X. Tutto muore
“𝓔, 𝓽𝓾𝓽𝓽 ’𝓪 𝓾𝓷 𝓽𝓻𝓪𝓽𝓽𝓸, 𝓵 ’𝓮𝓼𝓽𝓪𝓽𝓮 𝓬𝓸𝓵𝓵𝓪𝓼𝓼𝓸’ 𝓲𝓷 𝓪𝓾𝓽𝓾𝓷𝓷𝓸.”
𝓞𝓼𝓬𝓪𝓻 𝓦𝓲𝓵𝓭𝓮
*
Kenton era rimasto un’eternità sdraiato sul pavimento di marmo gelido, a gemere piano per le percosse ricevute e per la perdita di Cedric che gli faceva male al petto. Se ci fosse stato lui, l’avrebbe aiutato ad alzarsi e rimesso a letto. Se ci fosse stato lui, avrebbe protestato, provato a colpire Hunter, sarebbe intervenuto in suo soccorso. Lui, però, non c’era.
Così, dopo che furono passate ore, il ragazzo si fece forza e, con i muscoli e le ossa che gridavano di dolore, riuscì a mettersi a letto. Aprì il suo libro, ormai agli sgoccioli, nella speranza di trovare qualcosa al suo interno. Non fu deluso.
Le dediche di William, i suoi messaggi d’amore e gli appuntamenti clandestini, erano tutto ciò che l’avrebbe potuto mandare avanti in quel momento, che avrebbe potuto scaldare il suo cuore.
‘Per un istante d’estasi
Che prezzo d’angoscia paghiamo
Nella stessa misura, fremente
Di quell’istante d’estasi.
Per un’ora che fu la più cara
Quali aspri compensi per anni,
Che amari spiccioli contesi
E che scrigni colmi di lacrime.’
Ardo per sempre nell’attesa di te.
Sei in punto, aula studio,
W.
L’aula studio, deserta alla domenica, era un luogo dove i più diligenti dei ragazzi potevano recarsi per portarsi avanti con i compiti, lo stesso Kenton la aveva sfruttata varie volte. Quel giorno di lutto, quella domenica pigra decembrina, nessuno si sarebbe avventurato sin lì, lui lo sapeva bene.
Alle sei e mezza ci sarebbe stata la cena, e i ragazzi sarebbero stati in dormitorio o nelle aree comuni a parlare, leggere, commentare ciò che era successo. Avrebbero avuto mezz’ora da soli prima di scendere alla mensa per la cena, dove avrebbero dovuto fingere di non essere l’uno per l’altro la gioia e il dolore, il peccato e l’assoluzione. Tremenda, dolce tortura che li legava l’uno all’altro, attratti da un magnetismo potente e segreto, un mistero da tenere nascosto tra le ombre del collegio.
Kenton non dovette attendere molto, per l’ora designata. Quando furono le sei, si alzò a fatica e, tremante dal dolore, attraversò gli androni di ragazzi chiacchierini e scese, maldestro e un po’ rigido, una rampa di scale.
L’aula studio si trovava nell’androne della biblioteca, proprio di fronte ai locali adibiti alla lettura. Lunghe tavole dotate di lumino si trovavano intervallate da divani antichi; un centro ricezione e scrittura lettere con tagliacarte, buste e carta da lettera, calamo e inchiostro; un atlante e un aggiornato planisfero; infine un grande crocifisso appeso al muro che dava solennità a quell’ambiente tanto singolare.
Dalle finestre aperte penetrava una luce fioca filtrata da nubi, e William stava sdraiato su uno dei divani, mollemente abbandonato con le gambe che dondolavano da uno dei braccioli, una mano dietro la testa, ed era bellissimo.
“Chiudi la porta?” gli chiese, quando lo vide entrare, e Kenton obbedì girando la pesante chiave in ottone nella serratura. “Non si sa mai.”
“Bill,” gli disse, sentendo il peso di quella giornata che iniziava ad attenuarsi, scivolandogli via dalle spalle.
“Vieni qui,” rispose l’altro, facendogli segno di sdraiarsi insieme a lui. “Stai un po’ con me.”
Lo capì allora, avvicinandosi e giacendo con lui su quel divano spazioso, le braccia di William che lo sostenevano per non farlo finire sul tappeto e le sue labbra sul collo. Lo capì osservandolo da vicino, senza filtri, la pelle bianca e gli occhi due pozzi neri, le labbra pallide e voluttuose, le dita lunghe e affusolate che lo stringevano: William era bello come un cadavere.
Sembrava che tutto in lui fosse stato sistemato per l’ultimo riposo. La divisa grigia e navy del Saint Cuthbert lo fasciava come un abito, i capelli erano sistemati a dovere, la pelle pallida costellata di piccoli nei era liscia e piacevole al tatto, e lui era bello, tanto bello da sembrare morto.
La prima volta che l’aveva visto aveva pensato che il suo tocco sarebbe stato gelido, ghiacciato, come una mattinata di Novembre. Lui era l’autunno dopotutto, e come tale aveva un’aria nebbiosa, crepuscolare.
Eppure, il solo sfiorare delle sue dita sulla pelle lo bruciava.
“Tutto bene, principino?” gli chiese, passandogli le dita tra i capelli biondi.
Fu allora che Kenton si sciolse in pianto. La corda che l’aveva tenuto insieme si spezzò, ogni fibra del suo cuore pulsante si strappò, e la perdita del suo amico e la tortura subita crollarono su di lui, frantumandolo in tanti piccoli pezzi che William avrebbe tenuto insieme.
Si aspettò che lo sgridasse allora, come i suoi insegnanti e suo padre prima di lui. Gli uomini non piangono, ripeté la voce di tutti quelli che l’avevano preceduto.
Invece lo sorprese.
“Ehi,” gli disse, stringendolo e sussurrando parole di conforto nel suo orecchio. “Mi dispiace, mi dispiace. Ci sono io con te, ora. Mi dispiace, principino, mi dispiace così tanto…”
Kenton prese a singhiozzare, tanto che temette che qualcuno potesse sentirli, chiusi a chiave in quella stanza. Cercò di trattenersi, di non tremare, William aveva iniziato ad accarezzargli la schiena e continuava a mormorare al suo orecchio.
“È tutto a posto, ci sono io con te. È tutto a posto. Sei al sicuro qui, siamo al sicuro. Piangi pure quanto vuoi.”
Così lui lo fece. E William lo tenne a sé, facendogli male perché era ancora tumefatto dalla rappresaglia di ore prima, ma non gli importava. Il ragazzo era vicino a lui, lo stringeva tra le braccia, e un po’ di dolore valeva certo la candela per essere confortato in quel modo affettuoso, che gli faceva sciogliere il cuore.
Quando non ci furono più lacrime da versare per Cedric, per la solitudine, per Hunter, per tutto lo stress senza fine di quei giorni, William si separò da lui, tenendogli una mano dietro la schiena per dargli un appoggio e non farlo finire fuori dal divano. Si sporse in avanti e gli baciò entrambe le guance bagnate. Kenton si sentì avvampare.
“Meglio?”
Il ragazzo annuì. “Grazie.”
Il sorriso che gli rivolse a quel punto fu abbagliante. “Sempre, per te.”
Fu così che Kenton posò le labbra sulle sue. Si avvinghiò a lui e lo baciò, un bacio che restò nella dolcezza di quell’atto, senza scaldarsi questa volta, un bacio lento fatto di carezze, di lingue e di sospiri.
Kenton sentì il peso che gli schiacciava il cuore alleviarsi, l’angoscia che provava in parte evaporare, sparire come nebbia a fine febbraio.
William continuò a modellarlo con le sue mani, senza neanche provare ad accendere il bacio come tutti i precedenti, a far scivolare le dita sotto i vestiti, rispettando il tempo del suo lutto.
Quando i minuti passati furono abbastanza, quando, troppo poco tempo dopo, fu ora di recarsi in mensa per la cena, Kenton dovette farsi forza e alzarsi in piedi.
La sua carne, ancora provata dalle percosse, protestò per lo sforzo, ma lui si alzò comunque con un gemito di dolore. “Mi dispiace per quello che ti hanno fatto,” gli disse, vedendolo soffrire. “Avrei voluto fare qualcosa, ma non sapevo come.”
“Non fa niente, anzi, meglio. Non voglio che ti metta nei guai per me.”
“Tu l’hai fatto. Ti sei messo nei guai per me. Hunter ti ha menato perché mi hai difeso.”
“Non riesco a stare a guardare quando ti accusano senza prove.”
“Troveremo chi è stato. Lo troveremo e non dovrai più farti del male per proteggermi. Dobbiamo solo stare un po’ allerta, il colpevole si rivelerà.”
“Non dobbiamo esporci troppo. Cedric ha iniziato a fare domande nelle cucine, si è messo a indagare, e vedi com’è finita…”
“Tu dici che le cose potrebbero essere collegate?”
“Non lo so, può darsi. Scotland Yard mi ha chiesto degli incidenti, loro credono che potrebbe esserci un collegamento.”
“Indagherò anch’io. Troverò chi mi accusa, te lo prometto.”
“Devi stare attento. Non fare niente di troppo pericoloso.”
“Starò attento. Non devi avere paura per me, ho la pelle dura,” disse, abbozzando un sorriso. “Sarà meglio andare ora. Se manchiamo entrambi troppo…”
“Sì. Andiamo a mensa. Esco io per primo.”
William annuì, poi si portò una mano al petto. “Al nostro prossimo incontro, principino.”
*
Il pasto a mensa fu miserabile, senza Cedric. Sedersi alla lunga tavolata senza nessuno con cui parlare, trangugiare le fettine al latte e la zuppa di cavolo senza potersi lamentare del sapore, vedere il posto sulla panca vuoto, il suo solito posto che nessuno aveva avuto il cuore di occupare.
Non aveva fame, per cui mangiò poco. Gli inservienti, per una volta comprensivi, non lo misero in punizione per questo. Doveva avere un aspetto orribile, l’aria sbattuta, e gli occhi assenti. Il pianto l’aveva rinfrancato, ma si era pentito di averlo fatto, di essersi mostrato tanto vulnerabile.
William, da qualche posto più in là, ogni tanto gli lanciava un’occhiata di sfuggita senza dir nulla. Era seduto con i ragazzi di un’altra camerata, con cui stava iniziando ad andare d’accordo, e Kenton si sentì solo per un attimo geloso, come una piccola puntura di ago sul cuore, che gli diede un minuscolo pizzico al petto.
Quella gelosia insensata e stupida non l’avrebbe portato da nessuna parte, lo sapeva. William aveva tutto il diritto di farsi degli amici, così come Kenton aveva i suoi. Si sarebbe dovuto sentire felice per lui, eppure aveva paura di essere sostituito, in qualche modo. Dopo aver perso Cedric, non poteva permettersi di perdere anche l’amante.
Quando la cena finì, andò dritto a letto, anche se era molto presto. Si cambiò, davanti a tutti come sempre, ma non si sentì nudo, non come si era sentito nudo quella volta nella sala della musica il giorno precedente, la notte che era successo tutto.
Si infilò nel letto mentre tutti intorno a lui continuavano a chiacchierare e parlare, e William leggeva seduto sulla sua branda la sua copia di Proserpina, il dramma di Mary e Percy Shelley, all’apparenza disinteressato a lui e a ciò che aveva intorno.
Kenton non trovò le forze di finire il suo romanzo, di cui restavano poche pagine, ma lo aprì a letto per dare un veloce sguardo alle frasi d’amore che erano state inserite tra i capitoli, che come sempre gli fecero tremare il cuore.
Il sapere che gli erano stati dedicati dei versi, quelle frasi d’amore dirette proprio a lui, le ultime parole di quel giorno ‘ardo per sempre nell’attesa di te’, gli provocavano dei brividi lungo la schiena, una pelle d’oca al solo pensiero, come se delle dita ghiacciate lo avessero sfiorato sotto i vestiti.
Chiuse il suo libro ancora e si assopì, le candele dei suoi compagni ancora accese, e il chiacchiericcio nell’aria.
Quando si svegliò, era piena notte. Tutto intorno a lui era buio e silenzio. La prima cosa che fece fu cercare Cedric con lo sguardo, com’era abituato, e al vedere il suo letto vuoto il suo cuore fece un tuffo. Non appena si rese conto del perché il suo amico non stava occupando il suo letto, che non l’avrebbe occupato più, si fece prendere dall’angoscia di nuovo.
Sospirò, rigirandosi nel letto, e serrando gli occhi più forte. Non riuscendo a riaddormentarsi, sospirò ancora. Decise di alzarsi allora, di andare al letto di William e osservarlo nel sonno. Sapeva che sarebbe stato inquietante da parte sua, che forse il ragazzo non avrebbe gradito, ma era stato William stesso a farlo con lui giorni prima, e pensava che vederlo dormire sereno, capire che stava bene, lo avrebbe rassicurato.
Si avvicinò alla sua branda e, quando la trovò vuota, il suo cuore si fermò. Il suo pensiero corse a quello che gli aveva detto quel giorno, ‘indagherò’. Il compagno doveva essere sgattaiolato via nella notte per indagare, e toccando il suo letto si accorse che le lenzuola erano fredde, doveva essere via da un po’.
Il sangue gli si gelò nelle vene.
Stupido, stupido, stupido.
Quanto poteva essere avventato, girare di notte con un assassino a piede libero? Girare di notte per scoprire la verità, come aveva fatto Cedric, sapendo com’era finita? L’immagine di William dal corpo straziato come quello del suo amico, spoglio degli abiti, con i crocifissi infilati con violenza nella gola e nel retto, lampeggiò nella sua mente.
William strangolato, morto, abbandonato sull’altare.
Non poteva permetterlo.
Tornò verso il suo letto e prese la candela di Cedric, a lui non sarebbe più servita. La accese con l’acciarino e camminò verso l’uscita.
I corridoi del collegio, freddi e silenziosi, spogli di quadri, lo ingoiarono intero e lo digerirono mentre camminava nelle loro viscere, verso nessuna meta precisa.
Si affacciò ai servizi, senza trovarlo, e continuò a vagare. Scese le scale alla luce tremula della candela, e quando fu lontano dai dormitori lo chiamò. “Bill?”
La sua voce echeggiò, sommessa ma chiara, per l’androne silenzioso.
“Bill?”
Mille scenari tragici e strazianti gli affollarono la mente, scenari in cui lo perdeva per sempre. Arrivò all’aula studio dov’era stato quel pomeriggio, e là si fermò. Esitò davanti alla porta, travolto dai sentimenti che l’avevano invaso quando era stato là con lui, i ricordi dolci che lo calmavano, poi la vide.
La porta della biblioteca, socchiusa, uno squarcio nella realtà e una ferita aperta verso un mondo d’orrore.
“Bill?” chiamò, affacciandosi all’interno. Tutto era silenzioso e buio, e la candela illuminava solo una piccola porzione della sala.
Non ricevette risposta, ma qualcosa dentro di lui lo esortò a continuare.
“Bill? Sei qui dentro?”
Si infilò tra gli scaffali colmi di volumi, ombrosi e alti sino al soffitto affrescato. Vi era un buio più denso là dentro, quasi solido, perché gli scaffali coprivano la luce fioca che entrava dalle finestre sulla strada. La sua piccola fiammella illuminava quel poco che si trovava intorno a lui, nel raggio di pochi metri, poi regnavano le ombre e il buio.
“Bill?”
Svoltò l’angolo tra gli alti scaffali in legno antico, verso la direzione dei classici russi. Non si preoccupò di farsi sentire anche sapendo che, al posto di William, avrebbe potuto sentirlo l’assassino. Non gli importava.
Fu questo il suo errore. Perché la persona che lo sentì vagare in biblioteca, acquattata nell’ombra, era proprio l’artefice di quei crimini efferati, e gli fu chiaro da subito quando la trovò.
La prima cosa che vide fu rosso. Rosso ovunque, sugli scaffali, sul tappeto del pavimento, sul corpo martoriato. Anche quel corpo era nudo, e coperto di tagli profondi, croci rovesciate incise sulla carne, che sanguinavano. Un taglio lungo e preciso gli recideva la gola, gli aveva aperto un secondo sorriso sotto il mento, che ora stava aperto e sgorgava sangue rosso e vischioso.
No, pensò. No, ti prego, non lui. Tutti ma non lui.
“Oh, principino,” disse, il sangue sulle mani e la camicia da notte arrotolata sino ai gomiti. “Non saresti dovuto venire qui.”
Hunter era sul pavimento in una pozza del suo stesso sangue, sgozzato come una bestia, il corpo sfigurato dai tagli che lo dilaniavano. William era accovacciato, piegato verso di lui, le mani pregne di sangue ma le vesti pulite, segno di un lavoro certosino.
“Bill,” ripeté, le gambe a un passo dal cedere. “Che cosa…”
“Ti ha fatto del male,” gli disse. “E io l’ho ucciso.”
“No,” mormorò, scuotendo la testa. “No, non è vero. Dimmi che non è vero.”
“È iniziata con una goliardata,” iniziò, alzando le spalle. Alla luce tremula della candela, gli occhi gli brillavano. Nelle mani stringeva una lama scintillante, e Kenton riconobbe il tagliacarte dell’aula studio dov’erano stati quel pomeriggio. “Ho capovolto i crocifissi perché sapevo che li avrebbe fatti impazzire, ero arrabbiato perché i miei mi avevano abbandonato qui. Poi ci hanno punito, e tu mi hai difeso. È stato allora che mi sono accorto che eri diverso. Da allora ho deciso che, se volevo indirizzare queste mie voglie malsane, dovevo farlo per te. Tutto quello che ho fatto dopo, a parte Cedric, l’ho fatto per te.”
“È un sogno. Questo è solo un brutto sogno…”
“Ti avevano preso di mira, così mi sono vendicato. Ho squarciato quei quadri perché sapevo che li avrebbero puniti, tutti tranne te, eri ammalato e non potevi aver fatto quello per cui ci accusavano. Così ho provocato un’altra punizione di gruppo, che tu non avresti subìto, perché ti avevano fatto del male.”
“Ma anche tu sei stato punito. Perché…”
“Non mi importa del dolore. Non mi importa di niente. L’unica cosa di cui mi importa ora sei tu,” gli disse, rigirandosi la lama tra le mani. “Quella bestia maledetta, continuava a strillare mentre avevi la febbre, forse spaventata dalla confusione in dormitorio e dalle tue urla. Tu gridavi di farla smettere, smettere di piangere, e così l’ho fatto. L’ho fatta smettere, e tu sei guarito. Poi c’è stato Cedric.” Kenton trattenne il respiro. “Lui aveva capito. Aveva messo insieme tutti i pezzi, aveva capito di noi e quel che stavo facendo per te. Così ho dovuto ucciderlo. Quanto a Hunter… ti ha fatto del male. Da quando ti ha colpito ho sognato di fermargli il cuore nel petto.”
“Non può essere vero,” ripeté Kenton. “Dimmi che non è vero.”
“Tutto quello che ho fatto, principino, l’ho fatto per te.”
Fu allora che Kenton capì. La verità, quella spaventosa che non aveva voluto accettare, era che William era come l’autunno. I suoi colori erano meravigliosi, aveva in sé la poesia delle foglie cadute, l’odore della terra dopo la pioggia, e i suoi occhi ardevano come braci lasciate a esaurirsi nel camino. Ma soprattutto, William aveva in sé la caratteristica principale dell’autunno, quella che lo rendeva tale, che lo consacrava a quello che era: in autunno tutto muore.
Il ragazzo si alzò e si avvicinò, a passi leggeri. “Non saresti dovuto venire qui,” disse ancora, “mi dispiace così tanto…”
Il tagliacarte nelle sue mani brillò alla luce della candela. William si sporse verso di lui, e per un attimo Kenton pensò che l’avrebbe baciato. Quel pensiero arrivò insieme alla dolorosa, patetica consapevolezza che l’avrebbe lasciato fare. Si sarebbe lasciato toccare da quelle mani sporche di sangue, spingere contro uno degli scaffali, si sarebbe consumato come una fiammata, portato a gemere là davanti al cadavere di Hunter, in una oscena e grottesca unione disperata.
Ma William non posò le labbra sulle sue. “Buona notte, principino,” disse, poi soffiò sulla candela accesa e tutto si fece buio.
Note autrice
Eccoci giuntə alla fine di questo cammino!
Questa storia si tratta di un esperimento, è un genere molto diverso da quelli che scrivo di solito, non sono certa che sia un esperimento riuscito. Ai posteri l’ardua sentenza, direi.
Come Dark Academia diciamo che è un po’ atipico, forse perché è tanto corto, però mi piaceva l’idea di una storia gotica e inquietante di peccato e perdizione, l’idea di un amore malato.
William era già folle, ma il colpo di fulmine per Kenton quando decide di fare prendere una punizione a tutti per difenderlo ha segnato una svolta nella sua follia, che è passata al diventare ossessione malata e disturbante.
Se ci sono cose poco chiare, nella spiegazione finale, chiedete pure! Penso di aver reso tutto chiaro (alcune cose in modo sottile, come il fatto che Kenton non veda la porta aperta della cappella quando va nella sala della musica perché non ha la candela, e la veda solo al ritorno quando c’è William in modo che pensi che il crimine è stato compiuto mentre loro erano dentro insieme), ma se non è così fatemi sapere.
Inutile a dirsi, il pianto che Kenton sente sempre nei suoi incubi è il pianto di suo fratello la notte che l’ha ucciso, e il giorno che era preso da deliri febbrili ha scambiato i versi del corvo Cyril per il pianto di un bambino. Inoltre, la preghiera che recita William quando Kenton è malato è l’estrema unzione in latino, in un disperato tentativo di consacrare la sua anima, nel dubbio che morisse. Il suo delirio religioso è tale che lui crede di averlo salvato in questo modo.
Come detto, sono un po’ incerta su questa storia, l’idea non è neanche mia – grazie ancora, Z01Lanchelot – quindi magari non l’ho scritta al meglio delle sue possibilità. Fatemi sapere cosa ne pensate, i consigli per migliorare sono sempre ben accetti!
Detto questo, tra una settimana esatta, martedì 3 maggio, pubblicherò il terzo e ultimo volume della mia trilogia fantasy, quella di Laidiria. Se non l’avete ancora iniziata, che aspettate?
Grazie per essere arrivatə sin qui e a presto!
P.S. mi sono accorta a posteriori che la ship name di Ken e Bill sarebbe #kill... è una scemenza ma mi ha fatto ridere ahah, sicuramente è adeguata!
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