Un mese dopo
Un mese dopo
La ricamatrice va a pieno regime e io corro da una parte all'altra per fare in modo che nessuna delle sedi di lavoro del macchinario rimanga inattiva. Di tanto in tanto guardo verso lo scaffale, anche questa è diventata un azione automatica. Spero sempre che Sonia esca dal suo perimetro protetto per poterla vedere almeno un momento.
Non riesco ancora a credere che adesso stiamo insieme, è successo tutto così velocemente. Sono cambiate molte cose nella mia vita, oltre al fatto di avere trovato una ragazza. Non mi nascondo più dalla gente, esco la sera, riesco a ordinare qualcosa al bar... e in mensa non mi siedo più da solo, ma con lei. Sonia per ora non vuole che alla Tex si sappia della nostra relazione; teme per il suo nuovo posto di lavoro, la capisco, ma almeno non teme di farsi vedere con me. Oggi abbiamo anche avuto compagnia: Mario e il responsabile del magazzino si sono seduti a tavola con noi. Non è mica male scambiare quattro chiacchiere ogni tanto.
Questo pomeriggio a fine turno però, non potrò accompagnare Sonia al parcheggio e rubarle almeno una carezza prima che prenda la sua auto per tornarsene a casa: il titolare mi ha chiesto di passare nel suo ufficio e non ho idea di quanto tempo ci vorrà.
A lei ho cercato di non darlo a vedere, ma questa cosa mi preoccupa: essere convocati in ufficio dal capo raramente è buon segno.
Negli ultimi giorni non si fa altro che parlare del nuovo stabilimento che la Tex sta per aprire in Messico, pare che ormai sia cosa fatta.
Che il titolare voglia fare dei tagli al personale qui da noi?
Ma in quel caso avrebbe dovuto invitare in ufficio anche altri dipendenti, che senso avrebbe fare fuori solo me?
Ma se invece... vuoi vedere che è per quei dannati di scarti di produzione? Ma no dai, non ci voglio credere. Sonia è l'unica che mi abbia beccato. Va bene non le ho mai dato spiegazioni, né lei me ne ha mai chieste, però non vedo ragioni per cui avrebbe dovuto raccontare in giro una cosa così.
Per quanto mi sembri sciocco che l'appropriazione indebita di scarti di produzione possa essere la ragione della mia convocazione, mi metto al sicuro levando dallo zainetto i tessuti difettati che ho messo via oggi. Li cestino e tiro un sospiro di sollievo.
Non vedo l'ora che finisca questo turno così potrò scoprire di che si tratta. Faccio per guardare l'orologio tarocco che ho al polso, quando un latrato ben noto scaccia la mia ansia per l'incontro col boss. Giorgio!
«Non ti azzardare a rispondermi!» è il grido animalesco che mi giunge alle orecchie. Voglio illudermi che non ce l'abbia con Sonia stavolta, ma la mia speranza dura meno di un istante perché ora la sento spolmonarsi: «Tu non hai il diritto, non sono tua proprietà!»
Che diavolo significa? Corro verso il mega scaffale e lo aggiro, sbuco incontro al bastardo.
Quando Giorgio mi vede, assume le sembianze di un rettile che abbia puntato un ratto, ma non è questo che mi sconvolge. No, non è Giorgio che mi fa crollare come un castello di carte, ma è Sonia. È come se in questo momento io sia l'ultima persona che avrebbe voluto vedere apparire. I suoi occhi mi dicono che teme più me che la furia del capo reparto.
Giorgio supera l'istinto primario di offesa e sulla sua bocca si forma un sorriso crudele. «Non ti scomodare a fare l'eroe,» mi dice superbamente calmo «se metti un po' in moto il cervello, ammesso che non ti sia scivolato nei pantaloni, ti accorgerai che questa signorina non lo merita. Leggi tra le righe Ernesto».
Sonia abbassa la testa e torna alle rocche che vorticano sui bracci del macchinario. Si affanna a sostituire quelle piene con dei coni vuoti, ma è chiaro che la sua è solo una valida trovata per la fuga.
Do una sberla a dei coni di filato allineati su un tavolo, i coni schizzano dappertutto. Non mi degno di mortificarmi nemmeno quando vedo due colleghi che si sono affacciati da altri meandri del capannone per curiosare, con ogni probabilità attratti dal baccano.
Torno al mio posto.
Non sento più voci adesso. Mi domando se stanno discutendo in maniera più contenuta o se Giorgio se n'è andato via.
Alle diciassette spaccate, spengo la ricamatrice e filo verso l'ufficio del boss schivando Sonia. Un problema alla volta per la miseria!
Busso alla porta nera laccata. Attendo che da dentro mi giunga un 'avanti' e mi infilo nella stanza in cui ogni cosa, dalle vetrate oltre la scrivania al più piccolo dei suppellettili, luccica di immacolato.
Il titolare dell'azienda muove il mouse del suo PC. Di fianco ha una pila ordinata di fascicoli. Fa qualche clic e distoglie l'attenzione dal monitor per concentrarsi su di me che sono un fascio di nervi.
«Signor Silvestri,» mi fa amichevole e mi allunga la mano. La mia è unta di grasso e sudore, non ho nemmeno pensato a darmi una lavata, ma me ne frego. Gliela tendo e emulo l'energia della sua presa.
«Ernesto,» mi dice prendendo una via più confidenziale, ma poi mi dà del lei: «L'ho convocata per metterla al corrente dei cambiamenti di organigramma che stiamo compiendo in azienda.»
Serro le mascelle nell'attesa che sputi fuori tutto.
«Nello specifico, ciò che intendo proporle è di sostituire il signor Giorgio Sabini nel ruolo di capo reparto.»
Inclino la testa da un lato. «Cosa?!»
«Non si preoccupi, non si tratta di rubare il posto a nessuno: Giorgio sarà via per un po' di tempo per avviare il nostro nuovo stabilimento Messico. A dirla tutta è stato proprio lui a suggerirmi chi potesse sostituirlo, un paio di mesi fa. E a dire ancora di più, all'inizio io non ero così sicuro di poter puntare su di lei. Ma Giorgio mi ha garantito riguardo la sua serietà e infine mi ha convinto della sua dedizione al lavoro. Certo temevamo la sua timidezza, ma credevamo anche che una promozione di questo tipo potesse spronarla, del resto lei è molto giovane. Ho esitato a lungo a comunicargliela, ora però siamo giunti al capolinea. Giorgio partirà tra due settimane e se lei accettasse l'incarico dovrebbe iniziare a subentrare. Allora cosa ne pensa, se la sente?»
La mia recente sicurezza vacilla, sento la bolla incombere sul di me e il suo peso mi incurva le spalle.
«Sì» mi sento rispondere. Seguono delle congratulazioni e una serie di disposizioni e suggerimenti che mi rimbombano nella testa. Annuisco di continuo e in tutto ciò riesco a dire solo che farò del mio meglio.
Mi mordo la lingua fino a sentire dolore. L'autoradio pompa un ritmo sincopato che spezzo con un urlo di rabbia. I complessi e le insicurezze, che Sonia aveva spazzato via, sono tornati da me e stanno bussando alla porta.
Mi fermo al bar Oasi e vado al bancone, devo capire come sono messo. Gioia mi scoppia un palloncino in faccia col chewingum. Pianto un pugno sul piano di marmo.
«Una bionda piccola,» dico e poi: «devo lavarmi le mani, posso usare il bagno?»
Lei alza un sopracciglio come se fosse sorpresa della mia eloquenza e mi dà le chiavi.
Le afferro, felice di sapere che ho ancora il dono della parola. Almeno quello, Sonia non se l'è ripreso. La felicità invece, me l'ha fatta solo assaggiare. Ripenso a quello che ha gridato a Giorgio: 'Non sono tua proprietà' e accolgo la consapevolezza della ragione più ovvia per cui avrebbe potuto dirglielo, ragione confermata dal suo sguardo carico di vergogna quando mi ha visto arrivare: hanno avuto una storia.
Ma quando è successo? Le opzioni sono solo due: prima di incontrare me oppure durante la nostra relazione. In entrambi i casi la cosa non mi piace, se fosse stato prima avrebbe dovuto dirmelo, altrimenti, beh altrimenti sono stato un povero fesso.
Dopo essermi lavato e asciugato le mani contro i pantaloni, controllo il cellulare e trovo due chiamate perse. È Sonia. Torno al bancone e trovo una birra senza un avventore accanto.
«È la mia?» chiedo e Gioia dice di si.
Ne ingoio mezza e scanso le noccioline che sono vicino al bicchiere.
«Ehi! Tutto a posto? Ho saputo che il Capo ti ha chiamato in ufficio» sento mentre una mano mi si posa su una spalla.
Mario mi lascia la spalla e mi affianca. Avrà visto la mia macchina parcheggiata fuori e, ficcanaso com'è, deve essersi fermato apposta per appurare qualcosa.
«Una birra anche per me» dice a Gioia.
«Niente di che» rispondo «vuole cambiarmi mansione.»
«Ah, tutto qui? Ok allora. Questa storia del Messico sta mandando in paranoia tutti quanti.»
Finisco la mia birra in un colpo solo.
«Ne bevi un'altra con me?» mi fa Mario. «Devo dirti una cosa.»
«La birra volentieri, ma di stronzate non sono in vena.»
«Niente stronzate, è una cosa seria.»
Richiama Gioia alzando un braccio e ordina da bere indicandole il mio bicchiere vuoto. La sua mimica mi ricorda me stesso fino a qualche tempo fa e mi fa tenerezza.
«Prima, al parcheggio della fabbrica, c'erano Giorgio e Sonia che litigavano» spara dopo che abbiamo fatto tintinnare i calici.
«Immagino, ma non mi interessa.»
«Dovrebbe invece, perché hanno messo in mezzo te.»
Il mio tentativo di essere superiore muore. Non lo invito a continuare, ma tendo le orecchie.
«Giorgio le ha urlato in faccia che è una troia e un'opportunista. Allora lei gli ha gridato che tra loro era stata solo un'avventura e che comunque la loro storia non avrebbe avuto futuro perché presto lui sarebbe dovuto partire.»
«Scusa, quand'è che s'è parlato di me?»
«Un attimo, adesso ci arrivo! Dunque, Giorgio l'ha accusata di scoparsi te solo per farsi parare il culo in azienda... E le ha detto che ha fatto lo stesso con lui per riuscire ad entrarci. Si è tirato dei pugni in testa e si è dato più volte del cretino dicendo che non avrebbe mai dovuto dirle di te, di come lui stesso ti aveva raccomandato alla Direzione per non so cosa... Le ha ribadito ancora quanto fosse troia e lei ha risposto che preferiva un povero demente che si infila gli scarti di produzione nello zaino per portarseli a casa, piuttosto che uno stronzo come lui... Ma davvero ti freghi gli scarti di produzione?»
Stupido, stupido, stupido! E' l'unica cosa che riesco a pensare di me stesso e me lo ripeto allo sfinimento, un po' a mente un po' a voce, dato che adesso parlo anche da solo. Prendo a pugni l'aria e faccio impaurire un cagnolino che è uscito in strada. Bravo bello, tornatene a casa che qui è pericoloso per te, le automobili sfrecciano come in pista. Io invece vado a piedi: ho lasciato la mia davanti al bar perché con Mario, alla fine, ci siamo lasciati prendere la mano tra birre e Campari. Non mi ha raccontato quelle cose per amicizia, né per rispetto, ma solo per mettermi nella stessa sua condizione di sofferenza e potermi parlare a sua volta dei suoi guai.
E' davvero così oppure è la collera che mi sta incattivendo?
Barcollo un poco, ma la rabbia mi fa camminare svelto, mi dà energia. So che quando svanirà rimarrà solo amarezza e quella sì è tremenda.
Apro la porta di casa e tiro dei profondi respiri. Sgancio un sorriso. La mia sorellina esulta e mi corre incontro con le braccia in alto. Mi segue in soggiorno e mi zompetta intorno mentre mi levo lo zainetto dalle spalle.
«Mi spiace piccola, oggi niente tende per il villaggio delle fate.»
Le sue guance si sgonfiano nello spegnersi dell'allegria, la sua euforica danza si ferma. Guarda desolata la tendopoli fantasy che si sviluppa sulle tre mensole di un vecchio mobile a cui abbiamo levato le ante. Delle mini scalette di corda ne collegano i livelli. Al secondo ci sono due fatine giocattolo.
Apro lo zaino.
«Hai preparato la lettura che ti ha detto la maestra?»
Annuisce accarezzandosi le manine in un modo che mi svela la sua impazienza di vedere quel che tirerò fuori.
«Allora questa sera dopo cena ci sgranocchiamo questa», le mostro una tavoletta di cioccolata. «Però non farci l'abitudine, domani ci rimettiamo al lavoro per costruire la bottega delle fate.»
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