uno: deserto

Ricordo quando ci siamo conosciuti.
È stato tantissimo tempo fa, che se solo provo a pensarci, vedo tutto sfocato.
A casa mia le cose non andavano per niente bene: vivevo in una tipica famiglia dei sobborghi di Palermo. Papà lavorava tutto il giorno in una ditta edile, rigorosamente in nero. Mamma faceva la badante a una vecchia anziana che stava vicino casa nostra. Entrambi guadagnavano una miseria, così ero costretto ad andare a lavoro con mio padre durante i weekend, faceva il giardiniere nelle campagne dei ricchi, ed io, nonostante fossi piccolo, lo aiutavo portandogli l'acqua e strappando qualche erbaccia, lui in cambio mi prometteva cinque euro, anche se alla fine non me li dava mai. In casa mia eravamo in sette: io, mamma, papà, nonna Serafina e le mie due sorelle maggiori, Graziella e Benedetta.
Graziella aveva tredici anni e Benedetta dodici, tutte le scambiavano per gemelle, anche se entrambe odiavano il fatto che tutta la gente del quartiere le scambiasse.
Non ricordo quanti anni avrò avuto, sei o sette al massimo. A casa ero sempre solo, così cominciai a girovagare per le zone del mio rione. Sono cose che succedevano, e succedono, a Palermo.
Andavo a giocare a calcio, in un campetto abbandonato della mia zona, uno di quei posti in cui un genitore per bene non porterebbe il proprio figlio. Ma lì, di gente per bene, ce n'era ben poca. Eravamo un mucchio di bambini e ragazzi senza speranza, costretti a stare in quel posto senza il nostro volere, attaccati a quella terra che sentivamo di non meritare. Da bambino vedi le cose più grandi, e così quel campo diventava la nostra piazza, il luogo in cui potevamo sfogarci e fare tutto quello che volevamo.

Ero piccolo, ma già più maturo dei ragazzi della mia età, anche se in ogni caso erano i più grandi a comandare lì dentro, dettavano le regole, e noi più piccoli dovevamo stare zitti, perché è così che funzionava, a Palermo.
Così, se la palla andava fuori o veniva calciata fuori dal campo o in mezzo alla strada, dovevamo recuperarla noi. Se la palla si bucava, era colpa nostra, e sempre a noi toccava ricomprarla.
Vigevano strane leggi lì, era come se fosse un mondo a parte, alienato da tutto il resto, dove a vincere era sempre più forte e a perdere sempre il più piccolo.
In quella distesa di sabbia e poco verde, conobbi Gino. C'aveva i capelli più neri che avessi mai visto, gli occhiali con la montatura blu e un paio di jeans strappati che metteva un giorno sì e un giorno no. Lo conobbi quando, giocando a calcio, caddi per terra sbucciandomi un ginocchio . Lo vidi avvicinarsi da lontano con quel sorriso che non ha mai smesso di avere, mi tese la mano e mi disse che tutto sarebbe andato bene. Gino viveva nel mio quartiere, ma non lo avevo mai visto, era uno di quelli che non uscivano spesso di casa, uno di quelli che quei posti li evitava.
Un giorno, più avanti, gli chiesi come mai fosse andato lì. Mi disse che aveva sentito parlare di quel luogo ma che aveva sempre avuto paura di andarci, fu sua nonna a dirgli che un po' di calcio con gli altri bambini gli avrebbe fatto solo bene.
«Grazie» ricordo di avergli detto.
Ma lui non mi rispose, mi mise un braccio sulla spalla e mi invitò a casa sua.
È lì che la conobbi.
Alice Riccobono stava seduta sul divano quando varcammo la porta di casa sua.
Sgranocchiava un pacco di patatine, con le gambe incrociate e la tv a massimo volume. Ci vide entrare e non mi salutò nemmeno.
Ancora oggi mi chiedo cosa sarebbe accaduto se Gino non mi avesse invitato a casa sua, se quell'incontro non ci fosse mai stato, se non fossi mai caduto in quel deserto pieno di gente disperata. Ma che senso avrebbe avuto? Non starei nemmeno raccontando questa storia, non avrei mai conosciuto la ragazza che rovinandomi la vita, me l'ha migliorata.
Andammo in camera di Gino, mi mostrò tutta la sua collezione di giochi, tutte cose che io non avevo avuto mai.
D'altronde erano tante le cose che non avevo mai avuto.
Passai tutto il pomeriggio a casa di Gino, ci divertimmo un sacco: mi raccontò di quella volta che era andato al parco giochi e aveva fatto un giro in una giostra per grandi,  di quando, qualche settimana prima, era andato a vedere le oche con suo padre e di quella volta che aveva quasi bruciato i capelli ad Alice.
Alice. Quel nome mi risuonava in testa. Non se ne andava mai.
Ancora non ero conscio di tutto quello che poi, più avanti, sarebbe successo. Non lo sapevo che io, in qualche strano e bizzarro modo, avrei amato quella ragazza dai capelli dorati.
Certe cose nemmeno immagini possano accadere, nemmeno a 7 anni.
Dopo aver giocato e chiacchierato per un pomeriggio intero, tornai a casa. Non avevo un cellulare, e l'unico modo per sapere quando tornare a casa era la luce del sole, quando se ne andava, me ne dovevo andare pure io.
E così salutai Gino, senza ricevere alcun riscontro da parte di Alice.

***

Ed è così che ti ho conosciuta Alì, spero tu possa ricordarlo, ovunque ti trovi.
Spero tu possa capire perché io stia facendo tutto questo.
Perché solo dopo tanto tempo ho capito che quello lì era deserto, anche se pieno di persone, quello era deserto. Perché mancavi tu.

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