CAPITOLO IV - ULTIMO SANGUE
Titus si avventò sulla sua zuppa di carne e foglie di cavolo, bagnando tocchi di pane raffermo nel brodo; sentire la mollica sciogliersi in bocca, liberando i suoi sapori, era una goduria dopo diversi giorni di carne essiccata sotto sale. Ianus d'altra parte non aveva ordinato nulla e contemplava annoiato il vuoto dinanzi a sé. Che stesse praticando il digiuno? Sapeva di alcuni eremiti che lo facevano per dimostrare la propria devozione all'Unico.
«Rischi di morire di fame se non metti qualcosa sotto i denti.» lo ammonì, con la bocca ancora unta.
«Non intendo mangiare a tue spese. Mi hai preso forse per un mendicante?» berciò il vecchio in risposta.
Titus non trovò di che replicare: certo non voleva offendere l'orgoglio di quel soldato testardo. "Poco male," pensò "prima o poi gli stenti lo costringeranno a sfamarsi."
Stava per ritornare al suo piatto, quando un uomo dal cappello piumato e una cetra al fianco, prese posto accanto a loro, senza che nessuno lo avesse invitato a sedersi.
«Benvenuti, benvenuti viaggiatori! Questa è la taverna del Buon Mattino, fiore all'occhiello del villaggio di Passo Caprotto. Posso allietare la vostra cena con un po' di musica? Quattro zecchini di rame e vi canterò dei pastori che fondarono questo insediamento!»
Titus non avrebbe mai immaginato che quella congerie sgangherata di case avesse persino un nome. Una bella canzone però l'avrebbe ascoltata volentieri.
«Tieni per te le tue sciocche ballate, non ci interessano.» replicò il vecchio, acido come al solito.
«Io veramente-» cercò di intervenire Titus.
«Piuttosto, già che sei qui, raccontaci qualche buona nuova su Passo Caprotto.»
«Spendere voce secca la gola, miei signori,» replicò il cantastorie, esibendo un sorriso d'avorio «quattro zecchini di rame e saprete ogni cosa.»
«Due.» contrattò il vecchio.
«Tre, e che non se ne parli più.»
«Ottimo!» concluse Ianus, mentre l'aspirante cavaliere sentiva una pedata battergli sullo stinco.
«Ahia!» si lamentò, mentre il vecchio continuava a spostare lo sguardo da lui al bardo.
"Meno male che non voleva pesare sulle mie finanze..." rimuginò, mentre consegnava quanto richiesto fra le dita agili del musicista.
«Ebbene,» si schiarì la voce il cantastorie «di buone nuove non ce ne sono, ma di cattive, quelle non mancano mai. Anche in un posto piccolo come questo qui: pare che un manigoldo, noto con il nome di Lezzo, abbia rapito la figlia del podestà Giorgione. Quest'ultimo era un uomo dal sangue bollente, di carne rossa come si suol dire, e immantinente è andato in cerca del brigante onde farsi restituire la fanciulla. Vi dico, non ha faticato a trovarlo, poiché quello non si nascondeva affatto. Alla richiesta, fatta con ben poca cortesia, di restituire il maltolto, Lezzo ha avuto l'ardire di sfidare a un duello rusticano lo stesso podestà. Il buon Giorgione, da orgoglioso qual era, ha accettato la disfida e, in fondo, perché rifiutarla? In gioventù aveva militato nell'esercito, e la mano non perde tanto presto destrezza con la spada.» il bardo bevve un sorso dal boccale di Titus, prima di riprendere «Beh, mio cugino è amico di uno che ha assistito al duello. E mi ha raccontato che gli ha raccontato che al fellone sono bastati due fendenti per far stecchito il buon Giorgione.»
Titus si incupì, mentre Ianus si portava una mano alla folta barba grigia.
«Ma la storia non è mica finita qui! Pare che adesso Corradino, fratello della sorella sequestrata, voglia vendicare il padre e l'onore della fanciulla. Guardate, guardate, è proprio lì!»
Il giovane seguì la direzione del dito del bardo, il quale indicava un uomo al più sulla trentina, seduto al centro d'una tavolata e circondato da un folto gruppo di suoi compari.
Aveva zigomi vistosi, incorniciati da una barba fulva e con un paio d'occhi stanchi di tristezza. Indossava un farsetto imbottito, con toppe lì dove il tempo aveva fatto i suoi strappi. Sopra al banco, accanto al piatto ancora pieno, giaceva una spada lunga dall'elsa di umile fattura.
«Non è abile come spadaccino, ma ha braccia giovani e forti.» continuò il cantore.
Corradino si alzò dalla sua sedia con un sospiro e prese congedo dai suoi compagni, con gli occhi fissi e la voce a brevi frasi, spesso interrotte da lunghi silenzi. Titus comprendeva il suo stato d'animo: perdere un padre doveva essere un duro smacco e portare sulle spalle l'onere di vendicarlo era certo qualcosa che toglieva il sonno a numerose notti. Sperava che, alla fine, sarebbe riuscito a farsi giustizia.
«Avanti, alzati.» ordinò Ianus, mettendosi in piedi.
«Perché?» chiese il ragazzo, stupito.
«Assisteremo al duello stanotte, finirai la tua zuppa più tardi.»
Il vecchio non sembrava affatto incline a discuterne ulteriormente.
Il villaggio di Passo Caprotto si apriva ai due lati di una strada lastricata, dividendo l'insediamento stesso in due quartieri: uno a nord e l'altro a sud. A parte la posizione opposta, non c'erano poi grosse differenze fra le due sezioni del villaggio. Le abitazioni erano tozze, dello stesso legno tarlato e con porte i cui cardini gemevano ad ogni soffio di vento.
La strada principale era l'unico luogo illuminato, con fiaccole che erano state conficcate nel terreno e spandevano tutto intorno chiarori arancioni. Era quasi scontato che, se un duello era proprio da farsi, si sarebbe tenuto lì: dove c'era abbastanza spazio e sufficiente luce per vederci ad un palmo di naso.
Un ristretto gruppo di amici aveva seguito Corradino dalla taverna, formando una piccola folla a suo sostegno, mentre l'uomo noto come il Lezzo arrivò di lì a pochi minuti. Titus non ci mise molto a capire la ragione di quell'epiteto: le sue vesti erano malconce, macchiate di sangue, fango e chissà cos'altro. La bocca gli si apriva in un ghigno sotto il naso storto, sopra il quale c'erano due occhi affilati, appena velati da lunghi capelli unti. Il brigante si grattò il capo e snudò la sua lama: era una spada corta, con una pietra traslucida come pomo. Su questa si intravedevano i riflessi del fuoco.
«Sono qui per il nostro duello, e i miei compagni mi sono testimoni. Come d'accordo sarà uno scontro all'ultimo sangue.»
Il Lezzo ridacchiò, affondando in un inchino provocatorio. Titus storse la bocca, notando che nessuno dei due contendenti aveva con sé un secondo, com'era invece nell'etichetta. E il vecchio, quasi gli avesse letto nel pensiero, bisbigliò.
«È un duello rusticano, ragazzo, qui le regole sono più... malleabili.»
Il giovane incrociò le braccia, disapprovando con un movimento del capo.
Nonostante fosse un popolano, però, doveva ammettere che il portamento del figlio di Giorgione appariva più cavalleresco di quello di gran parte dei Ser che aveva incontrato a Nido del Trespolo. In cuor suo Titus sperava che fosse lui a vincere... quando un giorno fosse tornato a Passo Caprotto, dopo il cammino delle dieci imprese, avrebbe potuto investirlo lui stesso del titolo.
«Una volta che mi sarò liberato di te, caro il mio cognatino, potrò scoparmi la tua dolce sorellina in santa pace. Sapessi che goduria quando urla, un vero peccato che il nostro bambino non conoscerà mai il nonno, né lo zio.» provocò il Lezzo, sputando in terra.
Corradino perse ogni freno a quelle parole e, senza esitare, si slanciò sul manigoldo, mulinando la spada con entrambe le mani. Il suo avversario si limitò a levare la guardia, pronto a parare.
Titus sbuffò, sollevato «È già morto, non può sperare di bloccare quel fendente con una mano sola.»
L'acciaio impattò contro l'acciaio, in una pioggia di scintille. Con orrore di tutti gli astanti la spada di Corradino finì in mille pezzi. Il figlio del podestà non ebbe il tempo di stupirsi, che la lama del Lezzo gli aveva già passato la gola da parte a parte.
I compagni del rosso si lanciarono sul corpo esanime del loro amico, nel vano tentativo di tamponare la ferita; ma il sangue aveva già impregnato di rosso i suoi vestiti, e lo stesso colore affondava fra i ciottoli della strada.
Titus sentì il respiro mozzarglisi in gola e la pelle svuotarsi d'ogni calore.
«C-come ha fatto?!»
Non poteva smettere di chiederselo: forse la spada era stata danneggiata in precedenza. Sì, doveva essere quello il motivo. Ma la sua lama, quella sì, era di acciaio ancora giovane e fresco di forgiatura. Quindi? Cosa avrebbe fatto un cavaliere, in una situazione come questa? No, non poteva pensare a preservare la propria vita adesso. No, adesso era il tempo del coraggio e dell'onore: l'onore suo e di quella povera ragazza ancora fra le grinfie di quel mostro.
«Tu, Lezzo!» lo richiamò «Io ti sfido a duello, per la figlia del podestà! Se vinco la lascerai andare e abbandonerai il villaggio!»
Il brigante lo squadrò per un attimo, alla luce delle torce: nel suo sguardo lo stesso luccichio perverso di una bestia feroce.
«Un morto non reclama donne e non abita la terra, ci sta solo sotto, giovane rampollo» rispose lui, facendo spallucce «Domani, stessa ora, stesso posto.»
E così dicendo andò via, così come era venuto.
Fu tra i pianti e le grida a lutto; tra gli sguardi indagatori del vecchio Ianus e il tremore che gli agitava le dita delle mani, che Titus realizzò ciò a cui si era condannato: il suo primo duello, e sarebbe stato all'ultimo sangue. Se anche la sua spada si fosse spezzata... non avrebbe avuto speranza alcuna di vittoria.
"Ma la mia spada non si spezzerà, no. La mia spada non si spezzerà."
Più tardi quella sera, Titus era intento ad osservare il soffitto, al lume delle candele. Contemplava le scanalature che il tempo e i tarli avevano creato nel legno e pensava a quanti occhi dovevano aver fatto caso a simili dettagli prima di lui. Ianus era in un angolo della stanza, intento a tracciare con l'inchiostro i suoi rotoli: il rumore della penna d'oca contro la pergamena era un accompagnamento diventato così costante da sparire alle orecchie, sino a quando interrotto, non avvertì la sua mancanza.
«Allora?» vociò il vecchio.
«Allora cosa?» domandò Titus a sua volta, con tono asettico.
«Qual è il tuo piano per domani?» l'anziano sembrava spazientito.
Il ragazzo si tirò a sedere, sospirando.
«Non c'è nessun piano, solo un confronto spada contro spada.»
«Ti prego, dimmi che mi stai prendendo in giro.» esclamò Ianus, alzando gli occhi al cielo.
«La mia lama è robusta, non si spezzerà.» disse, convinto delle sue parole o forse cercando di convincersene lui stesso.
«Non posso credere che tu sia così ottuso, pensi davvero che quell'uomo abbia vinto per un caso fortuito? Abbi spirito di osservazione, ragazzo. Analizza gli elementi a tua disposizione e metti insieme i pezzi.»
Titus sospirò, cercando di riflettere.
«Il bardo ha detto che anche il podestà non è durato che pochi scambi.»
«Esatto.» lo incalzò l'anziano «Quindi, cosa ne deduci?»
«Quindi o ha manomesso le spade, oppure-»
«Oppure la sua non è un'arma comune. Si tratta di una lama incantata!» continuò per lui Ianus.
«Una lama capace di spezzare qualsiasi cosa al semplice tocco.» disse Titus, portandosi la mano al mento velato da una barba sottile.
«Ci sei quasi, ti stai avvicinando alla risposta.» insistette ancora Ianus.
«Ah, per l'Oblio! Dimmelo chiaro e tondo, e facciamola finita.» era decisamente stufo di spremersi le meningi, se poteva avere una risposta sin da subito.
Il vecchio Ianus ridacchiò, sporgendosi dalla sedia verso di lui.
«Dunque, lascia che ti spieghi...»
Sperava davvero che il piano di Ianus avesse un senso, altrimenti le cose sarebbero andate a finire davvero male. Con un gesto slacciò la spada dalla cintola e la tenne nella mano destra, stringendola in corrispondenza della lama, coperta dal fodero.
Il Lezzo arrivò in ritardo rispetto a quanto avevano concordato, ma stavolta era preceduto da lamenti e singhiozzi acuti.
«Mio buon rampollo, voi siete un nobiluomo. Quindi ho ben pensato di portare un secondo insieme con me.»
Dinanzi a lui camminava, con i polsi e le caviglie legate, una fanciulla macilenta. Sul suo pallore risaltavano macchie livide, dal verde al violaceo purpureo. Mentre seguivano dagli occhi gonfi e arrossati, strade salate attraverso lo sporco delle sue guance.
Il brigante le pose una mano sulla spalla e bastò quella piccola pressione perché la ragazza si inginocchiasse, senza accennare a ribellarsi.
Titus sentì un moto di rabbia montargli nel cuore: avrebbe voluto ammazzare quel bastardo seduta stante.
«Che il duello abbia inizio, i due contendenti si affronteranno all'ultimo sangue!» esclamò Ianus «Il Sole sia testimone e favorisca fra i due, colui che è più degno.»
Il Lezzo sguainò la sua spada corta, facendola sibilare nell'aria dinanzi a sé.
«Avanti ragazzo, tira fuori la tua lama e mostrami come combatte un rampollo.»
Titus tirò un profondo respiro, assumendo la posizione di guardia. Dei legacci assicuravano il fodero all'elsa, di modo che non si sganciasse durante la contesa.
Chissà, forse questo duello gli sarebbe valso un soprannome. Già se lo immaginava: Titus spada infoderata. Non suonava poi così male all'orecchio, ma i suoi pari di certo lo avrebbero preso per un tipo assai stravagante.
Squadrò il suo nemico: le sue braccia erano troppo scarne per essere forti, ma certo era estremamente rapido. Doveva solo cogliere il momento adatto per colpire e lasciarlo senza speranza di reazione.
Si diede alla carica con un fendente a due mani, il Lezzo reagì, preparandosi a bloccarlo. Quando l'acciaio impattò contro il legno del fodero ci fu un brillio arancione sul pomo della spada corta, ma non accadde nulla di più. Gli occhi del brigante si sbarrarono e le sue mani ebbero un attimo di esitazione.
"Maledetto vecchio, avevi ragione." diede una pressione repentina, disarmando l'avversario. Dopodiché, mollata la spada, approfittò della sua superiore prestanza fisica e si lanciò sul brigante, gettandolo per terra.
Quando iniziò a colpire con la mano nuda, sentì quella brutta faccia che gli si sfasciava contro le nocche. La cartilagine si spappolava ad ogni nuovo pugno e il rosso caldo e viscoso rimbalzava sul suo viso in schizzi sottili, fino a quando non udì bofonchiare, da quella poltiglia tumefatta e sanguinolenta.
«Basta, ti prego! Basta! Mi arredo, mi arrendo!»
Titus sospirò, rimettendosi in piedi.
"Cosa farebbe un cavaliere? Il nostro era un duello all'ultimo sangue, ma il mio avversario si è arreso." La luce delle fiaccole illuminava l'acciaio della spada corta e gli occhi della ragazza, quasi risvegliata dal suo torpore alle suppliche del suo aguzzino.
Titus raccolse l'arma del nemico e con quella liberò la fanciulla, tranciando le corde che la tenevano prigioniera.
«La pena sia commisurata al reato.» esclamò, offrendo alla giovane lo strumento che aveva portato morte e sofferenza nella sua famiglia.
Lei strinse l'elsa senza esitare e a carponi si chinò sul suo carnefice.
«Amore-» disse lui, con voce tremante prima che la lama affondasse e l'uomo e la carne gemessero all'unisono.
«Ti prego- ti prego- io lascerò il villaggio, io-» nuovamente la lama affondò.
Per venti volte la spada si fece largo fra le sue viscere, in un'orchestra di urla e sangue. La ragazza piangeva a dirotto mentre la sua vendetta bruciava a vivo fuoco. Solo alla fine la spada squarciò la carne tenera della gola mettendo fine alle urla, mutandole in un gorgoglio soffocato.
Titus si slacciò il mantello bianco e lo ripose sulle spalle della fanciulla, per poi stringerla a sé in un abbraccio.
Esaurito il vigore della sua furia, non era rimasto che un corpicino fragile e provato, da cui la sofferenza sgorgava fuori come la pioggia da una tempesta d'estate.
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