CAPITOLO VI - SEME DI LUNA
La strada che portava fino a Colle delle Arpie era un sinuoso serpente dalle scaglie di sterrato, che strisciava fra le colline senza mai tentare di scavalcarne il dorso. L'estate ormai era alle porte e il sole picchiava sulla testa con i suoi raggi dorati. Per Laura non rappresentava un problema, lei veniva da Shavalon: sull'isola faceva caldo per gran parte dell'anno e il maltempo solitamente si limitava a qualche pioggerellina estiva e a un paio di giornate grigie durante i mesi invernali. Artemisia, d'altra parte, non sembrava troppo contenta e aveva issato su il cappuccio, ciondolando a qualche passo dalla sua compagna maegi.
Contrariamente a quanto sostenuto da molte storie del folklore, raramente per gli strigoi la luce del giorno risultava letale. I pochi casi si limitavano ad esemplari selvatici e particolarmente deboli di costituzione. Ciò nonostante non erano creature che gradivano particolarmente muoversi al sole e vi si esponevano solo se costretti dalle necessità del caso.
Proseguendo per la via, le due ragazze si imbatterono in un bivio: la strada a sinistra proseguiva regolarmente verso la loro destinazione, mentre l'altra deviava più a sud, fra le fronde di una fitta foresta scura. Un soffio di vento agitò i riccioli sulla spalla bruna di Laura, mentre lei si accingeva a proseguire lungo il cammino. Quando a un tratto Artemisia la richiamò.
«Aspetta, qualcuno ci sta seguendo.»
«Cosa?» chiese la ragazza, incredula.
Artemisia si voltò verso est, vibrando le sottili narici.
«È a uno, forse due giorni di cammino da noi. Ma avanza in fretta, veloce come il vento.»
"Perché qualcuno dovrebbe mettersi sulle nostre tracce?!" pensò la maegi, spazientita.
«Avverti qualche odore in particolare?» domandò. Più d'una volta il fiuto eccezionale della bambina l'aveva salvata da pericoli e minacce incombenti.
«Sento profumo di incensi e pietre incantate.» rispose, posando nuovamente i suoi grandi occhi scuri su di lei.
«Un Inquisitore...» mormorò.
"Cazzo, qualcuno a Doraspiga deve averlo messo in allerta."
«Potremmo tendergli un'imboscata, che ne dici?» propose la strigoi, con un luccichio scarlatto negli occhi.
Laura accarezzò l'idea, ma poi denegò col capo «Non se ne parla. Non voglio dare all'Inquisizione ulteriori motivi per darmi la caccia. Ci limiteremo a deviare dal nostro percorso, così da far perdere le nostre tracce.»
Un accenno di delusione attraversò il viso della bambina, ma infine convenne con il piano: bisognava cambiare strada.
La foresta le accolse nel suo grembo fatto di radici ed erbe selvatiche. Le dita nodose dei rami accarezzavano i riccioli di Laura ad ogni passo e giocavano a pizzicarle i vestiti.
La vita, silenziosa e nascosta, si annidava nei tronchi rosicchiati o sulle gobbe delle rocce, sellate dal muschio. Occhi di rapace, gialli come ambra, li osservavano passare con lunghi versi cupi. Mentre le foglie creavano sopra le loro teste un baldacchino, teso a ostacolare il passaggio del sole, se non per sparuti raggi qui e là sul terreno. Artemisia sospirò, con aria sollevata, quando tolto il cappuccio poté finalmente liberare la lunga chioma corvina e sgranchirsi il piccolo collo diafano.
Sulla pelle, la giovane maegi avvertiva l'aria farsi elettrica e densa come prima d'una tempesta: quel luogo era il regno incontrastato della natura, mai toccato dalla mano degli uomini.
C'era anche altro però: fra gli alberi sentiva scalpicciare zoccoli troppo leggiadri per appartenere alle zampe dei cavalli. Sentiva i bisbigli del piccolo popolo: schivo e prudente.
E infine ci fu il baluginare di occhi di ghiaccio, che la squadravano con circospezione, da qualche parte dinanzi a lei.
«Chi è là?» esclamò, con la voce tremante.
Artemisia si arrestò, emettendo un lungo ringhio sommesso.
«Violate la mia dimora e chiedete ragione di chi io sia?»
Dall'oscurità emerse un uomo, forse sulla trentina avanzata. La pelle olivastra contrastava con l'argento filato dei suoi lunghi capelli.
Laura chinò il capo «Perdonateci, non intendevamo violare la vostra casa.»
«Volere o non volere, lo avete fatto.» replicò lui senza sgarbo, ma come se stesse solo sottolineando l'ovvio «Cosa porta in questi luoghi una maegi e una strigoi?»
"Come lo ha capito?" si domandò la ragazza, corrucciandosi, per poi affrettarsi a balbettare «Eravamo solo curiose di esplorare la foresta e scoprire quali creature vi abitassero.»
Lui le osservò con aria scettica, ma il suo disappunto non arrivò alla bocca «Dovreste fare più attenzione, le creature non sono avvezze a ricevere ospiti e potrebbero attaccarvi, se si dovessero sentire minacciate».
«E perché mai?» mise le mani avanti Laura «Non intendiamo far loro alcun male.»
«Come io non intendo farne a voi,» sorrise lui «se non me ne darete ragione.» continuò, scoccando un'occhiata ad Artemisia, ancora guardinga nonostante tutto.
«Seguitemi, lasciate che vi conduca in un luogo un po' più confortevole.»
In teoria non avrebbe dovuto fidarsi di un perfetto sconosciuto, ma quell'uomo, in seguito presentatosi con il nome di Aconito, era capace di infonderle un senso di sicurezza e serenità che non sapeva come spiegarsi. Inoltre riusciva ad orientarsi agevolmente in quel luogo che sembrava ripetersi ad ogni passo sempre uguale. Nord, sud, ovest ed est avevano perso ogni riferimento, la chioma d'argento era l'unica bussola in quel mare di verde scuro.
Scesero per degli scalini costituiti dall'intreccio spontaneo di radici, giungendo finalmente a una spianata sulla riva di un lago placido.
Quello che doveva essere il giaciglio della loro guida non era altro che un letto di foglie intrecciate, posto sul suolo d'erba che arrivava a sfiorare le caviglie.
Lì le fece accomodare e, tesa una mano verso gli alberi sovrastanti, questi si animarono, recando nell'incavo del suo palmo frutti e bacche selvatiche.
Laura assistette meravigliata a quell'incanto, cominciando a interrogarsi su quel curioso individuo: non c'era traccia di nessun focolare lì intorno. Come affrontava il freddo dell'inverno? Come rischiarava le tenebre durante la notte?
«Tu non sei un comune mortale.» asserì Artemisia, e Laura per una volta fu felice della sua impertinenza.
«Non sono più umano di quanto lo sia tu.» rispose Aconito.
La bambina si corrucciò, con un'espressione di infantile disappunto.
«Il tuo non è sangue di strigoi, anche se-»
Lui sbuffò «La mia stirpe non è certo frutto del tradimento di Lich, questo è poco ma sicuro. Discendo dai driadi che scelsero la via della Terra, dopo che la stele venne spezzata.»
"Un essere non tanto dissimile dai Cecrope dunque..."
«Anticamente, nella vostra lingua, venivamo chiamati Licaoni, ma sono decenni che non vedo più miei simili in giro. Tendiamo a nasconderci fra gli esseri umani.»
«E tu, perché sei rimasto qui?» chiese stavolta Laura, incuriosita.
«Sono rimasto fedele al Credo dei miei avi. Il Sol Invictus ha portato rovina su tutto ciò che ancora di magico è rimasto a questo mondo. Il mio unico desiderio è offrire un luogo sicuro a tutte le creature; un rifugio in cui possano vivere e prosperare, lontano dalla piaga degli uomini.»
«Un nobile intento.» ammise la maegi, con un sincero sorriso germogliato sulle labbra.
A lungo Aconito raccontò loro le antiche storie della sua gente, degli screzi con la stirpe dei Cecrope, seguaci del fuoco, e delle battaglie che ne erano seguite. La ragazza ascoltò rapita, mentre si riempiva la bocca dei dolci frutti offerti dalla foresta.
Altresì il Licaone volle ascoltare la loro di storia, e i resoconti dei numerosi viaggi compiuti insieme. E mentre i racconti si alternavano ad aneddoti estemporanei, il sole discese dal suo pulpito nel cielo, arrossandolo del tenero pomeriggio. Infine inscurito nell'ora che precede la sera.
Era giunto il crepuscolo e Laura sentì il bisogno di lavarsi di dosso la polvere, fra le acque di quel limpido lago. Forse per pudicizia o per non recarle offesa, Aconito distolse lo sguardo quando lei si sfilò di dosso i suoi abiti, rivelando un seno pieno, dai capezzoli scuri, e fianchi larghi alla fine di una vita sottile. Quando si lasciò andare nell'acqua la trovò fredda e la sua schiena fu percorsa da un brivido.
Per abituarsi alla temperatura si immerse, agitando le braccia nel blu che anche a pochi metri dalla riva sembrava non conoscere più fondale. Alla mente le tornarono immagini dell'infanzia: quando si tuffava nel mare intorno a Shavalon, ricordava di avere avuto sempre un po' di paura della profondità, era come se la potesse divorare se vi avesse indugiato troppo a lungo. Ma quelle acque dolci erano sicure, accoglienti come le braccia di una madre, capace di lasciarti andare quando prende il sopravvento il desiderio di libertà.
Riemerse, guardando ad Aconito che ora incontrava i suoi occhi. L'uomo aveva la mascella squadrata, il corpo robusto con una contenuta peluria dal colore solo leggermente più scuro di quello dei suoi capelli. La mano sinistra della maegi dal ventre discese verso l'interno coscia, poi un po' più su. Mentre la destra faceva capolino dall'acqua, invitando il Licaone a seguirla fin lì.
Lui sorrise in uno sbuffo, togliendosi i calzoni e tuffandosi in acqua. Adesso erano l'uno di fronte all'altra, accucciati lì dove i piedi toccavano. I suoi occhi azzurri erano ancora più brillanti ora che le sue ciglia si erano bagnate.
Lo desiderava ardentemente, solo per quella sera. Il giorno dopo si sarebbero lasciati andare con solo un ricordo a legarli. Che male c'era in fondo? Semplice, come le cose semplici sempre sono: ricevere piacere, dandone a propria volta. Fedeltà, stabilità, erano concetti validi per chi sceglieva di mettere radici... ma lei era una maegi, un'errante. Sapeva che la sua bellezza dal gusto esotico le aveva vinto numerosi uomini, e quando lo baciò, lui non oppose resistenza.
La afferrò tra le braccia e la accompagnò sino al giaciglio dove si chinò su di lei, tenendole strette le mani. Il suo membro già rigido scivolò nel suo sesso, e all'inizio avvertì un lieve dolore ma ben presto questo lasciò il posto a un piacere avvolgente.
Strinse le gambe intorno ai suoi fianchi, inarcò la spina dorsale e assecondò il suo movimento. Gemeva sommessamente, mentre il calore dal pube si propagava attraverso il corpo.
Si liberò dalla stretta di quelle forti mani e le serrò intorno alle sue spalle. Chiuse gli occhi e sotto i polpastrelli avvertì i muscoli di Aconito che si gonfiavano e si incurvavano, la pelle olivastra che veniva avvolta d'un manto di pelliccia morbido come seta.
Quando schiuse le palpebre una falce di luna si rifletteva sulle acque del lago e sopra di lei non c'era più un uomo, ma un lupo dalle forme antropomorfe. Artigli che avrebbero potuto dilaniarla, la toccavano con gentilezza; fauci che avrebbero potuto divorarla, giacevano innocue sulla sua spalla. I suoi occhi erano accesi d'un bagliore vivido, come se la materia liquida d'una cometa fosse stata disciolta fra le sclere.
«Perdonami, non posso controllare la trasformazione.»
«N-no,» mugugnò, ad un passo dal venire «continua, continua.» lo rassicurò lei.
L'orgasmo e la voluttà strapparono dalle loro carni ogni stilla di energia, abbandonandoli a una dolce spossatezza che presto sprofondò nel sonno.
Quando quella notte Laura si addormentò, lo fece stretta al tepore del suo candido manto di lupo.
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