, forse giorni. Ricordo che mia figlia tossì per qualche istante, si stava ammalando di malessere, di mal di vivere.

«Raisa dobbiamo farci forza! Non possiamo continuare così.»

Lei nemmeno mi guardò, rispose soltanto.

«Scappare dove e da cosa? Siamo già morte mamma... Siamo già morte.»

Ricordo che il signor Sobolev era davvero molto agitato in quei giorni. Un giorno mi disse che dovevamo provare a scappare visto che il nemico era alle porte. Ritrovai per un momento quella forza che sembrava consumata. Mi avvicinai a Raisa che stava come ormai succedeva troppo spesso, sdraiata sul letto.

«Alzati, dobbiamo fuggire!»

Non rispose.

«Raisa, mi hai sentito?»

Mi guardò.

«Non esiste fuga mamma, l'unica fuga possibile è la morte. Non possiamo più decidere come vivere ma possiamo decidere come morire.»

La tirai su con tutta la forza che avevo. Si dimenava e strillava. Non aveva nessuna voglia di venire via.

Afferrai quel poco cibo che avevo messo da parte e una coperta. Tirai giù mia figlia da quelle scale fino al portone. Una volta giunta nella parte esterna del palazzo, vidi il signor Sobolev che ci aspettava con sua moglie all'interno di una piccola automobile.

Corsi verso l'automobile sotto un'incessante bombardamento aereo. Non so come facemmo a non esser colpiti. A pochi passi dall'auto, però, mia figlia strappò la sua mano dalla mia e si mise a correre nuovamente all'interno del palazzo. Non so perché lo fece ma vidi chiaramente che aveva paura. Non era paura di morire, ma di come morire.

Corsi nuovamente all'interno del palazzo sotto le urla dei Sobolev che mi pregavano di sbrigarmi, visto che anche loro avevano intenzione di scappare dall'inferno che presto sarebbe arrivato. Per quanto spie, non avrebbero mai potuto convivere con il nemico. Corsi con quanto più fiato avessi in gola e nei polmoni. Mia figlia si chiuse dentro casa ed io iniziai a prendere a pugni quella porta facendomi sanguinare le nocche della mano. Anche la gola iniziò a sanguinare dalle urla, sentivo un sapore metallico in bocca.

Nella confusione di quelle bombe e quelle urla, mi ritrovai senza accorgermene, il signor Sobolev alle spalle. Prese un oggetto pesante e spaccò la maniglia della porta dandomi la possibilità di entrare. Io temevo un gesto estremo da parte mi figlia, non so spiegarvi il perché, ma credo che ci siano momenti in cui una madre riesca a percepire i pensieri di una figlia e io lo sapevo che avrebbe tentato il suicidio anche lei, lo sentivo.

Passarono soltanto dieci minuti da quando mia figlia si chiuse in casa, dieci minuti che le bastarono per volare via.

S'impiccò.

La trovai in corridoio che ciondolava appesa al lampadario. Aveva grosse lacrime che scendevano sulle guance e la lingua di fuori. Ricordo solo che in preda a un dolore indescrivibile quanto inimmaginabile, mi accasciai a terra priva di sensi. Mi risvegliai qualche tempo dopo. Io e la famiglia Sobolev eravamo miracolosamente riusciti a scappare, a farcela andando oltre confine nel giro di una settimana. Nascosti come topi e in condizioni indicibili.


Non esiste giorno che io non passi le mie nottate sveglia a ricordare i loro volti,

le loro parole.


I pianti e le urla della mia bambina... delle sirene.


Le sirene di Gorordtsvetov se ne andarono così.

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