CAPITOLO XXII - LA FORTEZZA DI ELEA

Titus passò il dorso della mano lungo la fronte ancora madida di sudore, la loro fuga da Utopia era stata folle e precipitosa. Circondati da un cerchio di alberi, giacevano esausti nel tentativo di riprendere fiato: era un miracolo che il vecchio, alla sua età, non fosse rimasto indietro.

Attraverso le foglie un raggio di sole fece capolino nel cielo grigio: era giunta l'alba. Anche da quel luogo così distante, Titus riusciva ad intravedere oltre le cime degli alberi i merli delle grigie mura della città di Elea: così grande e massiccia che non esisteva modo attraverso il quale un uomo potesse contemplarla per intero, in un unico sguardo.

«Ci avete salvato, vi ringrazio» esordì la donna dai capelli ricci, tirandosi a sedere.
Lo sguardo di Titus andò da lei alla Cecrope, dalle squame nere.
«Salvare qualcuno in pericolo è negli obblighi di un cavaliere» rispose l'Avis, serio «piuttosto non capisco perché ti sei portata dietro quell'essere» continuò, facendo cenno alla rettile.
La donna esitò a dargli una risposta, ma la Cecrope prese parola al suo posto «Ero stanca di questo genocidio, i mie simili evidentemente non hanno compreso le mie remore».
«Mi dispiace, ma tu e la tua razza mi avete dato più di un motivo per non fidarmi di nessuno fra voi» replicò Titus, mettendo mano all'elsa della sua spada.
A quel punto Vanni gli assestò un deciso pugno sulla spalla, facendo vibrare l'acciaio dell'armatura «Mio signore, è disarmata ed è evidente che le sue intenzioni non siano ostili».
Titus digrignò i denti, mentre nella sua testa si facevano largo le immagini dei massacri a Corfini e sotto la rocca di Utopia.
Forse Vanni aveva ragione, eppure... poteva perdonare qualcosa del genere, anche a fronte di un pentimento?
«La tua scudiera ha più sale in zucca di te, caro il mio aspirante cavaliere. Se avessi osservato con più attenzione ti saresti accorto che per difendere la ragazza, Neraserpe è stata pronta a uccidere altri Cecrope» gli occhi del vecchio incrociarono per un istante quelli della bambina, per poi volgersi alla rettile.
«Mi fido del tuo giudizio, Ianus» sospirò il ragazzo.
«E fai bene» rispose l'anziano «ma la domanda che più mi preme è quale sia l'obbiettivo dei Cecrope, perché abbiano iniziato questa guerra».
La donna-rettile abbassò il capo, per poi sondare con un'occhiata ciascuno dei presenti, le sue dita si intrecciarono le une alle altre, strofinando le palme squama contro squama.
«Immagino che tutti voi conosciate l'origine dei Cecrope... siamo discendenti dei Driadi le cui comunità erano state disperse, i cui simboli sacri furono distrutti dagli uomini. Molti fra noi, dovete sapere, non hanno dimenticato quell'oltraggio: nell'ultimo thig un Cecrope di nome Basilisk ha fatto valere la sua ambizione: radere al suolo la città di Elea».
La cosa suscitò un moto di ilarità generale, solo Ianus e la bambina non sembrarono affatto divertiti.
«E come intendono fare?! La Capitale è impenetrabile» esclamò Titus, incrociando le braccia dinanzi al petto.
«Anche al fuoco di drago?» incalzò la Cecrope, lasciando sui volti della compagnia un'espressione incredula.
«Ma i draghi sono estinti da millenni» protestò Vanni, tirandosi in piedi.
«Già» continuò Neraserpe «ma alcune gocce del loro sangue scorrono ancora nelle nostre vene, come scorrevano un tempo in quelle dei Driadi. In tempi più antichi esistevano artefatti, oggi per la gran parte perduti, in grado di risvegliare quel potere. Si da il caso che Basilisk sia entrato in possesso di uno di questi oggetti e che abbia appreso come utilizzarlo».
Un lungo minuto di silenzio calò fra tutti loro, Titus trovava difficile credere a quella storia: era semplicemente assurda. Eppure se al mondo poteva esistere un essere potente come Samael, era poi tanto implausibile che cose anche più grandi e potenti si celassero al di là della sua comprensione? Verità o menzogna, la minaccia dei Cecrope era lì, pronta a rivoltare il mondo che l'aspirante cavaliere aveva sempre conosciuto e amato. Se c'era anche una minima possibilità che la Capitale potesse cadere, i Reali dovevano essere assolutamente avvisati della cosa.
In uno slancio Titus si erse in tutta la sua stazza.
«Trovate Orlando, non può essere andato troppo lontano. Ci rivedremo ad Elea» esordì, poi con un dito indicò la Cecrope «Tu, verrai con me».

Mai in tutta la sua vita l'attempato ronzino aveva galoppato con tanta foga, il suono del suo respiro si confondeva allo sfuriare degli zoccoli contro il lastricato. Alla sua destra e alla sua sinistra Titus vide il verde scorrere come un'unica massa indistinta, intorno al ventre poteva sentire le braccia di Neraserpe, stretta a lui.

Elea si fece largo nel suo campo visivo in tutta la sua maestà: le mura erano alte come torri di un castello, e ogni centimetro di roccia di cui erano composte recava in bassorilievo figure di uomini che si arrampicavano gli uni sugli altri, tendendo le braccia verso i merli piombati e il cielo oltre di loro. Sotto il sole brillavano le punte degli scorpioni e i finimenti delle catapulte disposte a difesa contro eventuali invasori.
Passare attraverso i corpi di guardia fu come attraversare per tre volte una scura notte artificiale. Le strade principali della città, superata l'ultima galleria, si stagliavano dinanzi a lui: avrebbero potuto ospitare duecento robusti uomini a cavallo, disposti a schiera. No, Elea non era una città concepita a misura d'uomo, essa era edificata per accogliere giganti.
Al centro di tutto, fra i palazzi di pietra argentea e la Cappella del Sol Invictus, si ergeva il castello Reale: una fortezza interna alla fortezza, alta almeno il doppio delle mura esterne, con forme squadrate su cui svettava il vessillo della Corona Dorata in campo bianco, simbolo degli Orimberga.
Due guardie in armatura completa gli bloccavano il passo, intimandogli di scendere dalla cavalcatura, propugnando le lance.
«Voi non fate parte della Corte, non potete passare senza l'esplicito invito del Re o di un suo rappresentante» lo ammonì uno degli armigeri, lanciando un'occhiata di sottecchi alla Cecrope.
«Io sono Titus, della casata Avis, vincitore del torneo di Biancareggia. E fidatevi della mia parola quando vi dico che il Re vorrà sentire quanto ho da dirgli. Le informazioni in mio possesso riguardano i recenti attacchi ai danni dei villaggi e la caduta di Utopia, la città beata».
Asserì il ragazzo, con voce ferma, facendo quanto in suo potere per contenere l'ansia che gli rivoltava le viscere. Le guardie si scambiarono una breve occhiata e lo invitarono ad attendere, mentre una di loro svaniva oltre il portale d'ingresso. Titus approfittò dell'attesa per contemplare la Cappella del Sol Invictus, costruita a nord-est del castello: una cupola di marmo venato d'oro, sotto il cui guscio si celava la sede ufficiale dei quattro massimi paladini del Culto, tanto potenti da sorpassare qualsivoglia essere umano o creatura in tutta Clitalia.

La guardia tornò con due bende di tessuto nero. Le fissò sugli occhi di Neraserpe e di Titus, per poi condurli entrambi lungo l'intrico di scalinate e corridoi del castello. Titus ebbe la sensazione di aver camminato per un'intera mezz'ora, quando finalmente i suoi occhi tornarono a vedere. Di fronte a sé, su un piedistallo di marmo bianco, c'era un trono dai paramenti d'oro, istoriato di gemme rosse. L'imbottitura di velluto rigonfio conservava ancora le forme di un corpo che non doveva essere stato troppo massiccio. Di quel corpo tuttavia non c'era traccia.
Due sedili di più modesta fattura erano posizionati ai lati dello scranno: uno ospitava una bambina dai brillanti occhi azzurri, mentre il primo era occupato da un giovanotto con forse qualche anno in meno di Titus, con una barba rossiccia e i capelli chiusi in un alto codino.
L'aspirante cavaliere si inginocchiò, non osando indugiare oltre con lo sguardo su quelle due figure.
«Quale umile vostro vassallo, io vi porgo i miei omaggi principe Alfonso e principessa Cassandra».
«Alzati, Avis, e parla liberamente. Mio padre, il Re, è indisposto, ma io e mia sorella saremo ben lieti di ascoltarti».
Il Principe Alfonso parlava con il cipiglio proprio di un sovrano, le sue imprese nelle guerre ai briganti avevano echeggiato per tutto il Regno.
Titus lasciò che fosse Neraserpe ad esporre i fatti, mentre lui si limitò a raccontare le evidenze cui aveva assistito con i suoi stessi occhi.
«Stento a credervi, i vostri mi sembrano più che altro racconti di fantasia. Utopia non può essere caduta» disse Alfonso, senza scomporsi, alla fine dei loro discorsi.
«Mio dolce fratello» intervenne Cassandra «poco è noto degli incanti propri dei Cecrope, ma abbiamo avuto numerose richieste di aiuto da parte di altre città e i nostri rifornimenti di grano risultano drasticamente ridotti. Se non fosse stato per i commerci oltremare, non avremmo potuto contenere il principio di una carestia. Inoltre, dalle parole di questo ragazzo, deduco vi possa essere un'alleanza fra gli strigoi e i Cecrope, un'eventualità che non dev'essere assolutamente sottovalutata».
«E se si sbagliasse, mia dolce sorella?» incalzò il principe.
Gli occhi della bambina affondarono in quelli di Titus, con viva curiosità «Allora avremo mobilitato invano i nostri eserciti, e la casata Avis pagherà il prezzo della menzogna con la confisca delle sue terre e del suo titolo».
Titus ingollò un boccone di saliva.
«Così sia, dunque» sentenziò il principe «Voi, Avis, sarete sotto il mio diretto comando. Sulle vostre spalle peseranno le vostre azioni e quelle della Cecrope che vi accompagna. Mi auguro per il bene di entrambi che siate giunti fin qui in buona fede».

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