VIII. Cadaveri

“𝓛 ’𝓪𝓶𝓸𝓻𝓮 𝓭𝓮𝓿’𝓮𝓼𝓼𝓮𝓻𝓮 𝓾𝓷’𝓮𝓽𝓮𝓻𝓷𝓪 𝓬𝓸𝓷𝓯𝓮𝓼𝓼𝓲𝓸𝓷𝓮.”
𝓥𝓲𝓬𝓽𝓸𝓻 𝓗𝓾𝓰𝓸

*

Arrivò la mezzanotte, con la stessa sicurezza con cui il sole tramonta alla sera o sorge al mattino. Arrivò puntuale, scoccò alle dodici in punto, e Kenton si destò sul suo letto che William era già uscito dal dormitorio, la branda vuota come una bara aperta, nuda nella notte silenziosa, le lenzuola afflosciate sul lato sinistro come un sudario. 

La seconda cosa che notò, dopo l’assenza di William, fu l’assenza di Cedric. Non ci badò, perché Cedric non era nuovo all’andare ai servizi la notte, anche se gli inservienti dicevano sempre che sarebbe stato meglio evitarlo. 

Kenton non si cambiò, non voleva rovinare la divisa che avrebbe messo l’indomani, restò nella sua vestaglia da notte in dotazione del collegio, il cotone leggero che gli sfiorava la pelle e gli faceva venire i brividi. 

Scese dal letto, la pelle nuda toccò il marmo ghiacciato del pavimento, e decise che avrebbe almeno indossato le scarpe, per non morire di freddo andando alla sala della musica. 

Era buio, l’unica luce proveniva dalle lontane finestre, la luna inghiottita da nubi e i lumini della strada. Uscì nel corridoio deserto, dove le mura spoglie di quadri parevano un’infinita distesa di nulla, del bianco opaco della nebbia, uno sfondo anestetizzante, un vuoto viscerale.

Camminò senza la sua candela, l’unica che il collegio gli aveva fornito si trovava ancora nel pavimento dello scantinato, dov’era caduta quando era stato preso dal bacio. Al pensiero, si sfiorò le labbra pallide con le dita. Era ancora fresca la memoria dentro di lui, poteva sentire l’ombra calda delle labbra dell’altro su di sé, che lo chiamavano. 

Scese le scale a tentoni, reggendosi al corrimano e aguzzando la vista nel buio. Quando giunse alla sala della musica, era sicuro che l’avrebbe trovata chiusa. Era sabato sera e la sala sarebbe stata aperta solo il giorno successivo, di domenica. Ai ragazzi era permesso andare laggiù solo nel giorno del Signore, a suonare il pianoforte o il piccolo violino, gli spartiti di ogni opera degna di questo nome disponibili nella grande libreria.

Si guardò intorno, William non era ancora arrivato, poi la sentì. Una singola nota di pianoforte, acuta, un minuscolo grido nel buio, puntuale, che lo portò a irrigidirsi dalla sorpresa.

Convinto che nessuno si potesse trovare al suo interno, che la porta fosse chiusa perché era notte e non era il giorno giusto, posò la mano sulla maniglia in ottone e tirò giù. 

La porta si aprì sotto i suoi occhi increduli, e lui osservò affascinato la sala che si svelava, aperta e silenziosa. In genere quella stanza era colma di studenti alla domenica, alcuni che suonavano e altri che si divertivano, chiacchieravano, a volte addirittura ballavano a ritmo di musica. Questa volta, solo una persona era al suo interno.

L’ambiente era ampio, il tappeto vermiglio con rifiniture d’oro copriva quasi tutto il pavimento, il pianoforte antico era proprio al centro della stanza, mentre il violino su un piedistallo un po’ più in là. La sala era quasi vuota, per dare spazio ai ragazzi per ballare, ma vicino alla finestra stavano quattro poltroncine, e sulla parete opposta una grande libreria per gli spartiti e i libri sulla musica. 

William era là, seduto al pianoforte. Gli dava le spalle, e la luce della luna che entrava dalla finestra lo accarezzava, Avviluppandolo nel suo pallore. Lo vide allungare la mano e suonare un’altra nota, solo una, più profonda che a Kenton fece tremare il cuore nel petto. 

Il ragazzo si destò dalla sua contemplazione e si decise a chiudere la porta alle sue spalle, per poi rivolgersi ancora verso di lui.

“Bill?”

Quella visione sembrava un sogno, o forse il principio di un incubo. Gli pareva che, quando William si fosse voltato, non sarebbe stato il suo bel viso a guardarlo con gli occhi colmi di devozione. Fu certo che, a salutarlo dal suo posto al pianoforte, sarebbe stato un mostro che aveva preso le sue sembianze, che si sarebbe rivelato solo mostrando il volto. Immaginò un paio di occhi gialli come il serpente dell’Eden, un sorriso ferino di denti appuntiti. Immaginò le bellissime sembianze del ragazzo di fronte a lui deturpate e demoniache, immaginò che l’avrebbe divorato intero.

In quel momento, si disse, si sarebbe fatto divorare da lui, se avesse voluto. In quel momento si sarebbe fatto fare qualsiasi cosa.

Il ragazzo al piano si voltò, e non aveva né gli occhi gialli né i canini appuntiti come quelli delle fiere. La pelle bianca brillava alla luce della luna, gli occhi neri di puro inchiostro che lo fissavano.

“Ciao, principino,” gli disse, sorrideva.

Kenton si avvicinò, come irretito da un incantesimo. Forse lo era, forse William era davvero un mostro, venuto sin lì per macchiare la sua anima e costringerlo a peccare, ancora e ancora, senza riuscire a smettere. Aveva l’impressione che, anche se quello fosse stato davvero il motivo per cui lo toccava, anche se gliel’avesse confessato, lui si sarebbe fatto toccare comunque.

Il sorriso di William si allargò, come se avesse sentito il suo pensiero. Si alzò e gli andò incontro, e in mezzo alla sala finalmente furono riuniti. Il ragazzo non disse nulla, intrecciò entrambe le mani alle sue e posò la fronte su quella dell’altro. La sua candela era accesa sul pianoforte, illuminando di luce tremula e allungando le ombre come lunghe dita scure.

“Sai suonare il pianoforte?” sussurrò Kenton, le gambe che tremavano davanti all’intensità del suo sguardo, così vicino. Poteva sentirne il respiro sulla pelle, e avrebbe fatto tutto per potersi avvicinare ancora. 

“Sì,” rispose William, senza distogliere lo sguardo. “Posso suonare per te, se vuoi, domani.”

“In genere alla domenica Tommy suona al pianoforte, Peter al violino.”

“In genere non ci sono io. Se vuoi che suoni per te lo farò, non mi importa di Thomas.”

“Fallo ora,” lo pregò, gli occhi che si illuminavano. “Suona qualcosa per me, solo per me, mentre siamo soli.”

“Sveglierei tutti, non posso suonare adesso. È notte, c’è silenzio, qualcuno verrebbe a controllare.”

William era alto come lui, forse un poco più, era comodo avere la fronte poggiata sulla sua, e le loro mani si incastravano in modo perfetto. Kenton sapeva che il ragazzo aveva ragione, che suonare per lui in quel momento sarebbe stato impossibile, eppure lui ci aveva sperato comunque. 

“Tu? Sai suonare il piano?” chiese William, sentendo che l’altro non diceva nulla.

“No. Sono finito qui che avevo sei anni, non hanno fatto in tempo a insegnarmi.”

 “Perché?”

“Perché ero ancora piccolo. Probabilmente me l’avrebbero insegnato, se fossi…”

“No. Perché sei finito qui? Cosa ha portato un perfettino come te in un posto come questo? Tu sei diligente a scuola, educato con gli insegnanti, rifai il letto tutte le mattine, non hai mai la divisa fuori posto. Tu non sei come noi. Cosa ci fai qui?”

“Te l’ho già detto. Il giorno che sei arrivato qui.”

“No, tu mi hai detto di aver ucciso qualcuno. E non è la verità.”

“E tu che ne sai?”

“Non uccideresti mai qualcuno adesso, figuriamoci a sei anni. Andiamo, principino, devi essere un po’ più convincente di così.”

Kenton chiuse gli occhi e si abbandonò alle sensazioni del suo corpo. Le sue dita, che stringevano quelle di William come se non dovessero lasciarle mai più; la sua fronte, che toccava quella del ragazzo facendo rilassare il collo e le spalle; la sua pelle, tutta, che bruciava per via di quel tocco; il suo cuore impazzito che gli incrinava la cassa toracica squarciandogli il petto.

Non aveva mai detto a nessuno il motivo che l’aveva spinto lì. Neanche Cedric ne era a conoscenza. Il professor Davies lo sapeva, naturalmente, e Kenton sospettava che anche la governante Beverly sapesse. Dei suoi compagni, nessuno era venuto a conoscenza del suo segreto. In quel momento, però, gli sembrò che avrebbe potuto raccontare qualsiasi cosa.

“Era il tre febbraio del quarantasei, saranno dieci anni tra poco. Mio fratello era appena nato, da poco più di tre mesi, e i miei genitori hanno deciso di spostarlo dalla loro stanza alla mia. Era così piccolo, e piangeva. Piangeva continuamente. E io ero così stanco…” sussurrò, tenne gli occhi serrati, non voleva vedere l’orrore sul volto del compagno. “Faceva freddo, un freddo tremendo, e io volevo solo smettere di sentirlo. Volevo solo che la smettesse di tenermi sveglio, erano giorni che non dormivo bene e lui continuava a piangere disperato, e piangere, e piangere... pensavo che sarei diventato matto. Così l’ho fatto. Sono andato a prenderlo nella culla e…” strizzò gli occhi più forte, e avvertì che William stava stringendo le mani nelle sue. “Ho spalancato la finestra, aveva nevicato, mi ricordo che dal freddo mi pizzicava il naso. L’ho preso in braccio e l’ho tolto dalla culla. Tremava, dal pianto e dal freddo, e strillava a pieni polmoni. L’ho poggiato sul davanzale della finestra, il lato di fuori, poi ho chiuso le imposte di nuovo. Intanto, aveva ricominciato a nevicare.” Aspettò qualche secondo, prima di continuare. William non disse nulla. “Quando l’ho chiuso fuori, sentivo il suo pianto ovattato. Sono tornato a letto, senza più quell’urlo assordante nelle orecchie, e mi sono rimesso a dormire. Io non pensavo che sarebbe morto… volevo solo smettere di sentirlo, tutto qui, era una cosa innocente… mi sono addormentato, e al mattino era morto assiderato. L’hanno trovato fuori, me lo ricordo ancora, le labbra erano diventate blu e lui era freddo, gelido… sembrava stesse dormendo. Invece era morto.”

Esalò un respiro tremante, non aveva mai raccontato quella storia ad anima viva. Era stato suo padre a raccontarla al signor Davies al tempo, lui non l’aveva mai pronunciata ad alta voce. Farlo fu come viverla di nuovo.

“Guardami,” gli disse William, sentì morbidezza nella sua voce. Kenton scosse la testa. “Avanti, principino, guardami.”

Riluttante, con calma e circospezione, il ragazzo aprì gli occhi. William lo stava ancora guardando, da quando aveva iniziato il suo racconto non doveva aver mai distolto lo sguardo. 

Kenton trattenne il respiro. “Ora lo sai.”

William gli lasciò le mani, e con entrambe le sue gli accarezzò il volto. Kenton sentì le guance bruciare e le gambe a un passo dal cedere. “Avevi sei anni. Non avrebbero dovuto lasciarti solo con lui. Non è colpa tua. Hai capito? Non è affatto colpa tua.”

“Era mio fratello,” rispose, “e io l’ho ucciso.”

“Eri solo un bambino. Stanco, impaurito e solo. Non pensavi che sarebbe morto, pensavi solo di metterlo fuori per la notte, per non sentirlo piangere. Non volevi ucciderlo.”

“Anche lui era solo un bambino. Era stanco, impaurito e solo. E io l’ho lasciato a morire di freddo come un cane.”

“Tuo fratello non era tua responsabilità. Mi dispiace per quello che è successo, ma non è stata colpa tua. Devi fidarti di me.”

“È così tanto che porto questo peso…”

“Lascia che sia io a liberartene. Hai bisogno di assoluzione, e io voglio dartela.”

“Come puoi assolvermi? Non sei un prete.”

“Io sono tuo. Ha molto più valore questo, dell’essere un sacerdote. Sono carne della tua carne e anima della tua anima, se ti assolverò sarà come se ti fossi perdonato davvero.”

“Puoi davvero farlo? Puoi perdonarmi?”

“Sì. E questo vuol dire che anche tu puoi perdonarti. Tu sei me, io sono te. Siamo legati ora, capisci? Fidati di me,” gli disse, e Kenton si fidò. 

“Ci provo,” rispose, si sporse in avanti e lo baciò sulla bocca, come aveva desiderato fare dalla prima volta che l’aveva visto. 

I loro respiri si mischiarono, fu investito del suo sapore, e quel bacio che si accese tanto in fretta gli fece scordare persino di pregare. Il Signore li avrebbe visti, li avrebbe condannati, ma a lui non importava. Non gli importava dell’assoluzione di Dio in quel momento, non quando ne aveva una molto più importante, quella di William e di riflesso di sé stesso. 

Si ritrovarono subito avvinghiati, famelici, le camicie da notte leggere che facevano sfregare i loro corpi come se non ci fosse niente a separarli, lui riusciva a sentire la pelle calda di William attraverso i vestiti, la sentiva premuta contro di sé e il pensiero di averlo lo inebriava, ubriaco di carne, il desiderio che divampava in lui prorompente, inarrestabile, spingendolo a strusciarsi e gemere in quel bacio sporco e lascivo che gli ridusse la mente a una fitta coltre di nebbia. 

Sentì che lo toccava tra le gambe e il verso primitivo di una bestia gli uscì dal petto, verso che William ingoiò con entusiasmo, la sua lingua in bocca. Le mani del ragazzo gli sollevarono i lembi della camicia da notte, tremanti ma decise, prese dalla fretta e dalla fame di avere più e il più possibile. 

Anche la sua veste si era sollevata e i due corpi collisero uno contro l’altro, senza più niente a separarli. Sentire la pelle del ragazzo a diretto contatto con la sua, sentirlo gemere nella sua bocca, le sue mani che lo toccavano, lo mandò in tilt. 

Santa Teresa, in comunione con Dio, aveva raggiunto l’estasi di corpo e spirito. Era così che lui si sentiva, in comunione col ragazzo davanti a lui, consacrato a lui, anima e carne insieme. Capì allora cosa aveva inteso quando aveva detto che, essendo suo, aveva più diritto ad assolverlo di chiunque altro. C’era qualcosa che trascendeva il piano della realtà nel mondo in cui i loro due corpi si fondevano insieme, qualcosa di sacro e di profano, una perversione santa.

Per un attimo, fu come se si trovassero nel cuore dell’autunno, alla vigilia di tutti i santi. Riusciva a sentire il profumo della terra dopo la pioggia, lo sfrigolare delle braci nel camino. Tutto nella sua mente era rosso, rosso brillante, come il sangue, come il fuoco, come le foglie cadute dagli alberi. 

William continuò a baciarlo, affamato e con foga, e lo spinse verso una delle poltroncine vicino alla finestra. Kenton perse l’equilibrio e cadde a sedere, interrompendo per la prima volta quel bacio che l’aveva travolto come una violenta mareggiata. Il ragazzo gli sfilò la veste e lui fu nudo allora, aperto a lui come non era mai stato, ma non fu preso dall’imbarazzo, forse perché l’altro lo guardava come se non potesse averne abbastanza, come se volesse mangiarlo vivo. Il freddo decembrino non gli pizzicò la pelle, bollente e accaldata dalla foga di prendere il più possibile. 

Anche William si spogliò, di fretta e lasciando cadere la camicia da notte sul tappeto, leggera e silenziosa. Gli portò due dita alla bocca, e Kenton aprì le labbra accogliendole in sé. Le leccò e succhiò sinché William non ne ebbe abbastanza, poi il ragazzo gli allargò le gambe a due mani ed esitò. 

“Cosa c’è?” gli chiese, senza fiato e tremante dalla voglia di averlo su di sé.

“Promettimi che terrai la voce bassa,” gli disse, tenendogli le gambe aperte e continuando a guardarlo come se la sola vista bastasse a saziarlo. “Promettimi che non farai chiasso, altrimenti verranno qui.”

“Lo prometto,” giurò, ansimando ancora per la foga. “Lo prometto, lo prometto, lo prometto,” dirlo una volta non bastava, non gli avrebbe fatto capire a sufficienza che Kenton avrebbe fatto tutto quello che lui voleva, il suo verbo era legge, per lui. 

William sorrise allora, angelo caduto, la più bella tra le creature di Dio ridotta all’esilio e alla dannazione. “Bravo, principino,” disse, e quando le dita umide entrarono in lui quella promessa fu difficile da tenere inviolata.

*

Dopo che l’unione carnale dei due corpi in uno si fu consumata, quando entrambi ebbero raggiunto l’apice e si abbandonarono l’uno sull’altro, esausti e accaldati, sulla scomodità di quella poltroncina, indugiarono ancora un po’ nella sala, a scambiarsi baci e carezze, la tenerezza di quel momento gli riempì il cuore tanto che traboccò, come un vaso colmo, facendo sgorgare fuori tutto l’affetto che provava e riempiendone i loro corpi, la stanza, tutto il mondo.

Quando, dopo avere saziato i loro bisogni più bassi, ebbero saziato anche l’amore, William si alzò e si infilò la sua veste di lino, candida e leggera, che gli coprì tutta quella pelle bianca e la sua costellazione di nei su cui finalmente Kenton aveva potuto passare la mano, sfiorandoli uno dopo l’altro con calma e devozione. Anche lui si vestì, e decisero che era ora di tornare in camerata. 

William afferrò il reggicandela, la lucina tremula era stata sul pianoforte per tutto il tempo che erano stati insieme, e uscirono sul corridoio gelido. Fu allora che Kenton notò che qualcosa non andava. La porta della cappella, proprio davanti a quella della sala della musica, era aperta, spalancata. La luce fioca della candela la mostrava inequivocabile, come uno strappo sul mondo.

“Cosa ci fa la porta della cappella aperta a quest’ora?” chiese, la fronte aggrottata e un brutto presentimento che iniziava a stringergli le membra ancora rilassate per l’incontro appena avvenuto. 

“Qualcuno si sarà dimenticato di chiuderla. Vieni, andiamo.”

“Voglio controllare,” insistette, certo che quel segno nella notte fosse un segno infausto, nell’intimo dei suoi pensieri consapevole che qualcosa di orribile stava per accadere. 

“Va bene, ma facciamo in fretta. Più tempo passiamo qui, più è probabile che qualcuno si accorga che manchiamo.”

“Ci metterò un minuto, promesso.”

Kenton non mantenne la promessa. Non la mantenne perché, quando attraversò con William la navata della chiesa, quando guardandosi intorno con circospezione finalmente arrivò all’altare, fu come se qualcuno avesse afferrato la terra da sotto i suoi piedi e con violenza l’avesse ribaltata.

Sull’altare di marmo bianco, steso supino, stava Cedric. Aveva il volto paonazzo e gli occhi sgranati, quasi fuori dalle orbite. Era nudo, in ogni sua parte, e aveva un crocifisso infilato in gola e uno nel retto, che spuntava tra le gambe da cui gocciolava anche qualche goccia di sangue. La pelle del viso era tirata, come se si fosse gonfiato sul punto di scoppiare.

Era grottesco, orrendo, bestiale. Cedric era morto, quello era il suo cadavere, e Kenton, incredulo e disperato, iniziò a urlare. 

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