CAPITOLO XIX - LA CITTÀ BEATA

Il mattino dopo Titus fu risvegliato dai passi di Ianus, di ritorno dalla sua nottata tutta dedita allo studio delle pergamene. L'aspirante cavaliere si accorse solo allora di essersi addormentato accoccolato al corpo caldo di Vanni, e fu con una ben poco aggraziata delicatezza che si divincolò da quell'abbraccio, lasciandola a riposare ancora per un po'.
«Vestiti, ragazzo, devi continuare il Cammino e questo» indicò i vestiti sparsi per l'accampamento «non credo sia annoverabile fra le tue nobili imprese».
L'Avis arrossì, inforcando i calzoni.
«Io, ecco, non so cosa sia successo» farfugliò, senza neanche avere idea del perché stesse cercando giustificazioni.
«Certo, non sai com'è successo» sghignazzò l'anziano «taci, va».

Il giovane sospirò, rendendosi conto solo adesso di quanto le sue parole mancassero di senso. Dato che c'era, tanto valeva accomodare il necessario per una sostanziosa colazione: continuò il lavoro interrotto la sera prima, spellando e disossando i conigli, per poi riporre la carne buona in una pentolaccia e metterla sul fuoco. Ne sarebbe venuto fuori un ottimo stufato! L'odore della minestra solleticò forse il naso della scudiera, che schiuse gli occhi con pigrezza.
«Uhm?» mormorò, con la voce arrochita dal sonno e la coperta tirata a coprire i seni, poi i suoi occhi incontrarono quelli del vecchio e lei parve riaversi tutta insieme «Ianus, io- non è come pensi».
L'anziano alzò lo sguardo al cielo «Non è affar mio cosa fate con i vostri corpi o come vi divertite. Tutto ciò che desidero adesso è andarmene di qui, questo salice mi ha stancato».
«Stamattina sei più scorbutico del solito vecchio mio, eh?» osservò Titus, ridendosela sotto i baffi. Lo schiaffo sull'orecchio che ricevette subito dopo gli tolse tuttavia ogni traccia di sorriso dalla faccia.
«Ahia! Mi sta fischiando...» si lamentò.
«Ottimo, adesso usa l'altro per starmi a sentire: dove intendiamo dirigerci?» incalzò Ianus, bagnandosi appena le labbra con il sughetto.
«Non capisco tutta questa fretta» bofonchiò Titus, massaggiandosi lì dove aveva ricevuto la botta.
«La cosa non mi sorprende» sospirò «ho il sospetto, più che fondato, che l'attacco a Corfini non fosse un caso isolato».
«Cosa te lo fa pensare?» chiese Vanni, infilandosi il giustacuore.
«I Cecrope non avevano motivo per assaltare un villaggio così povero di ricchezze, per quanto ricco di vettovaglie: ve li ricordate gli abitanti? Troppo umili per conservare per sé oro e gioielli».
Titus ci rifletté sopra per qualche secondo «Forse hai ragione... ma cosa pensi che fosse allora?».
L'espressione di Ianus si fece tetra «Cosa penso che fosse? L'inizio di una stramaledetta guerra, ecco cosa! Se il mio intuito funziona ancora come una volta, e lo fa, dovremo fare molta attenzione alla nostra prossima meta. Le armate dei Cecrope saranno già in marcia».

Era un pensiero inquietante. Da quanti anni una guerra non infuriava sulle terre di Clitalia? Erano passati secoli dall'ultima volta. Se Ianus aveva ragione sarebbe stato ben peggiore degli stagionali attacchi dei briganti.

«Titus non è ancora in condizione per combattere, quindi dovremmo evitare qualunque scontro. Suggerisco un posto pacifico e sicuro» rifletté Vanni, assicurandosi la spada al fianco.
«Qualche idea?» domandò Ianus, mentre gettava acqua sul focolare.
Un'idea effettivamente balenò nella mente di Titus, mentre un nome si faceva largo, limpido e chiaro, fra le labbra schiuse.
«Utopia».

La Fortezza dell'Alba. La Città Beata.
Oltre le vallate azzurre sorgeva Utopia, sede centrale del Culto. I racconti ne decantavano la bellezza, descrivendola come uno stralcio di paradiso concesso in usufrutto agli uomini. Per ogni devoto, degno di questo nome, era buona norma compiervi un pellegrinaggio almeno una volta nella vita: rendere grazie all'Unico in uno dei numerosissimi templi; ascoltare la viva voce del Gran Sacerdote e visitare la maestosa Volta delle Stelle.

Titus compì quel viaggio con una segreta eccitazione nel cuore. Sotto i passi d'Orlando le distese d'acqua lussureggianti apparvero come specchi opachi alla periferia dello sguardo; le paludi limacciose solo un breve ostacolo lungo il cammino; l'afa del sole nient'altro che una prova in vista della meta tanto agognata.

Infine la vide: eretta sulla cima d'un colle come una corona. Neanche la sera riusciva a spegnere il colore dorato delle sue mura.
Fra tutte le città-fortezza era la più piccola, ma era anche l'unica su cui la notte non si posava mai. Passando attraverso i portali Titus vide globi di luce che levitavano nell'aria, a qualche metro dalle loro teste. Quel bagliore illuminava tutto a giorno scalzando le tenebre a qualsiasi ora.
Sulle cime delle guglie spioventi, innestate sul tetto d'ogni edificio, si innalzavano putti d'ottone, intenti a reggere stelle a quattro punte. Ai lati delle strade si udiva lo zampillio delle fontane, da cui l'acqua benedetta sgorgava attraverso ricercate forme nel marmo.
«Mio signore, perché credete che questa città sia sicura?».
Con gli occhi ancora ricolmi di meraviglia, Titus si voltò verso la ragazza, un sorriso spontaneo gli scopriva i denti.
«Ogni centimetro di questo luogo è protetto da una potente benedizione, capace di tenere lontani i nemici del Culto».
Vanni sollevò le sopracciglia, sorpresa.
Con lo sguardo seguì la fiumana di gente diretta verso il centro della città. Da qualche parte si udì il rintocco delle campane.
«Il Gran Sacerdote sta per parlare al popolo!» esclamò Titus, mentre un pizzicore gli si agitava sottopelle «Voi andate, io devo sbrigare una faccenda prima».

E così dicendo corse via, muovendo lo sguardo fra i palazzi d'ardesia alla ricerca di un rosone vetrato. Non dovette attendere a lungo: in vero Utopia era la fortezza con la più alta concentrazione di templi in tutta Clitalia. Senza esitazione varcò la soglia, e per qualche strano incanto il vociare proveniente dall'esterno si affievolì in un silenzioso raccoglimento.
Le pareti alla sua destra e alla sua sinistra brillavano di colori vivi, recavano affreschi che riprendevano la Santa Crociata: uomini e Cecrope levavano le loro armi contro una schiera di demoni dagli occhi scarlatti e la pelle avvizzita, i tratti del volto grotteschi come quelli d'una maschera scavata nel legno. Sopra le teste dei soldati all'assalto svolazzavano angeli dalle fattezze fanciullesche, intenti a dar fiato alle trombe. Proseguendo attraverso la navata, vide oltre l'altare un mosaico rappresentante la corrotta Città del Crepuscolo, che scivolava fra le nere fiamme dell'Oblio, insieme con i demoni e gli uomini ad essi asserviti.
Distogliendo gli occhi da quella scena, Titus si inginocchiò ai piedi dell'altare, lì dove era stata riposta una coppa d'argento istoriata. Al suo interno depose dieci monete d'oro. Le stesse che, fossero state versate alla Corona, gli sarebbero valse il titolo di Ser, ma sin dall'inizio del suo viaggio aveva accantonato quell'alternativa.
L'oro da lui versato si unì all'argento e al rame di tanti altri fedeli passati lì prima di lui. Nessuno vegliava su quel piccolo tesoro: quattro volte sarebbe stato maledetto chi avesse osato rubarlo.
«Quattro volte sia benedetto il tuo nome: oh, Unico Signore; oh, Stella del Mattino; oh, Padre; oh, tu, Sol Invictus. Accetta le mie offerte e rendimi grazia della tua benedizione, se ne sono degno o, se così non è, puniscimi per la mia superbia».

Chiuse gli occhi. Nel buio delle sue palpebre cominciò a vedere piccoli puntini bianchi che aleggiavano nell'oscurità, essi s'agitarono e s'accrebbero sino a quando il nero non fu totalmente colmato. Aprì gli occhi e la luce lo investì: così intensa da annullare la vista su ogni cosa. Persino le sue mani altro non erano se non sagome nere, in quel mondo di luce, il cui bagliore tuttavia non lo accecava, ma anzi lo rinfrancava come il primo giorno di primavera dopo che fosse trascorso un rigido inverno.
La visione durò pochi istanti, ma tanto bastò per infondergli una serenità serafica nell'animo, tale che persino le sue ferite, adesso, sembravano non fargli più alcun male.
Suonarono nuovamente le campane e Titus lasciò il tempio, senza mai volgere le spalle all'altare, se non dopo che fu oltre l'uscio.

Come c'era da aspettarsi la piazza centrale pullulava di gente d'ogni età ed estrazione. In quella moltitudine di teste era folle anche solo sperare d'intravedere i suoi compagni. Si sedette dunque al bordo di una fontana e levò gli occhi alla balconata che protendeva da Palazzo di Stelle, la dimora del Gran Sacerdote e delle più alte cariche ecclesiastiche. Tendaggi porpora e cremisi avvolgevano il parapetto in morbidi intrecci che sembravano l'alternato scorrere di un liquido, nella corrente di un incanto.
Fra la folla Titus scorse il movimento di alti cappucci puntuti e lunghe picche dinanzi ai quali la gente si apriva come un ventaglio. Loro dovevano essere gli Alti Ufficiali dell'Inquisizione: col compito di gestire la caccia alle creature e agli eretici, oltre che occuparsi personalmente della salvaguardia del Gran Sacerdote nel corso di apparizione pubbliche. Erano i guerrieri e i maghi più letali dell'intero regno, secondi soltanto ai quattro paladini del Sol Invictus.

Gli incappucciati, giunti alle porte serrate del Palazzo, si disposero a formare un semicerchio e per tre volte percossero il suolo con le loro aste. Ai tonfi sordi seguì un singolo rintocco di campana.

Eccolo lì, in tutta la sua magnificenza, mentre emergeva attraverso i fitti tendaggi: un uomo dalla tonaca candida come neve e il cui biancore rifrangeva la luce dei globi in sprazzi di arcobaleno. Un mitra d'oro e gemme variopinte cingeva il suo capo, mentre all'altezza del petto portava ricamata una stella a quattro punte. Grida di giubilo si levarono dal popolo.
«Evviva! Evviva! Evviva!».
«Lode al Gran Sacerdote!».
«Lode a Raminus! Lunga vita lo accompagni!».
Bastò un'imposizione delle mani perché il silenzio seguisse sovrano. La sua voce risuonò ovunque, come se le fondamenta della fortezza fossero la sua cassa di risonanza. I suoi occhi di un castano screziato d'oro, volsero in lungo e in largo sull'intera schiera di fedeli.
«Benvenuti miei amati pellegrini, qui nella città santa. Qui dove l'oscurità non trova asilo. Su ciascuno di voi ricada la mia benedizione, possa essa serbarvi da ogni male».
Il Gran Sacerdote fece una pausa, serrando le dita intorno alla mensola del parapetto «Sì, poiché grandi sono i mali all'opera oggi: i demoni lucertola devastano i nostri raccolti e le sanguisughe tramano nell'ombra un'ingiusta vendetta. È con sommo dolore che ho appreso la notizia della morte di migliaia di buoni e onesti cultisti. Ma noi, o mie pecorelle, non demorderemo: gli sciocchi si illudono che allo sfoltirsi del gregge sotto i denti del lupo, il pastore abbandoni il suo bastone e fugga via. Ebbene, non questo pastore! Sotto gli strali della nostra fede tutti loro cadranno: eretici, streghe, Cecrope, strigoi e qualsivoglia altro scempio partorito dall'Oblio!».
"Una seconda Santa Crociata, a cui io intendo partecipare" pensò Titus "esiste forse intento più nobile? Impresa più grande?". E mentre infiammava l'appassionata invettiva, qualcosa distolse l'attenzione dell'aspirante cavaliere.

Spinto da una sensazione si specchiò nell'acqua della fontana e lì vide formarsi una piccola bolla, seguita da un'altra e un'altra ancora, fino a quando uno sbuffo di vapore bollente non gli sfiorò il viso. Allarmato Titus si rialzò e i suoi occhi volsero all'insù attirati da uno stridio metallico: sulle guglie di Utopia, le stelle a quattro punte presero a contorcersi come se una mano di gigante vi si fosse chiusa sopra.
I battiti nel suo petto accelerarono e quasi si sentì mancare quando i globi di luce si estinsero all'unisono. Urla di terrore si levarono e tacque la voce del Gran Sacerdote.
Di lì a poco la luce ritornò, ma più stinta e greve, come in una giornata che minacci tempesta. L'impensabile era accaduto: anche se solo per un attimo, la notte era giunta ad Utopia.

L'aspirante cavaliere notò che Raminus si era improvvisamente irrigidito, forse per quell'infausto evento. Ma osservando con più attenzione notò che i suoi occhi erano fissi su qualcosa, una guglia dirimpetto al Palazzo delle Stelle. Titus ne seguì lo sguardo e vide...

Era un uomo solo nella forma: una lunga chioma impervia dello stesso colore della notte; iridi che baluginavano di bagliori scarlatti.
Un viso di lupo da cui protendeva un naso aquilino. E le sue dita affusolate, terminanti in scuri artigli neri.
Qualcuno si diede alla fuga, qualcun altro perse i sensi e fu appena sorretto dai suoi vicini. Le voci della gente risuonarono in un coro di terrore.
«Egli è il Segugio dell'Oblio».
«Gli artigli nell'oscurità!».
«Egli è Samael, il Principe delle Tenebre».
Sentì il fiato mancargli in gola, mentre il suo corpo rifiutava di rispondere ad ogni comando. Avrebbe dovuto sguainare la spada, mettere a repentaglio la sua vita pur di salvare il Gran Sacerdote. Fu un attimo: con un balzo Samael fu oltre la balconata e la sua mano, aveva in un sol gesto attraversato il petto del più santo fra gli uomini, cavandone fuori il cuore ancora pulsante. Com'era nella sua empietà non si accontentò di aver ucciso il Gran Sacerdote, ma levò la mano con cui stringeva il suo macabro bottino e lo strizzò, lasciando che il sangue scivolasse direttamente nella sua bocca spalancata. Sulla sua faccia, quando ebbe finito, c'era un ghigno degno di una bestia ferina.

Gli inquisitori spiccarono un balzo sovrumano, giungendo sulla balconata e lì s'adoperarono per vendicare il loro signore. Le picche fendevano l'aria e Samael si lasciava trafiggere con non curanza, per poi spezzare le aste e lasciare ciascuno di loro privo d'ogni difesa, in balia delle sue fauci. Fu un vero massacro, l'Avis vide uno degli inquisitori con il corpo spappolato contro il fronte di un edificio lì d'appresso; un altro era stato privato della testa; ad un altro ancora il Principe delle Tenebre aveva staccato uno ad uno gli arti, fra le grida quasi insopportabili da ascoltarsi, per poi gettare il suo tronco mutilato sulla folla ormai in tumulto per il panico.
Concluso quel macabro spettacolo, Samael era poi entrato nel Palazzo delle Stelle e di lì a poco nuove urla risuonarono per tutta la città.
Titus ormai impietrito, sentiva gli occhi spremere fuori ogni singola lacrima che aveva e rigargli le guance di sale. "Non c'è speranza... non c'è speranza di fronte a una simile crudeltà..." si ripeteva avvertendo sempre più vivo lo stimolo del vomito dinanzi a quella carneficina, fino a quando una mano non si strinse alla sua, inerte.
«Mio signore, presto, dobbiamo andare!».

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