Il mutismo delle sirene

«Siamo le sirene!»

Urlava mia figlia correndo divertita per quel buco di stanza, battuta dalle cuscinate e dagli schiamazzi divertiti di Svetlana e Irina.

«Siamo le sirene di Gorodtsvetov!»


Ricordo un giorno in cui vidi Svetlana piangere. Teneva tra le mani la foto dei suoi genitori.

«Vedrai, staranno bene. Li avranno catturati e messi in un posto lontano, ma sono sicura che stanno bene.» Mentivo spudoratamente a lei a me, a tutti.

Svetlana mi guardò con gli occhi di chi sapeva che non era vero, del resto aveva sedici anni, non era più una bambina. Non era più la bambina di una volta... si cresceva in fretta in quei giorni.

Non sapendo che fare presi una spazzola e le pettinai quei suoi lunghi capelli castano chiari. Appoggiò la testa sul mio ventre e chiudendo gli occhi non proferì una parola.

Anche io rimasi in silenzio, colpevole della mia bugia a fin di bene, ma anche perché non c'era molto da dirle.

Come colmare il dolore chi non ha altro che quello? Non eravamo più esseri umani, eravamo parte vivente di un appartamento ormai fatiscente.

Lo stesso giorno scoprì che Irina aveva tentato di tagliarsi le vene con un vecchio rasoio che usavo per depilarmi le gambe nella doccia. Era di per se una lametta vecchia, ingiallita e consumata.

Quella volta capii veramente come stavano le cose. Che dietro alle loro rarissime risate si nascondeva un malessere generare che andava giorno dopo giorno peggiorando.

La fortuna fu che si fece solo dei piccoli graffi che riuscii a medicare con della carta ed un disinfettante, anche se notai altre vecchie ferite. Non fu la prima volta.

Capendo che qualcosa mi stava scivolando dalle mani, viste le continue preoccupazioni nel tirare avanti la baracca, un dubbio mi persuase la mente. Mi avvicinai a mia figlia e Svetlana, avevano lo sguardo basso di chi sapeva. Erano complici di qualcosa che io non conoscevo. Compresi immediatamente che non sapevo tutto di loro, che non conoscevo quella parte tetra e oscura che viveva al loro fianco e decisi quindi di trasferirmi nella loro stanza. Occupai il posto di Oksana, per poterle controllare più da vicino. Credevo di poterlo fare, lo speravo, ma mi sbagliavo.

Una notte sentii un urlo che mi svegliò di soprassalto.

Dormire profondamente non era di certo facile in quei giorni ma quell'urlo lo sento ancora risuonare nella mia mente.

Mi alzai in fretta e furia e corsi fino al bagno dove trovai Raisa, mia figlia, con gli occhi spalancati e le mani davanti alla bocca. Sembrava come paralizzata.

Svetlana, che nel frattempo si era svegliata anche lei, ci raggiunse. Le dissi di allontanare Raisa e così fece, come se già sapeva o meglio immaginava.

Entrai nel bagno con la paura di guardare, con il terrore di vedere ciò che i miei occhi non volevano sapere.

All'appello mancava Irina, la più grande delle tre. Mi feci forza e mi affacciai con un vuoto nello stomaco, ma non era la fame in quel caso, era la paura, l'orrore di guardarci dentro.

Il corpo d'Irina giaceva dentro la vasca da bagno con l'acqua fino alla gola.

Il colore dell'acqua era rosso, come rossi erano quei tagli che profondi. Si mostravano in bella vista su quel braccio che sporgeva fuori dalla vasca.

Lo aveva fatto.

Si era tolta la vita nell'unico modo possibile che conosceva. Lo aveva fatto nell'unico momento possibile la quale io non le sarei potuta stare vicino.

Il male di vivere la prese e se la portò via, la portò via da me e dalla guerra.

La portò dove più nessuno poteva farle del male, perfino da se stessa.

Dissi a Svetlana di chiamare il portiere. La voce mi tremava. 

Vidi mia figlia buttata sul letto a pancia sotto che piangeva.

Chiusi la porta del bagno alle mie spalle e mi avvicinai ulteriormente al corpo senza vita della giovane.

Anche lei come Oksana aveva una placida espressione.

Quegli occhi chiusi la facevano sembrare assopita, addormentata.

Non usò quella lametta per uccidersi, la feci sparire tempo prima, come non usò nessun tipo di oggetto appuntito nella casa. Nascosi tutto proprio per la paura che potesse accadere tutto questo.

Al fianco della vasca trovai un lungo e appuntito pezzo di vetro. Non so dove l'abbia preso. Probabilmente lo trovò a terra durante una di quelle rare uscite vissute in giardino e lo portò in casa.

La sera antecedente a quel tragico epilogo ricordo che era particolarmente felice.

Non era un buon pasto come ormai non ne vedevamo da mesi, eppure, lei sembrava apprezzare. Il suo buonumore ci rapì a tutte, tanto da essere ricordata come la cena più divertente di quel periodo. Si mise a fare le facce buffe a Raisa, che ridendole le tirava delle palline di carta. Fui davvero felice anche io quella sera, tanto quanto mi disperai la notte che venne.

Mi sentivo tradita, svuotata.

Mi sentivo come lei:

Morta.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top