quattro: distacco
Arrivò il duemilanove.
La signora Carmela era morta da quasi un anno, e in quartiere non si continuava a far altro che parlare di lei e di come fosse stata ammazzata.
Sì, perché dopo qualche mese la verità venne finalmente a galla: il padre di Gino e Alice aveva veramente ucciso sua moglie, la donna che aveva promesso di difendere per tutta la vita. Lo aveva fatto in silenzio, facendo passare il tutto per un 'incidente', l'aveva imbavagliata, stuprata e poi gettata dalle scale come un sacco di immondizia che occupa troppo spazio. Aveva pure provato a fuggire, lo stronzo, lasciando Gino e Alice dai nonni materni, come se non fossero più un suo problema, come se gli ricordassero, giorno dopo giorno, quello che aveva fatto alla compagna di una vita.
Mi chiedo come si possa arrivare a compiere un gesto del genere. Di solito, quando due persone si sposano lo fanno per poter stare assieme tutta la vita, ripetono anche quella filastrocca che dice qualcosa come 'in salute o in malattia' e qualche altra minchiata che adesso non ricordo.
Alice non uscì di casa per giorni, non venne nemmeno più a scuola. Chi lo avrebbe mai detto che quelle vecchie megere di quartiere stavano dicendo la verità. Un giorno sei felice e l'altro ti trovi con la madre morta e un padre assassino costretto a marcire tutta la vita in galera.
Ogni tanto vedevo Alice dalla finestra della sua stanza, passava ore a guardare il cielo, con la testa china sulla mano sinistra che le faceva da poggiatesta. Il suo sguardo era assorto, perso nel vuoto di quegli occhi azzurro, le labbra serrate di chi non parla nemmeno con sé stesso. E io stavo lì, dietro l'albero della strada che portava al campetto, a vederla arrotolarsi quelle ciocche di capelli. Gino sembrava aver preso meglio la cosa, al campetto ogni tanto passava, veniva a giocare un po' a calcio a cinque.
«Lei non sta bene» mi informò una volta «Da quando è venuta zia a stare con noi la situazione è più complicata»
Zia Maria era la sorella della madre di Gino e Alice, era una donna di carriera che non aveva mai avuto figli (o la pazienza per gestirli) e, purtroppo, questo si vedeva. Gino mi raccontò di quella volta che bruciò il pollo che doveva dar loro per cena, alla fine mangiarono patatine fritte comprate al discount, o di quella volta che dimenticò di chiudere l'acqua della doccia, allagando l'intera casa. Faceva la giornalista, una di quelle importanti, che stanno in televisione e che viaggiano molto, ma aveva comunque deciso di badare ai propri nipoti dopo la morte della sorella.
Provai a entrare in casa, una volta. Dissi a Gino che avevo voglia di giocare con la PlayStation, che mi mancavano le nostre maratone che si protraevano per interi pomeriggi, ma in realtà volevo solo vedere lei, la ragazza che, per la prima volta, mi aveva ascoltato, che si era seduta nel marciapiede insieme a me, la ragazza che, come la madre, amava le peonie.
Ma Gino non accettò il mio invito, mi disse che Alice non aveva voglia di vedere nessuno.
Il tentativo, inutile dirlo, fu vano. Alice non voleva vedere nessuno, preferiva passare le giornate dentro quelle quattro mura, come se la proteggessero da tutto il male che c'era fuori.
Però lei, il male, lo aveva sempre avuto proprio dentro quelle quattro mura. Ci aveva convissuto, mangiato insieme, lo aveva chiamato 'papà'.
Non passò molto tempo e Alice cominciò a farsi vedere in giro. Una volta la vidi con una busta per la spesa mentre si dirigeva verso casa, pensai di fermarla, di chiederle come stesse, ma il pensiero fu cacciato dalla voglia di non disturbarla, dentro di me lo sapevo che non era ancora arrivato il momento di parlarle.
Mamma mi diceva sempre che con il lutto non vivi ma sopravvivi, e Alice stava sopravvivendo, stava provando a ricucire i fili della sua vita.
Aveva bisogno di essere salvata.
E, a salvarla, volevo essere io.
La rividi due settimane dopo, nello stesso marciapiede in cui l'avevo incontrata il giorno della morte della madre. Sfogliava un fumetto, uno di quelli che vendevano in edicola al prezzo di un euro. Aveva tagliato i capelli, la lunga chioma che le accarezzava la schiena era scomparsa e ora sfiorava a mala pena le spalle. Era più magra, anche se non si notava, la maglia larga che indossava nascondeva le costole a vista e le braccia minute, sorrideva a stento, gli angoli del viso erano smussati dal dolore di una perdita così grande.
Provai ad avvicinarmi di nuovo.
«Ciao Alì» sentii la mia voce rimbombare nel silenzio della strada.
«Che vuoi ora?»
«Ti volevo chiedere come stai»
«Come devo stare Michè?"
Michè. Fu la prima volta che le sentii pronunciare il mio nome. Prima d'allora non lo aveva mai fatto, non si era mai rivolta a me in quel modo. Nessuno si rivolgeva a me come lo faceva lei, nemmeno Gino. Lei mi vedeva.
«Se vuoi io ci sono, pure per parlare, pure per stare insieme. Tu ci vuoi stare assieme a me oppure no?»
Ricordo la sua titubanza nel rispondere.
«Tu stai con Gino»
«Ma mica perché sto con Gino non posso stare con te»
Si alzò di scatto e guardandomi dritto negli occhi mi disse quella frase, una di quelle che non avrei mai più dimenticato.
«Quando hai un amico, ne hai uno solo, uno e basta»
Uno e basta. È questo che pensava Alice. L'amicizia non poteva essere condivisa con altri, era un rapporto a due, uno scambio reciproco che non ammetteva terzi in comodo.
«E allora lo lascio stare a Gino»
«Ma tu sei amico suo, non lo puoi fare»
«E chi te lo ha detto che non lo posso fare?»
«È la regola dell'amicizia, l'amico è uno ed è per sempre»
«E allora tu perché non hai nessuno?» chiesi guardandola dritta negli occhi
Esitò un momento. Giusto il tempo di pensare una risposta per una domanda così difficile.
«Perché il mio amico deve ancora arrivare»
«Io qua sono» risposi prontamente risultando sicuramente impacciato
Ed è in quel preciso momento che avvenne il distacco. Alice mi mise davanti a una delle scelte più difficili della mia vita. Abbandonare l'unica persona che mi aveva trattato bene e che mi aveva salvato in quel deserto di disperati, il tutto, per poterle essere amico.
E fu così, con un ricatto, che cominciò la nostra storia. Una storia fatta di alti e bassi, di momenti di gioia alternati a momenti di profonda tristezza, di allontanamenti, rappacificazioni, amori.
«Allora stringimi la mano, dobbiamo fare il patto»
«Che patto?»
«Tu ascolta a me, e ripeti» disse afferrandomi la mano «Io per te, tu per me, è questo il patto che noi giuriamo, nei giorni brutti e in quelli che amiamo»
«I-Io per te, tu per me, è questo il patto che noi facciamo, nei giorni brutti e in quelli che amiamo» ripetei
«Giuriamo» precisò Alice «devi dire giuriamo»
«Questo è il patto che noi giuriamo»
E fu così che lasciai stare Gino.
Lo abbandonai a favore della sorella.
Senza un motivo preciso, come fanno molti ragazzini di quell'età, senza pensare alle conseguenze di un atto così tanto innocente.
«Allora ci vediamo domani» disse Alice dandomi una pacca sulla spalla
«A domani» sussurrai vendendola scomparire tra le vie del quartiere .
***
Chissà che cosa sarebbe accaduto se non avessi mai preso quella scelta, o meglio, se al posto di Alice avessi scelto Gino. Di certo non sarei qui a raccontare questa storia. Sicuramente non lo vorresti nemmeno tu Alì, tu che odiavi tutte le cose scritte perché non lasciavano trasparire, a detta tua, le emozioni che si provano.
Chissà se i nostri destini si sarebbero incrociati allo stesso modo.
È questa una di quelle domande che io mi faccio ogni giorno.
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